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GIOCO E CREATIVITA' di Accursio Gennaro

Nel periodo evolutivo diversi fattori e condizioni entrano in gioco nell'organizzazione della creatività. Processi cognitivi ed esperienze emozionali e relazionali coesistono, supportano e promuovono le graduali acquisizioni del bambino nella sua interazione con il mondo circostante.
Nel repertorio esperienziale del bambino l'oggetto, incontrato nella sua fisicità e poi metabolizzato per diventare sempre piú vivo e funzionale, costituisce l'elemento attorno a cui ruota lo sviluppo della personalità.
L'oggetto è, da un lato, l'elemento nuovo dell'ambiente e, dall'altro, l'elemento primario dell'universo relazionale del bambino; infatti, è nel rapporto con le figure di accudimento che si innescano e si modulano le prime e insostituibili dinamiche di relazione vissute dal bambino. Ciò significa che l'area che possiamo definire di costruzione dell'oggetto è ampia e diversificata: esemplificando, il bambino utilizza l'oggetto cognitivamente e affettivamente, nel senso che egli stesso si fonde con l'esperienza vissuta assieme alle figure di accudimento.
Data la significatività di questo processo, ci è sembrato opportuno evidenziare l'organizzazione delle competenze cognitive ed emotive del bambino nella sua capacitá di costruire l'oggetto. Tuttavia, sarebbe stato incongruo, nell'economia di questo studio, valorizzare solo la dinamica della relazione oggettuale senza considerarne le Implicazioni cognitive e quelle comportamentali. Lo scopo è quello di individuare una connessione tra la «motivazione» che il bambino esperisce, nel suo sviluppo, con l'oggetto e gli oggetti che cominciano ad essere mentalizzati, permeando quella che diventerà la sua «originaria impronta».
In tale prospettiva, questa elaborazione pone molta attenzione all'esperienza dell'oggetto vissuta attraverso il gioco. Non c'è teoria clinica ed educativa, o strettamente pedagogica, che eluda il livello di potenzialità e di trasformazione implicato dal gioco nel farsi azione. Pertanto, la scelta di radicare la nostra trattazione nella teoria di Winnicott deriva soprattutto dal fatto che essa permette di caratterizzare la costruzione della personalità del bambino e di evidenziare la singolarità del gioco come esperienza stessa di vita, senza la quale non vi possono essere nè maturazione nè i presupposti per un sano sviluppo.
Il gioco winnicottianamente inteso è modalità ludica, è processo evolutivo, è consolidamento del senso del sé, è rapporto terapeutico, è relazione naturale che tocca il cuore della vita psichica del bambino. Il gioco è processo creativo che inerisce all'itinerario di crescita dell'individuo e sostiene tutta la costruzione della personalità in quanto la creatività permea tutte le dimensioni della mente.
La creatività e il gioco, riflettendo la vita, «l'esserci», e le cose pensate, intenzionate e agite, rinviano l'una all'altro, secondo una giunzione singolare che consente di farci comprendere la qualità di certi stati mentali, la conflittualità di alcune condizioni evolutive, la problematicità di molte esperienze di vita.
La creatività è l'area della vita realmente vissuta che emerge nel divenire stesso; puó essere ostruita nella sua forza propulsiva o addirittura bloccata, ma come flusso ininterrotto, in quanto espressione vitale, funziona secondo un suo peculiare processo di autoregolazione. La creatività riflette sempre la vita psichica, dunque non puó non risvegliare o non portare nuova linfa a ció che psicologicamente potrebbe restare imbrigliato e cristallizzato e, quindi, condurre verso un fatale letargo.
Qui si coglie tutta la portata qualitativa dell'esperienza transizionale, sia nelle sue prime tappe organizzative segnate dagli oggetti transizionali sia nelle piú emancipate organizzazioni mentali create dai fenomeni transizionali. Ciò che caratterizza l'esperienza transizionale è sempre la qualità «dell'esperienza vissuta» fra interno ed esterno, in cui la sua mobilità è premessa per il divenire e per dar vita a situazioni concretamente radicate nell'ambiente. Non tutto ció che viene dall'interno riesce a diventare reale: una sana fantasia deve aspettare il suo tempo per «farsi cosa». Le transizioni piú semplici, quelle che riguardano i moti affettivi, le relazioni significative, l'attendibilità del sé, richiedono di essere liberate da tutti gli orpelli di verbosità, mistificazione, manipolazione, spesso inconsci e impliciti, che possono imprigionare la creatività.
In questo senso, l'area intermedia di esperienza è il motore della transizione e ció che continuamente, come direbbe Winnicott (1971), «sta li per essere scoperto e creato» e per mobilitare e riequilibrare le aree mentali minacciate dalla stasi e dalle inquietudini «dell'ombra».

1. La costruzione dell'oggetto nella prima infanzia

Attraverso quali processi il bambino accede alla creatività? Quanto è importante l'interazione madre-bambino in quel complesso e articolato intreccio di esperienze affettive, cognitive e relazionali da cui originano la nascita del simbolo e la costruzione della realtá oggettuale? Che ruolo ricoprono gli oggetti nelle variegate modalità dell'esperire? Ovvero, quali fattori modulano il fenomeno della creatività nel processo di organizzazione e costruzione della personalità?
Il pensiero creativo nella sua genesi, evoluzione e organizzazione rappresenta un tema centrale dell'indagine scientifica in relazione all'esigenza di specificamela fenomenologia sin dalle prime fasi dello sviluppo infantile. La creatività, infatti, permea significativamente tutta la vita psichica dell'individuo, consentendo un rapporto vitale con il mondo.

L'impulso creativo, come nessun'altra cosa, dà al bambino il senso di essere vivo (...) è qualcosa che è presente quando chicchessia - poppante, bambino, adolescente, adulto, vecchio - guarda in maniera sana una qualunque cosa o fa una qualunque cosa deliberatamente [...1 così che il suo impulso creativo possa prendere forma e il mondo possa esserne testimone (Winnicott 1971; trad. it. 1974, p. 125).

