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I GIOCHI DI ADELE H. di Enrico Santori

I fatti relativi alla vita di Adèle Hugo sono brevemente riassumibili. Quinta ed ultima figlia di Victor Hugo nasce a Parigi nel 1830. Nel 1852 segue, insieme al resto della famiglia, il padre in esilio su due piccole isole della Manica, Jersey prima e Guernesey poi.

Nel 1863 scappa in gran segreto ad Halifax, Nuova Scozia (Canada), per raggiungere Albert Pinson, un luogotenente inglese di cui era innamorata, nella speranza di poterlo sposare, senza riuscirci. La sua fuga durerà nove anni trascorsi tra il Canada e le Barbados. Rientrata in Francia nel 1872 e ritenuta folle, viene internata in vari manicomi dove passerà il resto della sua vita. Morirà, all’età di 85 anni, nel 1915.
Dall’anno della sua fuga, e in particolare in seguito alla falsa notizia del suo matrimonio alla quale gli Hugo avevano inizialmente creduto, un’ombra cala sul suo destino. La sua sorte rimane pressoché oscura fino al 1968 quando esce, per le edizioni Minard di Parigi, Le journal d’Adèle Hugo, curato da Frances Vernor Guille. E’ da questo libro che nel 1975 François Truffaut trae il suo film più sofferto, L’histoire d’Adèle H., tirando fuori definitivamente Adèle dall’ombra e facendola conoscere al mondo intero.
 
 
La lunga ombra del dubbio

 
 
28 LUGLIO 1830. Mattino. Il buon Dio mi ha appena donato un grande onore, caro Nodier; mia moglie ha felicemente partorito questa notte una bambinona paffuta e in salute… io sono molto contento della mia piccola bambina. Ecco infine una delle mie opere che promette di vivere. Victor Hugo
 
