Ciak, si gioca. Socioplay e Cinema LGBT a Roma
Negli ultimi anni l’avvento di internet, come del cinema IMAX, 4D e ISENSE, ha guidato sempre di più la nostra attenzione verso esperienze cinematografiche dove la spettacolarità delle storie raccontate diventa un tutt’uno con un’esperienza visiva straordinaria.
Questa esperienza rimane, però, per lo più privata: non c’è spazio per un confronto con gli autori e i registi che vi hanno lavorato e, addirittura, tra i diversi spettatori. Certo, esistono i social network, i webforum e i siti dedicati al cinema dove è possibile commentare o recensire, insieme ad altri utenti, se un film ci è piaciuto oppure no. In ogni caso, resta assente un confronto vis-a-vis con l’altro.
Tutte queste considerazioni, legate al mio amore per il cinema e il mio lavoro con pazienti LGBT, mi portarono ad affrontare un’impresa che mai avrei pensato potessi affrontare.
Nell’inverno del 2015 avevo iniziato il terzo anno della scuola di specializzazione in psicoterapia e tutto sembrava andare bene anche se mancava qualcosa.
Vivevo un periodo di insoddisfazione in cui cercavo delle novità, nuove sfide intellettuali e lavorative da affrontare. Ne parlai con il mio supervisore cercando nuove idee, pensando a qualcosa che possa attirare la mia attenzione e suscitarmi interesse.
Iniziai così a propormi alle associazioni che si occupano di diritti GLBT a Roma. In ogni struttura in cui entravo, l’idea di offrire le mie competenze (gratis) conducendo dei gruppi di psicodramma per i soci, venne sistematicamente declinata, a volte neanche in modo tanto gentile. I vari presidenti mi davano il due di picche nei modi più disparati: “Mi sembra una bella iniziativa! Chiamami la prossima settimana e vediamo di organizzare qualcosa” (Anddos), salvo poi non rispondermi più al telefono; “Guarda, è una bella cosa, ma ora non ho tempo, a limite mandaci una mail e quando avrò tempo ti risponderò”, detto velocemente sull’uscio della porta dell’ufficio (Gay Center); in un’altra associazione, dopo aver contattato la loro psicologa ‘interna’ e informata sull’iniziativa, mi risposero: “La nostra psicologa non è interessata. Ma poi, chiedeva anche cosa fosse ‘sto dramma che dici te?” (Dgay Project). Infine, dall’ultima associazione contattata (Circolo Mario Mieli) aspetto ancora oggi una risposta.
Insomma, sembrava proprio che le associazioni GLBT fossero troppo occupate per accogliere una proposta gratuita di un giovane psicologo gay… “Non c’è un ritorno di soldi e visibilità politica, quindi non sono interessati. Anziché collaborare, si mettono in mostra solo per fare le prime donne”, fu il commento acido ma veritiero di un amico con cui mi confidai.
Un giorno, durante uno dei colloqui con il mio supervisore, mi ricordai di un incontro. Alfredo l’avevo conosciuto un anno prima, durante un evento al Gay Center di Roma: organizzava da vari anni un cineforum con film inediti a tematica GLBT, ogni anno in un posto diverso. E con il ricordo arrivò l’idea: inserire nella sua rassegna un dibattito post-film con l’utilizzo di tecniche attive come lo psicoplay e il gioco di ruolo! E questa esperienza sarebbe stata la prima condotta in Italia!
Mi misi in contatto con lui tramite un amico comune e in meno di due giorni lo incontrai: il sorriso e l’entusiasmo di Alfredo mi travolsero come un fiume in piena: non lo sapevo fino a quel momento ma, demotivato dalla “lotta” contro le associazioni, stava per abbandonare la rassegna. Le associazioni, anziché appoggiare e facilitare il suo progetto di divulgazione culturale, lo ostacolavano. Ne sapevo qualcosa anche io, gli dissi.
Alfredo ritrovò energia e continuò a ringraziarmi per aver pensato a lui e al suo lavoro in ambito cinematografico: da anni, da solo, traduceva dallo spagnolo (quasi sua madrelingua) tutti i film che trovava in giro per il mondo e che in Italia venivano fermati alla frontiera.
Stanco delle limitazioni imposte dalle associazioni, Alfredo si fece venire un’idea. “C’è un posto”, dice, “dove possiamo lavorare tranquillamente: il centro sociale Pentax”.
Il giorno dopo eravamo lì. Alfredo mi mostrò “la sala rossa”, nome perfetto sia per la proiezione dei film, sia per i fini politici che guidano i giovani occupanti del Pentax nella loro personale “lotta contro il sistema”. La sala rossa è uno spazio scarno, vetri rotti alle finestre, sedie scompagnate e apparecchiatura un po’ datata. “Sai, qui ci si autogestisce, però stiamo tranquilli” mi disse Alfredo sorridendo, come per rassicurarmi. Chissà che faccia avevo! D’altronde, pensai, tutti i grandi hanno iniziato dal basso. E io non farò eccezione a quanto pare.
L’esperienza al Pentax fu davvero faticosa ma intensa. Tutto lo sforzo fatto per rendere le serate piacevoli, interessanti e traboccanti di contenuto utile al pubblico a volte era stato capito, a volte no. L’atteggiamento arrendevole del mio socio (gli spettatori pagavano la serata con un’offerta libera, spesso misera) e l’assenza del desiderio di evolversi furono solo alcuni dei motivi che spinsero ad abbandonare la rassegna.
Oltre a motivi cosiddetti tecnici, come la scrittura della tesi per la mia specializzazione in psicoterapia, avevo bisogno di nuovi stimoli, di sentirmi più apprezzato, di fare qualcosa di più utile, per me e per gli altri.
Però non tutto fu vano: questa esperienza mi incoraggiò a farne un libro (di cui aspetto la pubblicazione) per essere d’aiuto a persone che, presenti o non presenti a quelle serate, affrontano i loro problemi di identità ogni giorno da soli.
E poi, il dovermi misurare in modo così faticato da essere quasi eroico (definizione che un’antropologa mi regalò leggendo il mio resoconto) con una situazione così precaria mi permise di guardare ai miei limiti e a capire cosa volevo davvero, mi impose di prendere in mano le mie competenze, il mio tempo e la mia attenzione per incanalarla in progetti nuovi, stimolanti e dignitosi per il mio Sé professionale.
Forse al Pentax, ad Alfredo e a quel pubblico svogliato e introverso delle nostre serate oggi devo un grazie di indiretto incoraggiamento. O almeno per averci provato.
Questa esperienza di conduzione di un cineforum a tematica GLBT mi ha permesso di mettere in comunicazione, confrontare e inserire i miei vissuti personali e quelli del pubblico utilizzando come guida le storie proiettate durante la rassegna.
Quale strumento migliore dello Psicodramma, l’efficace tecnica inventata dallo psichiatra Jacob Levi Moreno, per affrontare, svelare ma anche divertire il pubblico?