La costruzione del «mondo» si realizza, per tutto il primo semestre di vita, su una base ideativa connotata dapprima in modo magico-onnipotente (1°-2° mese), poi in modo protosimbolico (3°-6° mese), per assumere, nel corso del semestre successivo, una connotazione simbolica che solo intorno al secondo anno di vita si arricchisce di caratteristiche di stampo referenziale e comunicative. Originariamente, dunque, il neonato è autore di una creazione allucinata dell'oggetto, nel secondo semestre sarà capace di farne uso, e solo nel secondo anno abiterà un universo oggettuale e individuato, esterno, unitario e differenziato.
Quando da una modalità fusiva e confusiva di funzionamento mentale, il cui unico prodotto è l'oggetto soggettivo, si passa a quella protosimbolica, si comincia a ricondurre gli oggetti sconosciuti a quelli conosciuti, gli aspetti della realtá esterna a quelli della realtá interna. In coincidenza con l'emergere del protosimbolismo si assiste nel bambino al viraggio dalla capacitá di creare oggetti soggettivi, oggetti che sono un tutt'uno col soggetto, alla capacitá di creare oggetti sostitutivi, cioè oggetti adoperati, in modo primitivo: è il passaggio dalle preconcezioni - tipiche del neonato e costituenti le competenze di base di ogni uomo - agli oggetti della realtá esterna ancora sconosciuti, a cui il bambino tenta di dare un senso, cogliendo somiglianze e differenze, attraverso le operazioni di corrispondenza, equivalenza, generalizzazione o differenza (cfr. Fornari 1963; Riva Crugnola 1992, 1993).
Si è arrivati a parlare di competenze di base o di preconcezioni grazie ai risultati delle moderne ricerche della psicologia dell'etá evolutiva, che hanno chiarito come il neonato non sia un organismo inerte, passivo, tabula rasa, ma sia dotato di molte e specifiche competenze percettive, sensomotorie e cognitive (Battacchi 1985; Berti, Bombi 1985; Oliverio Ferraris 1999).
Per esemplificare, già dai primi minuti dopo il parto il neonato è in grado di seguire i movimenti oscillatori della testa della madre posta a una distanza di 23 cm - che è quella tra la madre e il bambino durante l'allattamento - anche se i suoi movimenti oculari sono scoordinati e meccanici. Inoltre, il neonato, tra le 12 ore e i 2 giorni di vita, sembra muoversi in perfetta sintonia con il ritmo parlato umano qualsiasi sia la lingua utilizzata e, a 4-5 giorni, dirige lo sguardo verso la fonte sonora anche senza vederla; già a 6 giorni riconosce l'odore della madre e del latte materno e, dopo le prime settimane, ruota la testa verso la fonte luminosa, mostra una preferenza selettiva per il volto umano, in particolare per quello materno e specialmente per la zona degli occhi, tenta di difendersi da oggetti solidi che si avvicinano a una certa velocità sulla sua traiettoria di collisione, li mette a fuoco se posti alla distanza media di 23 cm e compie movimenti oculari in concomitanza con i movimenti posturali.
Alla precoce capacitá di coordinazione percettiva e riflessoria si accompagna una precoce capacitá cognitiva e simbolico-affettiva basilare per la costruzione di schemi protorappresentativi, di tipo semiotico, degli oggetti che compongono la realtá.
Nell'ottica di una precocità originaria vanno considerate le attività sensomotorie quali il guardare intenzionale, il voltarsi verso l'oggetto direzionando su di esso lo sguardo, l'indicarlo con la mano o con l'indice, tutte attività che, collegate per lo piú all'interazione con l'altro, comportano già, sul piano sensomotorio, l'attivazione di un processo di separazione/distanziamento tra sé-oggetto-altro che sarà poi fondamentale per il sorgere della funzione simbolica. Le attività basate su processi di tipo incorporativo (prendere in mano l'oggetto, manipolarlo, metterlo in bocca), attuate dal bambino nel primissimo periodo dello sviluppo (1-2 mesi), rappresentano invece l'espressione di una condizione di indifferenziazione tra sé e oggetto. Tali attività non sono ancora delineabili come protosimboliche perché si realizzano in una condizione di fusione, di indifferenziazione, mentre nella fase protosimbolica si interpone una distanza, seppur minima, tra sé-altro-oggetto (Fornari 1963; Riva Crugnola 1992, 1993).
L'attivitá sensomotoria sottende finalità adattive ed esplorativo-conoscitive, infatti l'azione rappresenta la prima modalità d'intervento sulla realtá poichè solo agendo su di essa si puó conoscerla, comprenderla e adattarvisi. A differenza della percezione però, che prevede una registrazione a distanza delle informazioni, l'attività esplorativa permette di scoprire nella realtá qualità di tipo dinamico e funzionale. La funzione della rappresentazione motoria, che è una costituente del processo di costruzione della realtá esterna, lo diventerà anche degli oggetti psichici, che saranno la naturale sovrastruttura della rappresentazione motrice (Benelli et al. 1980).
È evidente, quindi, come nell'attività percettiva e in quella sensomotoria del bambino sono riscontrabili processi di carattere protosemiotico, poichè esse già nella prima infanzia sono informate da primitivi processi cognitivi di confronto, di generalizzazione, di assimilazione della discrepanza (Varin 1986). All'azione sensomotoria, che si puó configurare come la prima e piú diretta modalità di intervento sulla realtá, è addebitabile l'organizzazione delle prime forme di conoscenza, basate su schemi generici e specifici che funzionano come degli a priori, consentendo, da un lato, di assimilare gli oggetti ignoti sulla base di categorie già note e di moduli preesistenti, dall'altro di individuarne le specifiche proprietà dinamico-funzionali. Gli schemi di azione definiti generici, funzionanti dai 6 ai 12-13 mesi circa, quali agitare, battere, toccare, portare alla bocca ecc., vengono indifferentemente applicati dal bambino a tutti gli oggetti con i quali entra in contatto. L'utilizzo dell'oggetto è autocentrato e si svolge secondo finalità assimilative; l'oggetto è considerato nella sua globalità indipendentemente dalle sue articolazioni e specificità funzionali (Benelli et al. 1980).
In un secondo periodo, che va dai 12-13 ai 18-20 mesi circa, si assiste al passaggio da modalità interattive di tipo propriocettivo a modalità di tipo periferico dirette verso l'esterno; il bambino comincia ad applicare schemi di azione specifici, quali azionare dispositivi meccanici, infilare/sfilare, mettere dentro/estrarre ecc., rivolti esclusivamente a un oggetto o a una categoria di oggetti, schemi che aderiscono maggiormente all'oggetto e alle sue proprietà dinamico-funzionali. L'utilizzo dell'oggetto adesso è eterocentrato e si svolge secondo finalità distintive, ossia con lo scopo di reperirne le caratteristiche specifiche che lo contraddistinguono dagli altri. Gli schemi di azione specifici fondano l'esplorazione degli oggetti nelle loro parti e nelle loro funzioni e organizzano in tal modo forme prelinguistiche di conoscenza piuttosto che assimilare, come in precedenza, tali oggetti al ristretto e già noto repertorio degli schemi generici. L'attività esplorativa costituisce, dunque, una modalità intenzionalmente finalizzata alla conoscenza dell'oggetto, tanto che nel bambino prelinguistico si configura come il principale stru-mento per la costruzione di contenuti di conoscenza stabili e congrui (Benelli et al. 1980).
Il tema dell'ontogenesi del simbolo nell'ambito dello sviluppo infantile presuppone l'esistenza di uno stretto collegamento tra processi di simbolizzazione cognitivo-affettiva e di costruzione della realtá oggettuale (Fornari 1963; Riva Crugnola 1992, 1993).
Dopo la nascita fisiologica e psicologica del soggetto, il percorso verso un'autentica relazione oggettuale si compie attraverso l'acquisizione cognitivo-affettiva della consapevolezza della separazione, di me come «essere separato» promossa dalle funzioni psichiche della motilità, della percezione, della memoria e dalle funzioni piú complesse dell'io.
Infatti, nel primo periodo - intorno al primo semestre - di vita, un periodo ancora «asimbolico», le esperienze del bambino sono centrate, come abbiamo visto, su attività di tipo sensomotorio e la relazione che intercorre tra madre e bambino presuppone una condivisione indifferenziata di tali esperienze. La fase protosimbolica è caratterizzata dall'esistenza di una duplice componente: cognitiva e conativo-affettiva, radicata nell'attività sensomotoria e generata da una matrice di tipo intersoggettivo, costituita dall'interazione madre-bambino-oggetti inanimati. Al fattore intersoggettívo, aspetto cardine dell'esperienza protosimbolica, è strettamente legato il pro-cesso di attribuzione di significato, che conferisce senso e direzione al rapporto del bambino con il mondo (cfr. Fornari 1963; Bruner 1973; Trevarthen 1977; Stern 1985; Riva Crugnola 1992, 1993; Ca-maioni 1993). Le esperienze sensomotorie si delineano come diretti precursori di quel tipo di attività referenziale che sta alla base della formazione del simbolo. Verso il secondo semestre di vita tali esperienze implicano una maggiore differenziazione.
Durante la transizione tra il primo e il secondo trimestre si assiste, infatti, al passaggio da uno stato in cui il bambino e la madre sono un tutt'uno a uno di progressivo allontanamento: il cordone ombelicale, fisiologicamente reciso alla nascita, dal punto di vista psicologico continua ancora a legare la diade madre-figlio per tutto il primo semestre, assottigliandosi durante il secondo trimestre, per spezzarsi nei sei mesi di vita successivi. Solo allora il bambino evolverà da uno stato di integrazione primaria, dove l'io era un insieme di sensazioni frammentarie e scollegate, a uno stato di integrazione caratterizzato dalla percezione di avere un dentro e un fuori, conquistando un'identità psicosomatica. Si passa così da una condizione di dipendenza assoluta, vissuta onnipotentemente, a uno stato di indipendenza che comporta la consapevolezza del limite e della dipendenza. È un percorso che contemporaneamente conduce alla costruzione e alla scoperta del sé e alla costruzione e alla scoperta dell'altro in senso sociale (l'altro come colui con cui entrare in relazione), in senso intellettuale (l'altro come oggetto di conoscenza), in senso affettivo (l'altro come fonte di piacere o di dispiacere).
Tuttavia, le modalità attraverso cui si dispiegano le diverse traiettorie esperienziali del bambino sono singolari e non è possibile assolutizzare il carattere e il significato della relazione con l'oggetto e il suo riverbero nel mondo interno. Mentre in linea generale possiamo sottolineare che la differenziazione e la capacitá di generare ed esperire simboli conferisce al bambino un'autonomia che lo porta sempre piú a organizzare la sua identitá, non va trascurato il fatto che sono diverse e fortemente personali le fonti e i tempi che possono alimentare, o ostruire, tale organizzazione.
La letteratura psicodinamica ha messo in luce la capacitá del bambino di sviluppare autonomia e costanza oggettuale sulla base del corredo genetico e quindi del patrimonio biologico. Al contempo, sono state rilevate dinamiche intrapsichiche precoci che si organizzano nella vita mentale (Greenberg, Mitchell 1983).
La psicoanalisi dell'Io, nella varietà dei suoi contributi, ha permesso di tracciare l'itinerario evolutivo del bambino ancorandolo ad apparati di autonomia genetica primaria - percezione, memoria, apprendimento - e, quindi, a percorsi «lineari» dello sviluppo. Ciò implica che la relazione con l'oggetto è largamente dipendente dalle basi biopsicologiche dell'individuo, che solo successivamente evolvono nella loro qualità psicologica. L'oggetto, quindi, è una graduale acquisizione del bambino, non è una scoperta o una «pulsazione» del suo mondo interno ma è il mondo che si offre al bambino nella sua possibilità di essere pensato e vissuto emozionalmente.
L'individuazione del bambino diviene una tappa perseguibile se le precedenti esperienze lo hanno condotto a esprimere le sue emozioni per poi ristrutturarle con la costanza dell'oggetto. Il bambino puó, così, vivere la sua differenziazione, sperimentare il mondo, percepire le prime modalità di crisi per poi riavvicinarsi alla sua realtá primaria, la madre, riconoscendo che attraverso lei puó stabilire rapporti adeguati con gli oggetti.

