Cronache dal Cineforum/Psicoplay LGBT
29-07-2015
Siamo in un liceo statunitense. Russell è un ragazzo diligente, buono e un po’ timido. Ad una gita conosce Kevin, capitano della squadra di football. Si baciano, ma vengono visti da Kim, una loro compagna. Tornati a casa, Kim contatta Russell e lo invita a fare parte del club di geografia della scuola. Il club in realtà non esiste, ma è un gruppo di sostegno reciproco per alcuni ragazzi gay o semplicemente “diversi”. Russell cerca di convincere anche Kevin ad entrarci e a “rivelarsi”, dopo essere stato a casa dei suoi genitori ed aver scoperto come l’atleta abbia una famiglia aperta e moderna. Alla fine, quando il club di geografia decide di rivelarsi come club autentico di aiuto e sostegno per tutti i ragazzi della scuola, Kevin non ce la fa e resta nell’anonimato.
E’ una serata calda, ma non troppo. Il piazzale sembra aspetti da un momento all’altro chissà quante auto. Nell’aria, solo il suono degli irrigatori del campo da Rugby e il profumo di erba misto alla cucina “sociale” dei ragazzi dell’Acrobax. Il pubblico arriva alla spicciolata e fa una triade di domande. Ci sono abituato, dopo tante settimane: “Ah ma non era più tardi?”, “Posso mangiare prima del film?” e “Non sono mai venuto, come funziona?” sono le domande più gettonate a cui io e Fabio rispondiamo rassicurandoli. La sfida di stasera è A.: una persona quasi sulla sessantina, capelli grigi, vestito come per una passeggiatina estiva, magari in strade mai percorse prima. Fabio, avverte A. che dopo il film ci sarà il dibattito con lo psicologo che risponderà a domande e curiosità del pubblico. “Ci mancava solo lo psicologo… Vorrei sapere che cosa c’entra lo psicologo con una rassegna di cinema LGBT. Tra l’altro ho anche ‘già dato’ fin troppo agli psicologi. Penso proprio che dopo il film andrò via”.
Nonostante sia l’ultima proiezione della stagione, incontro per l’ennesima volta il “bastian contrario” intellettuale. Il piglio che assume nel parlare mi ricorda alcune madri, tra cui la mia, che vogliono tutto e subito… ”Pensiamo alle cose serie!”. Sorrido fra i pensieri.
Quando il film finisce, mi dirigo sicuro davanti al proiettore. Dovete sapere che Fabio è anche il nostro scenografo: sistema le luci, spegne il proiettore e crea silenzio fra il pubblico annunciando che arriva il dibattito. A volte, mi sento come il maestro che arriva in classe mentre gli i ragazzini fanno baccano. Il tema del film da estrinsecare stasera è l’omofobia interiorizzata, ovvero un’istanza psichica presente all’interno della persona omosessuale che non gli permette di vivere serenamente la propria sessualità. E il proprio amore.
“Questo accade perché sia noi stessi a voler mostrare un’immagine stereotipica che la società ci rimanda, ad esempio, con il Gay Pride… una carnevalata oscena che non mi rappresenta”. Con mia sorpresa, A. è il primo a prendere parola. E’ rimasto alla fine.
Il borbottio di alcuni membri del gruppo, segnala un vulcano che sta per esplodere: la terra trema, il rumore delle rocce che si spaccano aumenta e il fumo si vede anche da lontano. Il vulcano in questione, è C.. “Ma così stai negando la libertà di espressione che, chi partecipa al Pride, sceglie di avere. Tra l’altro, se loro la organizzano, avranno il diritto di mostrare quello che vogliono. E’ come con la Chiesa: non possiamo sempre dire ciò che non ci piace e criticare le persone che hanno una fede. E’ una mancanza di rispetto reciproca”. La mancanza di dubbi e, anzi, la totale sicurezza di sé di C. mi colpiscono. C. si scaglia ideologicamente contro l’avversario come in una sfida col fioretto. Assertivo, ma non aggressivo.
Faccio un esempio, provocatorio: ricordo al gruppo di come episodi di cronaca su aggressioni di ragazzi gay da parte di ragazzi o uomini etero facciano parte di un piccolo, piccolo, piccolo Etero Pride.
Aspetto, sul finire della mia frase, una reazione di V. che non tarda ad arrivare. “Eh però, io sono etero e mi sento offesa e colpita da questa tua affermazione” poi sorridendo, mi spiega che ha compreso appena un attimo dopo la mia provocazione e mi da ragione.
Eppure A. ha ancora bisogno di una risposta soddisfacente. Probabilmente si aspetta un rispecchiamento che tardava ad arrivare. “Per avere una rappresentazione di sé o di altre espressioni dell’essere omosessuale, deve partecipare attivamente all’evento: solo così potrà mostrare all’opinione pubblica come non esista solo il ‘gay con le paillettes’ ma anche il gay che affronta la quotidianità e la sua voglia di diritto e riconoscimento in giacca e cravatta”. Sento dentro di me di aver completato una sequenza che era rimasta in sospeso, come un’aria che non trova fine.
Il pubblico si appassiona, freme. Mi ascolta. Lo sento con tutto il mio essere. “Adesso vorrei due volontari per lo psicoplay”. Arrivano timidamente AN. e A. e li invito a creare una scultura che rappresenti la posizione e lo stato d’animo dei due protagonisti della storia che hanno visto.
Tutti e due assumono due posizioni simili. Accovacciati su se stessi, comunicano due immagini diverse: mentre A. ha lo sguardo rivolto al pavimento e dà quasi le spalle a chi lo guarda, AN. è rivolto verso il pubblico a testa alta.
Su mia indicazione, ogni membro del gruppo esprime una parola per descrivere le due sculture. Il binomio più rilevante è quello indicato da V.: uno si tuffa, l’altro salta. Entrambi indicano alla perfezione la voglia di nascondersi e la voglia di rivelarsi e vivere serenamente la propria sessualità.
Siamo alla fine. Saluto il gruppo e lo invito al prossimo appuntamento dopo l’estate.
La stanchezza che sento in quel momento, mi da anche piacere. I ringraziamenti da parte di ogni membro del pubblico mi fanno capire che qualcosa di buono devo averlo pur fatto.
Incredibile. Ma per chi? Loro sembrano contenti.