Ad esempio l'angoscia, una manifestazione che spesso impatta con il mondo emozionale del bambino, puó essere assorbita senza particolari fattori traumatici se l'ambiente esterno è responsivo, non deprivante, sintonico con i suoi bisogni.

Forme di attaccamento deprivanti oppure condizioni storico-ambientali difficili influenzano lo stato mentale del bambino e possono imprevedibilmente generare conflitti e situazioni patogene con l'oggetto. La deprivazione dell'oggetto puó generare difficoltà, puó diventare dirompente, tanto violenta da sopraffare il senso di intimità del bambino nel pensare al suo oggetto assente, alla possibilità di recuperarlo o alla triste realtá di averlo già perso. L'oggetto, anche se carico di affettività, in condizioni di deprivazione potrebbe diventare asettico, privo di tonalità vissute capaci di emozionare il bambino.

Nella psicodinamica delle relazioni oggettuali si sono ipotizzate modalità di relazione con l'oggetto permeate da altri processi, in cui il mondo interno risulta dominante o è, in qualche misura, teatro della realtá esterna. L'oggetto reale viene fantasmatizzato, caricato di un «simbolismo estremo», che va oltre la simbolizzazione dell'esperienza proprio perché il bambino, oltre a caricare di significato l'oggetto, puó trasformarlo indefinitamente. Questo processo fa costitutivamente parte del mondo interno del bambino, delle sue fantasie e delle direzioni, spesso indecifrabili, che esse prendono. Tutto diviene possibile perché la fantasia, espressione mentale delle pulsioni, puó continuamente rapportarsi a oggetti attribuendo loro un significato che va oltre il «segno comunicato dall'inconscio». L'emozione del bambino è un tutt'uno con l'oggetto; a ragione di ció esso puó essere bramato e distrutto e,successivamente, grazie all'integrazione dell'io, amato, riparato e sperimentato con gratitudine. Quando l'integrazione del bambino con l'oggetto viene esperita è possibile ricomporre le fantasie e dare ad esse una direzione rappresentativa, in cui interno ed esterno interagiscono in una condizione piú fluida ed emozionalmente stabile.

L'oggetto è veramente tale se è reale, se non è una modalità fantasmatica ma riflette effettivamente le condizioni storico-evolutive; in tal modo, la privazione e la deprivazione diventano le modalità entro cui inscrivere le possibili direzioni bambino-oggetto. Ciò costituisce una posizione fondamentale dal momento che l'oggetto reale resta sempre concreto e perde tale caratteristica quando la deprivazione costringe il bambino a compensare nel suo mondo interno tutto ció che esternamente è precario e non disponibile. Il rapporto con l'oggetto, in condizioni evolutive ottimali, puó diventare una dipendenza sana, verso oggetti sentiti e realmente vissuti come potenzialmente disponibili, sempre.

D'altronde va riconosciuta la normale ambivalenza oggettuale: le personificazioni dell'oggetto - come buono o cattivo - che il bambino si crea e che possono, in quanto simbolizzati dalla sua esperienza «sintassica», influenzare il suo sviluppo psicologico fino alla tarda adolescenza e alla sconfinata apertura che essa determina. Si sottolinea, ancora, l'importanza dell'oggetto reale che determina possibili conflitti e continui aggiustamenti evolutivi sulla base delle interazioni madre-bambino e bambino-ambiente interpersonale. Se la relazione che si stabilisce è reale, la stessa relazione oggettuale va pensata come unità complessa: sia la madre che il padre partecipano alla strutturazione dell'oggetto e insieme portano il bambino a tappe sempre piú differenziate e autonome.
L'oggetto è patrimonio del mondo intenzionale del bambino, della sua memoria e delle sue rappresentazioni di interazioni generalizzate. Fin dall'inizio della sua vita psichica, il bambino ha una competenza cognitivo-emotiva che gli permette di far emergere il suo senso del sé declinando le diverse tappe maturative, attraverso l'intenzionalità, l'interesperienza intenzionale, l'acquisizione del linguaggio che apre orizzonti di conoscenza parallelamente a una piú solida organizzazione dell'esperienza soggettiva del sé e del sé con l'altro.
Se la maturazione biopsicologica si sviluppa in modo sano, e in accordo con un ambiente responsivo, l'identità puó fluire e gradualmente organizzarsi attraverso gli oggetti e negli oggetti in divenire, perciò la fiducia di base e il potenziamento dei bisogni narcisistici del bambino sono necessari in rapporto alle prime vicissitudini oggettuali. Qui si fondano le basi per lo sviluppo dell'autostima, riflesso della fiducia che l'oggetto, gli oggetti hanno per lui. Questo processo induce il depotenziamento dei bisogni narcisistici e avvia la costruzione di una valorizzazione del proprio sé in rapporto all'oggetto.
Va sottolineata ancora l'importanza della relazione reale, dal momento che senza responsività, senza relazioni sintonizzate, lo stato mentale del bambino puó restare confuso, alla ricerca di un oggetto con cui risulta difficile stabilire rapporti e che, in certi casi, il bambino è costretto a deintegrare (Gennaro 2004).
A partire da queste riflessioni, abbiamo inteso sviluppare un'analisi volta a valorizzare il consolidamento della relazione con l'oggetto, evidenziando il significato che esso assume nella costruzione della personalità sana del bambino. Diversi fattori - biologico-temperamentali, di deprivazione, di iperstimolazione, di difficoltà ambientali - potrebbero nuocere allo sviluppo di tale costruzione. La personalità non si sviluppa in modo lineare e cumulativo, ma è indubbio che la pregnanza di una relazione oggettuale interiorizzata e metabolizzata costituisce un humus fertile, che puó scandire il tempo biologico in accordo con il tempo della mente (Gennaro, Buco-1o2002).
La scoperta dell'oggetto integrato puó divenire un equipaggiamento in cui l'avere cura delle cose e di se stessi diventa possibile perché la realtá puó essere non solo attraversata ma vissuta senza la conflittuale dispersione fra ció che è soggettivo e ció che è oggettivo.

2. Il gioco

Gioco e creatività rappresentano l'espressione piú viva dell'operosità del bambino in quanto attività spontanea e libera che lo mette in contatto con il mondo facendogli scoprire se stesso. Contemporaneamente, attraverso la fantasia, il bambino crea una giunzione singolare tra la sua interiorità e il suo senso di realtá (Winnicott 1971).
Con il gioco il bambino si libera dalle paure, dalla soggezione alle cose, aprendosi al mondo del possibile e del nuovo. L'attività ludica è un'attività spontanea e autotelica ma implica il cambiamento, una continua trasformazione, un rapporto dinamico dalle cose al sé e dal sé alle cose.
Chi gioca davvero non si distrae facilmente, non guarda intorno a sé, si immerge totalmente nel gioco e ne diventa protagonista e compagno. La temporanea «regressione al servizio dell'io» porta il bambino in un mondo in cui ha ogni potere, in cui puó creare, un mondo in cui le regole del gioco hanno un valore che non hanno nel mondo degli adulti. Si tratta di un distacco volontario, scelto, in cui ogni cosa puó diventare altro da sé, in cui, ad esempio, «un bastone puó essere un cavallo». Nel gioco l'identitá reale dell'oggetto sposa l'identitá immaginaria e fantasiosa dell'oggetto stesso (Montecchi 1997).
Nel gioco, il bambino assimila e sviluppa, unisce e ristruttura quelle capacitá potenziali che si realizzano successivamente, coordina il suo essere e ne riceve un rinforzo, comanda l'azione, in altri termini afferma il proprio io.
La storia del gioco è dunque la storia della personalitá che si sviluppa, della volontá che si conquista a poco a poco.

Nel gioco il bambino mostra anche la sua intelligenza, la sua volontá, il suo carattere, in una parola, la sua personalitá (...) un fanciullo che non sa giocare, sará un adulto che non saprá pensare (Chateau 1950; trad. it. 1961, p. 132).

Il gioco è connaturato allo sviluppo e non è possibile pensare a una crescita senza gioco. Insegna a muoversi, a immaginare, a pensare. Si configura, inoltre, come attivitá propedeutica di funzioni superiori: è nel gioco che si osserva, si progetta e si costruisce. Non si distingue dalle attivitá stesse della crescita, piuttosto ne rappresenta la risonanza soggettiva, la modalitá pervadente di attuazione.
In tutto questo l'adulto, sia in famiglia che a scuola, deve farsi garante del confine incerto, non sistematizzato o frammentario, tra il mondo dell'immaginazione e il mondo reale. L'adulto deve accompagnare il bambino in questo percorso, deve ascoltarlo, essere attento ai suoi bisogni e alla sua realtá emotiva, apprezzare i suoi sforzi espressivi, valorizzare le sue produzioni simboliche. Il bambino che si avventura verso un uso creativo dei simboli ha bisogno di sentirsi rassicurato sul fatto che, almeno per un certo periodo, sono importanti il suo fare e le modalitá del suo fare piú del risultato ottenuto.
Il suo sviluppo affettivo, relazionale, lo sviluppo della coscienza di sé e del proprio essere con gli altri sono potenzialitá da salvaguardare e da accrescere proprio grazie al gioco perché, nella sua carica identificatoria, si muovono affetti e regole, aspettative e progetti. Il gioco è esperienza di vita, esperienza complessa che tocca corde profonde dell'essere, corde che emozionano, in risonanza con nuove immagini e fantasie. Rappresenta, tra l'altro, un mezzo per relazionarsi con alcuni aspetti di sé che normalmente non vengono toccati, strati che vengono alla luce grazie al «come se» (Staccioli 1998).
A tal proposito, Winnicott (1971) ha sottolineato l'importanza dello spazio potenziale in quanto è li che avviene la continua modulazione e rimodulazione fra l'interno e l'esterno, fra ció che è pensato e ció che diviene accessibile e condivisibile.

È questo lo spazio del «facciamo che», il tipico gioco infantile in cui ogni cosa è come se fosse un'altra, in cui gli eventi immaginati è come se accadessero realmente. Qui tutto puó succedere, ogni oggetto o persona possono improvvisamente diventare altro. Nel luogo metamorfico del gioco è possibile appagare ogni desiderio. Nei suoi territori ogni accadimento è reversibile. Mutata dalla propria immaginazione, la realtá ritorna ad assumere i contorni abituali non appena il bambino abbandona lo spazio della finzione. Se nel gioco il bambino reinventa se stesso, una volta tornato alla realtá egli ridiventa nuovamente quello di sempre. In questa quotidiana oscillazione consolida il proprio senso di identitá (Montecchi 1987, p. 25).

Il gioco è un indispensabile esercizio vitale, inerisce a una sana crescita psico-fisica.
È uno dei mezzi fondamentali che consentono al bambino di consolidare le proprie competenze cognitive, affettive e relazionali. L'esperienza del gioco simbolico si qualifica come un aspetto basilare del processo di adattamento al mondo: essa assimila liberamente la realtá all'io. Quando un bambino gioca, riesce ad adattare il gioco alle proprie esigenze, dunque la funzione del gioco simbolico è quella di proteggere l'universo del bambino dall'adattamento forzato o compiacente alla realtá ordinaria (Winnicott 1971; Staccioli 1998). Nel gioco simbolico, il bambino ha modo non solo di esplorare i significati ma anche di dare un nuovo assetto al suo mondo, per renderlo piú accettabile armonizzandolo con i propri desideri.
Nel gioco la funzione autoreferenzíale prevale su quella referenziale. Il problema è tanto conoscere il mondo quanto costruire il mondo. Atto preliminare alla costruzione è la manipolazione o anche l'uso afinalistico dell'oggetto, che costituiscono una modalitá di esplorazione dei rapporti io-mondo. L'esplorazione ha origine nelle condotte sensomotorie e sta in una relazione d'alternanza con il gioco: a un nuovo oggetto il bambino si accosta prima con modalitá esplorative, per indagarne le proprietá, e solo quando non rappresenterá piú una novitá, perché riconducibile a schemi conosciuti, l'oggetto verrá utilizzato a fini ludici: l'enfasi allora non sará piú sull'oggetto ma sull'io in rapporto all'oggetto.
Il gioco e il processo creativo costituiscono una spinta verso l'esplorazione, verso la vita culturale, verso l'uso dell'oggetto imparando a percepirlo, osservarlo, manipolarlo e rappresentarlo riconoscendone le funzioni e stabilendone le relazioni (Winnicott 1971).
L'esplorazione delle proprietá di un oggetto è una condotta epistemica, caratterizzata dal pensiero convergente, rintracciabile anche nel gioco rappresentativo, la cui finalitá è l'imitazione della realtá, mentre l'attivitá ludica, e in particolare il gioco di immaginazione, rappresenta un genere di attivitá di tipo divergente, che riflette la capacitá del bambino di essere creativo. Comportamento epistemico e comportamento ludico, ovvero pensiero convergente e pensiero divergente, sono due modalitá di funzionamento mentale strettamente connesse: la conferma di una loro funzionale continuitá viene dai comportamenti dei bambini di etá prescolare, che in rapida successione attuano comportamenti conoscitivi e giochi drammatici. È evidente, dunque, che non si tratta di due modi contrapposti e alterni di pensiero, poichè indagine costruttiva e produzione simbolica sono due aspetti specifici di uno stesso processo.
Il gioco simbolico è il prototipo dell'attivitá creativa in quanto, collegando due realtá, quella interna e quella esterna, è fonte di associazioni inusuali, integra esperienze appartenenti a dimensioni diverse tramite simboli unificanti, è trasformazione metaforica della realtá. Un aspetto del simbolo è la sua qualitá transizionale: l'atto simbolico è fondamentalmente un atto creativo che definisce una dimensione particolare dell'esperienza intermedia tra la realtá puramente soggettiva e la realtá oggettivamente percepita. Gli oggetti transizionali costituiscono, infatti, una prima fase del complesso processo di acquisizione della capacitá simbolica da parte del bambino (Winnicott 1971; Rodman 2003). Dapprima l'atto simbolico è un atto di sostituzione dell'oggetto gratificante non disponibile, per cui se ne utilizza un sostituto che consenta di alleviare la tensione. Il pollice in bocca, ad esempio, è uno schema simbolico. Si tratta di uno dei piú primitivi fenomeni di simbolizzazione che fanno da ponte tra il bambino e la madre quando sta per avvenire la separazione. Tuttavia, la funzione specifica del simbolo nell'ambito della vita mentale è quella di rappresentare, e ció è possibile solo in un secondo momento, ossia quando sará strutturalmente differenziabile in questo modo: emittente, destinatario, referente, veicolo simbolico. La differenziazione tra queste quattro componenti diventa netta nel periodo dello sviluppo coincidente con lo svezzamento, assumendo una nuova forza, cioè valenza espressiva e simbolica; mentre nel periodo appunto detto protosimbolico essa è minima e non si parlerá nemmeno di costruzione dell'oggetto perché non vi è ancora il riconoscimento dell'altro come differenziato e totale. Solo i processi integrativi dell'io e lo sviluppo del pensiero simbolico forniranno la capacitá di rappresentare, mantenere e ricostruire internamente l'oggetto (Sullivan 1953; Fornari 1976; Riva Crugnola 1985, 1992).Nella fase protosimbolica si inizia a strutturare quel complesso processo trasformativo che porterá il soggetto a passare da un mondo fatto di sola azione, di sola motricitá, di sola corporeitá, ruotanti intorno a pattern affettivi-sensomotori, a un mondo configurabile come il prodotto della progressiva internalizzazione e schematizzazione dei pattern sensomotori medesimi. Si attraversa poi una fase intermedia di transizione, in cui l'oggetto, in via di costruzione, è ancora permeato da componenti affettivo- conative, oltre che cognitive, e non è del tutto differenziato dal veicolo simbolico preposto a rappresentarlo. Se i processi che si svolgono nel primo periodo appaiono centrati sull'assimilazione confusiva del simbolizzante al simbolizzato, attraverso l'utilizzazione dell'oggetto che «fa le veci di», dell'oggetto come sostituto, quelli che insorgono in seguito si fondano sulla progressiva differenziazione dei simbolizzanti dai simbolizzati e consentono al bambino di utilizzare l'oggetto presente per rappresentare, e non per sostituire, quello assente. Il processo di differenziazione in atto si estende fino a caratterizzare non solo la relazione semiotica tra simbolizzanti e simbolizzati ma altresí quella tra emittente e destinatario. Emerge anche un'intenzionalitá comunicativa verso la madre: ad esempio, si pensi a quando i bambini fanno cadere gli oggetti per poi farseli recuperare dalla madre o a quando li recuperano loro stessi per poi porgerglieli (Stern 1985); tali condotte si configurano come giochi rappresentativi della separazione dall'oggetto primario e della relativa elaborazione, ricostituendo a un livello piú articolato e differenziato, mediato dall'attivitá comunicativa, la relazione con la madre. I giochi che implicano la relazione con un terzo oggetto - il gioco del fare e disfare, del dare e prendere, dell'indicare le figure - e che si realizzano nel secondo semestre di vita appaiono finalizzati all'elaborazione simbolica della nascente relazione triadica intercorrente tra il bambino, la madre e gli stessi oggetti, mentre in precedenza erano animati da finalitá fátiche, volte a mantenere, servendosi dell'oggetto inanimato coinvolto nel gioco, l'interazione comunicativa con la madre; il bambino infatti tendeva allora ad adottare un ruolo unico e a espellere l'oggetto del gioco - distruggere la torre senza rifarla, lanciare la palla in direzione sbagliata -, utilizzandolo piú per stabilire una relazione privilegiata con la madre che per condividerne l'uso con lei. Adesso, invece, gli stessi giochi aprono la relazione diadica madre/bambino verso qualcos'altro, ossia un terzo polo di riferimento costituito dall'universo degli oggetti inanimati, cosicchè, in un contesto non piú ludico, si incrementano le modalitá comunicative di tipo richiestivo e dichiarativo messe in atto dal bambino nei confronti della madre attraverso degli oggetti (Trevarthen 1977).
In altre parole, il bambino accede al mondo reale attraverso il passaggio da un uso fusionale dell'oggetto inanimato a un uso protosimbolico dell'oggetto stesso, per oscillare poi tra una dimensione protosimbolica - per cui l'oggetto assumerá significati affettivi piú differenziati e una consistenza cognitiva piú solida e distintiva - e una dimensione simbolica - per cui l'oggetto è investito da piú maturi processi di significazione.
Lo stadio di transizione fra la soggettivitá iniziale e la crescente oggettivitá del bambino è basilare per i progressi del sé verso una maggiore capacitá di simbolizzazione e di esperienza culturale, possibile solo verso la fine del passaggio dal protosimbolismo alla fase simbolica vera e propria, quando il soggetto potrá disporre di referenti, gli «oggetti costruiti», ben differenziati dai loro veicoli simbolici. Il simbolo sará allora collazione di forme visibili che mostrano cose invisibili, sará un'espressione dotata di significato proprio, non arbitraria, e non rappresenterá solo un legame naturale tra il significante e il significato dal momento che la pregnanza delle prime capacitá di simbolizzazione è piú estesa, piú comprensiva, piú profonda di un semplice legame tra immagine e cosa rappresentata (Riva Crugnola 1992). Il gioco simbolico designa infatti il primato della rappresentazione sull'azione e sulla percezione, si riferisce al significato dell'oggetto.
In tale ottica, le immagini mentali costituiscono la forma attraverso cui la realtá, oggetti, persone, eventi, viene rappresentata nella mente del bambino, sono una copia interna della realtá, operano in continua interazione progredendo fino a raggiungere vari livelli di astrazione (Antonietti 1995).
La dimensione spazio-temporale del gioco è importante perché è la dimensione elettiva e mai del tutto afferrabile del simbolico, è il luogo in cui l'emozione puó trovare rappresentazione e l'esperienza puó essere elaborata. Qui l'individuo fa esperienza del vivere creativo, in altre parole fa esperienza della formazione, ovvero del conferire forma a ció che era informe attribuendogli, cosí, esistenza e autenticitá. Giocando con le possibilitá, soddisfacendo le pulsioni e i desideri, trastullandosi nella naturalitá delle cose, il bambino sperimenta la funzione poietica del proprio io ed è in un tal modo, non deterministico, che si genera e si dispiega la creativitá. Essa erode la fissitá, la staticitá, la prevedibilitá qualificandosi come atto di auto-manifestazione.
Condividendo le ipotesi sul gioco proposte da Winnicott (1971), non possiamo non sottolineare come esso sia un'esperienza che travalica l'ordinario iter evolutivo. Infatti il gioco è la modalitá del bambino ma anche dell'adulto: non ha confini evolutivi perché rappresenta il modo in cui l'identitá dell'uomo si declina e si storicizza. Esso scandisce il tempo della vita. Il bambino che gioca sente una sorta di «fare anima», cioè di partecipare sentendosi vivo, non eccitato nè violentato dalla massiccia e ingombrante realtá.
In questo senso, la creativitá si integra con il gioco: non è possibile essere creativi senza gioco nè è possibile giocare senza essere creativi. Si tratta di una linea di pensiero che Winnicott ha proposto senza assolutizzazioni, senza dogmatismi nè sistematicitá. Essa sollecita riflessioni e rende vibranti le esperienze che gli adulti osservano quando i bambini giocano, perché possono comprendere come essi, giocando realmente, stiano vivendo il mondo.
Giocando e condividendo, il mondo diviene piú accettabile. L'analista con il bambino non è interessato solo al significato dei simboli del gioco, ma a quanto questi traducano la possibilitá di relazione-interazione: il bambino fa il suo percorso verso il benessere e l'analista restituisce con il suo gioco un'esperienza attendibile per il bambino e destinata a restare parte integrata della sua vita psichica.

La psicoterapia ha luogo lá dove si sovrappongono due aree di gioco, quello del paziente e quello del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ció è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare ad uno sta-to in cui ne è capace (Winnicott 1971; trad. it. 1974, p. 79).

3. Esperienza transizionale e creativitá

La differenziazione coinvolge il neonato, l'altro e anche l'oggetto, che è un «oggetto transizionale», ovvero un oggetto della realtá esterna, inanimato, che il bambino sente vivo perché è lui stesso a vivificarlo e a personalizzarlo. L'oggetto transizionale è parte di sé, è appendice, ma contemporaneamente è separato dal sé, diverso dal sé. È l'oggetto del passaggio verso la realtá oggettiva e anche l'oggetto paraclito della perdita dell'ambiente originario, dell'esperienza fusiva, grazie a cui il bambino puó iniziare ad affrontare la disillusione e arricchirsi di una vita psichica personale che colmerá gli spazi dell'attesa, dell'assenza, del vuoto. L'oggetto transízionale serve, infatti, al bambino a presentificare, attraverso la sua manipolazione, l'oggetto madre - interno ed esterno - durante le sue temporanee assenze. Gli permette di vivere la realtá della separa-zione, un passaggio cruciale verso la scoperta del sé come unitario e differenziato.
Le vicende della separazione costituiscono il nucleo piú significativo del distacco psichico tra il bambino e l'ambiente, un processo di trasformazione graduale durante il quale le ripetute esperienze di unione e separazione, l'incontro e lo scontro di aree soggettive e aree oggettive, una piú chiara distinzione tra ció che viene fornito e ció che viene inventato diventano motivo di prova e di fiducia secondo una creativitá personale: le cose sono «scoperte e inventate» e non piú «create e non scoperte» come avveniva durante lo stato della creativitá primaria. Questa modificazione è connessa al passaggio dallo stato di simbiosi con la madre alla separazione da lei, a un nuovo rapporto in cui la madre è persona separata e diversa da sé; non si è piú nella fase del «sostenere» bensí alla fase del «vivere con».
Nel periodo della massima dipendenza, prima del godimento e dell'impiego della separazione e dell'indipendenza, sorge la fiducia: lo strutturasi di un atteggiamento di sicurezza, di naturale fiducia nel sé è conseguente a un rapporto originario normalmente riuscito. La madre e l'ambiente interpersonale dovranno essere elastici, vivi e sensibili, cosí da permettere di sentire l'esperienza del vivere come un processo di creazione. La fiducia nella madre, o verso un'altra figura di riferimento, è basilare per la formazione di un solido asse ío-sé, è la colonna portante dell'automorfismo individuale, della futura soliditá dell'io e della coscienza egoica. Ne deriva che un io sicuro riesce ad abbandonarsi e a rimettersi al sé, come negli stati onirici, nel pericolo, nel processo creativo, mentre un io rigido è un io insicuro che per paura cerca di aggrapparsi a se stesso. Lo sviluppo della relazione tra l'io e il sé, tra l'io e l'oggetto, tra l'io e l'altro, ancora indissolubilmente legati tra loro nel rapporto originario, è uno dei processi essenziali della prima infanzia. Secondo Winnicott (1971), dal modo in cui si configura il rapporto con la madre e con il sé dipende non solo la crescita dell'io ma la capacitá complessiva di vivere: se la madre risponde in modo adeguato ai gesti spontanei del figlio, la qualitá del suo adattamento fará sí che egli sia in grado di sviluppare un nucleo sempre piú ampio di esperienza e di evolvere verso quel senso di completezza, di forza e di fiducia definito «vero Sé».
Il vero Sé è una potenzialitá ereditata di sentire la continuitá dell'esistenza e di acquisire, secondo un modo e un ritmo propri, una realtá psichica e uno schema corporeo personali; è il nucleo autentico dell'individuo che sposa la creativitá, la capacitá di essere se stesso, la spontaneitá, il senso di realtá. La forza crescente del vero Sé consente al bambino di ammortizzare frustrazioni e fallimenti senza per questo perdere vitalitá. Al contrario, se la madre non è in grado di accompagnare opportunamente i passi evolutivi del figlio, questi sviluppa modalitá di adattamento e di compiacenza alle pressioni materne - iniziative, richieste o imposizioni - capaci di minare gradatamente la spontaneitá del bambino. Questo tipo di strategie difensive struttura un «falso Sé», e maggiore è il disadattamento tra madre e bambino, maggiori saranno le distorsioni, le fratture e i blocchi della personalitá. Il modellarsi sulla base di modelli concepiti da altri comporta un adattamento compiacente e l'organizzazione di un «falso Sé»; piú è costrittivo il bisogno di dover essere ció che qualcuno si aspetta, piú è impellente la necessitá di spezzare, isolare, frammentare l'esperienza al fine di mentalizzarne la sola parte congruente con le richieste della realtá esterna. Il bambino sará cosí costretto a un lavoro automatico di separazione, scissione, scomposizione del vissuto perché ció che non attacca il legame verrá internalizzato, ció che lo minaccia proiettatato altrove, oppure dislocato internamente in spazi non raggiungibili. Come ha notato Eagle (1987) a questo riguardo, le esperienze precoci possono non essere coerentemente integrate con il sé e risultano, pertanto, distoniche, incongrue, una sorta di minaccia alla costruzione dell'identitá personale.
Il falso Sé, scudo difensivo del vero Sé, è concretamente visibile nel complesso degli atteggiamenti sociali educati e conformisti che possono imprigionare l'essere in una dimensione, a volte patologica, di irrealtá, di artificiositá, di falsitá, di non esistenza.
È evidente come il ruolo della madre, o della coppia genitoriale, sia fondamentale per creare le premesse affinché le traiettorie dello sviluppo seguano modalitá adeguate e realmente adattive rispettando gli spazi, i tempi e i gesti spontanei del figlio, senza anticipazioni o manipolazioni che sarebbero vissute solo come intrusioni ambientali. È necessario che l'adulto rispetti quello che Winnicott (1957) chiama «momento dell'esitazione», ovvero quel momento che precede l'azione e le è necessario affinché essa risulti, in seguito, finalizzata, efficace e produttiva. Una madre che presenta al bambino oggetti troppo complessi, che quindi non possono essere intenzionati, favorisce l'emergere di condotte regressive facili da attuare, anche nel caso di un'insufficiente quantitá di contatto madre-bambino, tanto che quest'ultimo avrá un mondo interno molto limitato, non avrá niente da immaginare al di lá di ció che è in lui stesso, niente che riesca ad andare oltre il succhiarsi il pollice o il fare dei movimenti ondulatori. La sua distrazione non possiede alcuna ricchezza perché all'inizio della vita non c'è stato nessuno a dargli quel tanto che stimoli un'illusione sulla realtá: la realtá è rimasta una cosa che non puó essere mai attraversata.
Un atteggiamento di fiducia e apertura, invece, incrementa la capacitá del bambino di trastullarsi spontaneamente con le forme, i colori, le idee, formulandoli o rapportandoli in equivalenti improbabili. L'adulto deve sintonizzarsi con il registro emotivo del bambino arricchendone, espandendone e meglio articolandone le espressioni formalmente embrionali. All'adulto spetta un lavoro di traduzione, di ricucitura, di restituzione delle espressioni simboliche e frammentarie del fanciullo in una forma piú organizzata e socializzata. Tale lavoro modula il naturale processo di creazione individuale dell'intero mondo della realtá esterna. Le prime tappe di questa crescita appartengono alla primissima infanzia e sono legate alla capacitá della madre di presentare, al momento opportuno, modelli di realtá. L'impulso creativo innato s'inaridisce se non trova riscontro da parte della realtá esterna, se non viene realizzato. Ogni bambino deve ricreare il mondo, ma ció è possibile solo se, pezzo per pezzo, il mondo lo raggiunge nei momenti della sua attivitá creativa; egli si protende e la mammella è lí, è creata. Il successo di questa operazione dipende dal premuroso adattamento della madre ai bisogni del bambino, specialmente nei primi tempi.
E' evidente come sia indispensabile il contributo personale che la madre puó dare alla salute e al benessere emotivo del bambino, l'apporto di «preoccupazione materna», di attendibilitá, di intenso adattamento ai bisogni del bambino, quasi di identificazione empatica. L'acquisizione di un sé unitario, processo sotteso a un attento maternage, rappresenta, dunque, una fase decisiva nello sviluppo infantile.

Lá dove c'è fiducia o attendibilitá, c'è uno spazio potenziale che puó diventare un'area infinita di separazione che il lattante, il bambino, l'adolescente, l'adulto possono creativamente colmare con il gioco, che col tempo diventa il godimento dell'ereditá culturale (Winnicott 1971; trad. it. 1974, p. 186).

Si deduce che dal rapporto di fiducia tra la madre e il bambino puó emergere un'area di gioco intermedia, ossia uno spazio potenziale, dove ha origine l'idea del magico, dove si comincia con il giocare/creare da soli per finire, gradualmente, con il giocare/costruire insieme agli altri. Attraverso il passaggio dal gioco da soli al gioco condiviso e, soprattutto, attraverso l'esperienza del giocare creativo si esprime tutto il potenziale della creativitá.
Winnicott è riuscito a descrivere, in modo incisivo, lo stato mentale del bambino, l'interfaccia tra emozioni e cognizioni, tra intenzione e realtá. L'esperienza transizionale traduce l'insieme di processi che, vissuti, possono essere inscritti nel reale, restare vividi nel tempo esperito dal bambino: attraverso il gioco, egli sperimenta se stesso e il mondo, partendo dall'esplorazione del proprio corpo, di quello della madre, per esplorare poi l'oggetto e giungere, infine, alla finzione del «come se».
Il bambino, usando transizionalmente gli oggetti, li comincia a conoscere in quanto li manipola, li usa, ne scopre le proprietá, scopre quanto dipende da lui e quanto no, scopre la differenza tra mondo animato e mondo inanimato e la possibilitá di usare le proprie azioni per ottenere degli effetti, per finalizzarle.

L'esperienza transizionale consente al bambino di verificare su una realtá manipolabile e controllabile le sue produzioni in fantasia, in una dimensione che è contemporaneamente illusoria e impregna-ta di realtá. È una dimensione che orienta verso l'esame di realtá perché di esercizio delle abilitá concrete di adattamento. Lo spazio potenziale, ovvero la spazio di transizione, dove l'individuo fa esperienza del vivere creativo, collocato tra il bambino e la famiglia, tra l'individuo e il mondo, è relativo all'esperienza della fiducia. Il gioco creativo scaturisce naturalmente dalla fiducia e da una conseguente condizione di rilassamento. La capacitá stessa di avere rappresentazioni mentali e di usarle costruttivamente, ricombinandole in nuovi modelli, dipende dall'atteggiamento fiducioso dell'individuo.
Solo chi ha fiducia sa tollerare l'informe, la mancanza di coerenza, la frammentarietá, il non organizzato, perché è certo della propria capacitá di trovare, alla fine, un ordine e un senso.

La speranza, che le faceva sentire che qualcosa poteva essere fatta dal-l'informe, sarebbe dunque venuta dalla fiducia (Winnicott 1971; trad. it. 1974, p. 71).

In tutta l'elaborazione di Winnicott, l'analisi dell'informe fa da sfondo al modo in cui si organizza la processualitá psichica, il suo divenire e i suoi esiti. In questo senso, l'informe non costituisce soltanto un concetto o un presupposto, ma è la condizione stessa da cui puó emergere il processo creativo, è la determinante fondamentale della natura della relazione oggettuale e dei suoi sviluppi. A nostro parere, e in accordo con Winnicott (1971), nell'informe si inscrivono le vicissitudini evolutive, sia in termini di benessere e di sperimentazione della creativitá sia in termini di inibizione affettiva o di precocitá dell'io, che sanzionano la possibile ottimale costruzione della personalitá.
L'informe è la condizione neutrale delle cose prima che siano strutturate, organizzate e modellate; rappresenta la condizione preliminare di ogni progettazione, di ogni costruzione.

È la condizione in cui si trova il materiale prima di essere modellato, tagliato, formato e messo insieme... (ivi, p. 72).

Il taglio di cui parla Winnicott è un attraversamento, un entrare dentro le cose, per poi formarle e trasformarle. L'informe, infatti, è un'area in cui il bambino, formando, deformando e trasformando, permette al pensiero di farsi immanenza poietica, creativitá.

Quando possiamo parlare di fare, allora siamo giá in presenza della creativitá (Winnicott 1986; trad. it. 1990, p. 31).

Essere creativi significa fare, essere in grado di entrare in rapporto con i materiali, che per il bambino vuol dire essere nel gioco e attraverso esso scoprire e costruire, partendo dall'informe.

La creativitá comprende tutte quelle azioni che derivano dall'essere del bambino nelle cose che fa, e sono testimonianza della sua vitalitá, del-le sua capacitá di portare all'esistenza qualcosa dall'informe (Winnicott 1971; trad. it. 1974, p. 119).

L'informe, ovvero quel territorio dove non vi è forma nè struttura, non è un'area di vuoto ma di espandibilitá, che attende di essere esplorata, è il materiale grezzo sul quale il bambino sperimenta se stesso e le sue capacitá, è l'insignificante da cui ci aspettiamo che il bambino parta per dargli un senso. Di fronte al caos dell'indeterminato, all'immanenza del nonsenso, il soggetto che si rapporta con le cose, che entra in relazione con esse, che le usa e si confronta con quella complessitá frattale che congiunge i diversi tasselli della polisemicitá del pensiero strappa al fantasma della realtá il nonsenso per darle il proprio senso.
Creando, si ordina, si organizza, si attribuisce un senso; creando, il soggetto esprime oggettivamente il livello e il grado di sviluppo della sua attivitá - creatrice, riproduttrice o inibita - sulla realtá. Egli infatti puó fermarsi a una fase di pura rappresentazione, puó essere capace di elaborare la rappresentazione, oppure puó sperimentare le modalitá «del fantasticare e della ruminazione» che lo distanziano dal sogno e dalla vita reale (Winnicott 1971).
Le rappresentazioni mentali, le capacitá cognitive, la volizione del soggetto non sono che i mezzi dell'azione creativa, ausili fondamentali per l'esteriorizzazione di un'idiosincratica capacitá creativa, la quale si qualifica come dimensione dell'esperienza non data ma creata. È il prodotto di un'attivitá mentale nella quale il soggetto non si preoccupa di accomodarsi al mondo esterno allo scopo di domi-narlo, ma tende a conciliarsi con esso rivestendolo con qualcosa di sé. L'esperienza stessa del vivere va intesa come un processo di creazione della personalitá da un'esperienza originariamente confusa e informe.

è soltanto nello stato non integrato della personalitá che ció che noi descriviamo come creativo puó comparire, da un funzionare sconnesso, informe, o forse dal giocare rudimentale (ivi, p. 120).

Si è capaci di creare dall'informe solo se in uno stato di non integritá, che non significa scissione ma stato della mente in fieri, vitale, nelle condizioni di integrarsi per generare. Ció avviene quando l'integrazione dell'io è giá un fatto acquisito.
Un sano progresso nello sviluppo ha per risultato l'acquisizione di quello che si potrebbe chiamare «stato unitario», e l'attivitá creativa di un individuo non puó manifestarsi che lá dove egli è in completo stato di unitá. In altre parole, è necessaria una sintonia fra l'essere pensante e l'essere istintivo, fra i talenti e le possibilitá acquisite di espressione e di esteriorizzazione, fra l'essere individuale e l'essere sociale; è necessario che si stabilisca un ponte fra la materia, con le proprietá che le ineriscono, e la forma, determinata dai contatti dell'individuo con l'ambiente esterno. Piú grande sará l'accordo tra queste due parti fondamentali dell'essere, piú vasta sará la sfera dell'attivitá creativa e piú grande la profonditá delle sue creazioni. È l'integrazione che consente di appropriarsi e marcare in maniera personale la realtá esterna, di accettarla e riconoscerla come proprio scenario di vita, di rivendicarla in termini di propria creazione. Quando invece si è in presenza di uno stato di persistente non integrazione, dovuta alla pressione di uno sviluppo precoce dell'io, domina la passivitá, la stasi ed è facile l'insorgere dell'angoscia rapportabile alla minaccia di annientamento. In tal caso, il caos spaventa: è l'informe destrutturante perché irrappresentabile: rientra in ció che è perturbante, nella dimensione dello spaesamento, della mancanza di un territorio originario, poichè i suoi confini non sono marcati in modo stabile.
II terreno informe, tendente alla forma, rappresenta la condizione preliminare di ogni progettazione, di ogni lavoro che si svolge secondo un'organizzazione costruttiva; è la base di impianto di ogni cantiere orientato alla creazione. Sull'informe si innestano, emergono e si consolidano le prime modalitá creative, le esperienze di costruzione-distruzione-ricostruzione; è il livello iniziale di edificazione e di sviluppo su cui si comprovano le capacitá evolutive del soggetto che comincia a negoziare la propria immagine di soggetto-creatore.
Ma creare l'oggetto significa relazionarsi con l'oggetto. Ogni creazione implica una relazione: dal rapporto con il materiale piú disorganizzato e scomposto si procede all'atto del creare. La relazione comporta non solo un passaggio di elementi dal soggetto all'oggetto ma, piú precisamente, un investimento. È proprio l'investimento libidico che il soggetto fa dell'oggetto l'elemento chiave alla base di ogni relazione. Perché si instauri una relazione, infatti, non basta la compresenza di soggetto e oggetto: in tal caso potrebbe esserci solo una giustapposizione di elementi ma non avverrá nulla di significativo e di trasformativo. Non si tratta dunque di un semplice passaggio di elementi del soggetto nell'oggetto, ma di un loro arricchimento e di una loro trasformazione a seguito di complessi meccanismi di identificazioni crociate di tipo introiettivo e proiettivo.

Affinché l'oggetto possa essere usato sono necessarie alcune precondizioni:

1) l'oggetto deve essere reale, deve cioè appartenere alla realtá condivisa;

2) il soggetto deve collocare l'oggetto fuori dal controllo onnipo-tente e quindi non deve percepirlo come entitá proiettabile;

3) il soggetto deve essersi messo in relazione con l'oggetto - se non l'ha investito, se non si è identificato, l'oggetto non puó essere usato;

4) l'oggetto deve andare incontro alla possibilitá di essere trovato;

5) il soggetto deve distruggere l'oggetto narcisistico, onnipotente; 

6) l'oggetto esterno deve sopravvivere alla distruzione;

Adesso il soggetto puó usare l'oggetto (Winnicott 1971).

Nella relazione gli oggetti investiti possono andare distrutti perché reali ma diventano reali perché distruttibili; l'oggetto è reale nella misura in cui è usabile e distruttibile. L'impulso distruttivo serve a creare 1'esternitá. L'oggetto è autonomo e ha vita propria e, se sopravvive, dá al soggetto il suo contributo secondo le proprie caratteristiche. Quello che porta all'uso dell'oggetto è un processo psichico inconscio che serve a scoprire e a conoscere l'oggetto, e che viene modulato dall'aggressivitá, la quale non è una modalitá distruttiva nei termini kleiniani, ma un processo sano attraverso cui il mondo diviene attendibile, perdendo il suo carattere catastrofico.
Come Winnicott (1957, 1971) ha chiarito nella sua produzione teorico-clinica, la distruttivitá sana, cioè che predispone alla creazione, non rende mai statica l'organizzazione della personalitá. L'aggressivitá puó cristallizzarsi quando è virulenta e non puó essere utilizzata dal bambino, ma diviene l'elemento di trasformazione e di integrazione quando è equilibrata. Il bambino cosí puó sperimentare che distruggendo puó dare sviluppo alle sue potenzialitá, anche a quelle componenti implicite di cui potrebbe avere paura. Essere creativi significa anche essere senza paura. Ció avviene attraverso l'espressione insostituibile dell'aggressivitá.
Il non me, aggredito, cioè estraniato e privato di vita, è nuovamente vivificato e umanizzato nell'esperienza transizionale. L'oggetto, sopravvivendo alla distruzione, si colloca fuori dall'area proiettiva come sostanza diversa da me con cui l'«Io sono», sinonimo di integrazione e unitá, entra in interazione se gli è stata offerta l'opportunitá di uno spazio potenziale.
L'esperienza transizionale è contemporaneamente esperienza affettiva e cognitiva, consentendo di padroneggiare le ansie di base connesse ai rapporti oggettuali, e rappresenta una messa alla prova delle proprie capacitá di dominare realisticamente le cose.
Si tratta di un'area di esperienza, un atteggiamento particolare nei confronti della realtá mediante il quale il bambino trova una conciliazione e getta un ponte tra il mondo interiore, idiosincratico e individuale, nel quale è sovrano onnipotente, e il mondo esterno con il quale è costretto incessantemente a venire a patti nello sforzo di adattamento. Il processo simbolico integra questi due mondi, in modo particolare e paradossale, creando uno spazio, diverso da ambedue le realtá ma continuamente in relazione con esse, che Winnicott (1971) chiama «spazio dell'illusione». 
La capacitá di creare aree transizionali di esperienza, di integrare soggettivitá e mondo, facendo uso dell'illusione creativa, rende la vita degna di essere vissuta e qualifica l'uomo come essere culturale.

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