25 febbraio 1830. Alla Comédie Française è data la prima di un poema drammatico in cinque atti dal titolo Hernani. E’ la nascita del Romanticismo francese. Autore dell’opera e padre del movimento è un giovane drammaturgo, poeta, novellista e scrittore di ventotto anni: monsieur Victor Hugo. La pièce è giudicata scandalosa, nella forma più che nel contenuto. La critica si spacca, il pubblico borghese disapprova. Schiere di giovani romantici, capeggiati da Gautier e sostenitori di Hugo, scatenano quella che sarà ricordata come La battaglia di Hernani: la prima grande battaglia del nuovo teatro romantico . L’hernanista più attiva e decisa è una giovane donna al quarto mese di gravidanza, Adèle Foucher, moglie dell’autore. E’ l’inizio di un anno particolarmente tumultuoso per gli Hugo e la Francia intera.
Come prima conseguenza del successo viene lo sfratto. Il continuo andirivieni degli hernanisti è troppo per i padroni di casa, così la famiglia Hugo e il suo seguito sono costretti a lasciare via Notre-Dame-des-Champs 11 per guadagnare, sulla riva destra del fiume, gli affascinanti Champs-Elysées . Ma non si sono ancora sistemati nel nuovo alloggio che scoppia a Parigi una violenta rivolta contro Carlo X, rivolta che sarà ricordata come Les trois Glorieuses e che porterà Luigi Filippo sul trono di Francia. E’ nel bel mezzo de Les trois Glorieuses che Adèle Foucher dà alla luce una bambina “paffuta e in salute”, la quinta dei due coniugi, che avrà il nome della madre e che, ancor prima di nascere, ha già partecipato a due rivoluzioni: una letteraria e una politica.
Il capofamiglia ha però ben poco da rallegrarsi. Con il successo non sono ancora arrivati i “soldi veri” e lui si è già impegnato da tempo con il libraio-editore Gosselin a consegnare un nuovo romanzo. Il termine per la consegna è il primo dicembre, la penale è altissima –mille franchi per ogni settimana di ritardo– e non ha ancora scritto una sola riga. Inoltre Adèle, di cui Victor è profondamente innamorato, lo rifiuta sessualmente e continuerà a rifiutarlo per il resto della loro vita coniugale. Il poeta ne rimane annientato. Un’ombra cala dunque sulla nascita di Adèle e sarà solo l’inizio di una serie curiosa e inquietante di parallelismi.
Victor Hugo, pressato dalla scadenza, non può far altro che mettersi al lavoro e per non avere la tentazione di uscire di casa mette sotto chiave gli abiti da passeggio, acquista una bottiglia di inchiostro nuova e, con i vagiti della nuova arrivata come colonna sonora, “entra nel suo romanzo come in una prigione”, prigione dalla quale uscirà solo cinque mesi dopo quando, il 14 gennaio del 1831 –aveva nel frattempo grazie ad un amico comune strappato una proroga all’editore–, consegnerà a Gosselin il romanzo finito. Il titolo è Notre-Dame de Paris.
Ma come spesso accade a chi esce di prigione che si ritrova in un mondo fuori totalmente diverso da quello che aveva lasciato tanto da incontrare grandi difficoltà di adattamento, così anche Victor Hugo quando esce dal suo romanzo trova il mondo intorno a sé totalmente cambiato. Adèle (la moglie) non aveva una depressione post-parto ma una relazione extraconiugale, e l’amante è proprio quell’amico “fidato” indispensabile per le sue opere: il famoso critico letterario Charles Augustin Sainte-Beuve, padrino di Adèle (la figlia). Non sappiamo in realtà quando lo scrittore viene a sapere della relazione tra i due amanti che stando al biografo di Sainte-Beuve, Séché Leon , ha inizio tra il maggio e l’agosto del 1830, abbiamo però un piccolo indizio: nel novembre dello stesso anno i due amici hanno una violenta discussione e la causa apparente, riportano gli storici, è il sansimonismo del critico. Sainte-Beuve viene comunque messo alla porta. Victor Hugo sa anche che l’amico era rientrato a Parigi da un viaggio sul Reno il 9 novembre del 1829, all’incirca nove mesi prima della nascita di Adèle. E’ difficile pensare che nella mente del poeta non si sia insinuata l’infida ombra del dubbio, dubbio alimentato anche da alcuni comportamenti fortemente ambigui di Sainte-Beuve che lascia ad Adèle bambina i diritti d’autore della nuova edizione delle sue Consolations e che, in una poesia a lei dedicata, scritta nell’agosto del 1832, À ma petite Ad…, scrive versi quali  “pura, e che tuttavia ha qualcosa di me” . Ma c’è un altro elemento, un parallelismo sconcertante, che ha radici vecchie di trent’anni e che dal passato getta un’ombra lunghissima sulla vicenda.
Come fa notare Henri Guillemin, vi è una “strana prefigurazione, nell’esistenza del padre (il generale Hugo) di quella del figlio (il poeta); anche lui, il padre, aveva visto la sua donna, che continuava a desiderare, rifiutarlo; perché lei gli preferiva un altro uomo; per Sophie Trébuchet, moglie di Leopold-Sigisbert Hugo, c’era stato il colonnello La Horie; per Madame Victor Hugo, ci sarà – c’era – Sainte-Beuve”. 
Anche la madre di Victor Hugo aveva un amante. Questi era il colonnello Victor La Horie, padrino del poeta, del quale, come è noto, Hugo portava il nome. L’amore tra Sophie  e Victor sboccia anche in tempi sospetti e Genevieve Dormann in Le roman de Shophie Trébuchet , una sorta di biografia romanzata della madre di Hugo, dice con chiarezza e senza allusioni che Victor è il figlio naturale del generale La Horie. Si può notare come una strana prefigurazione è inscritta anche nell’esistenza del “padre-padrino” La Horie di quella che sarà poi la sorte di Victor Hugo: il colonnello fu proscritto da Napoleone così come il poeta verrà proscritto da un altro Napoleone, il piccolo , Napoleone III.
Victor Hugo si trova dunque al centro di un chiasma che lo porta a condividere con Leopold Hugo, l’uomo di cui porta il cognome, la sorte di un’esclusione dal talamo, e con Victor La Horie, l’uomo di cui porta il nome, l’esclusione dalla patria. All’interno di un’ottica transgenerazionale questi eventi sembrano legati tra loro e possono aver avuto ripercussioni sia sulla vita del poeta che di tutta la sua famiglia. Anne Ancelin Schützenberger sostiene che “ciascuna famiglia determina il contributo dei suoi appartenenti ai conti famigliari. Questo codice personale definisce l’elenco dei meriti, dei vantaggi, degli impegni e delle responsabilità, (che sono delle reazioni apprese), inscritte nella storia (vissuta o genetica) della famiglia”.
Diversi sono gli eventi della saga degli Hugo che possono venir iscritti all’interno di una lettura transgenerazionale: la follia di Eugène  e di Adèle potrebbero essere “imparentate” e le tragiche morti che hanno visto protagonisti gli eredi del poeta potrebbero avere radici comuni all’interno del tessuto famigliare ; ce ne sono alcune in particolare che hanno tra loro sottili analogie. Léopold, il primogenito di Victor Hugo, che porta il nome di quel nonno che abbandonò la famiglia per seguire la sua carriera politica proprio nel 1802, l’anno della nascita dello scrittore, muore nel 1823 a soli tre mesi dalla nascita. Léopoldine, la secondogenita, anch’essa con il nome di quel nonno che nel 1815 ottenne la separazione dalla moglie, la madre del poeta, per sposare la sua amante con la quale da tempo viveva in concubinaggio, muore, novella sposa, annegata nella Senna all’età di 19 anni, quando era al terzo mese di gravidanza . Georges, primogenito di Charles, terzogenito di Victor Hugo, muore nel 1968 ad un anno di età.  Tre morti consecutive di tre primogeniti della stessa famiglia secondo quella che potremmo definire una sorta di maledizione del primogenito, ipotesi che all’interno di una lettura transgenerazionale risulta meno fantasiosa di come può apparire a prima vista.
Al di là di questa possibile interpretazione, le vicende che ruotano intorno alla nascita di Adèle e della quale la bambina è un’ignara e incolpevole protagonista segnano, nei fatti, un triplo tradimento da parte della moglie, della madre e dell’amico nei confronti di Victor Hugo e si ancorano inesorabilmente alla figura della figlia. Leslie Smith Dow sostiene che “per Victor Hugo la figlia rappresentò sempre il suo costante dubbio sul tradimento della moglie” , dubbio che raddoppia quello della paternità illeggitima.
La biografia di Victor Hugo è nota e si conosce praticamente tutto di quello che successe dopo la rottura con la moglie , dei sui rapporti con le proprie amanti e di come nel 1833 iniziò la relazione con Juliette Drouet e di come questa si sviluppò, di come riallacciò i rapporti con Sante-Beuve e di come la di lui relazione con Adèle (la moglie) continuò intensa fino al 1837 mentre l’amicizia e la tenerezza fra i due perdurò per tutta la vita. Ma quanto incisero le vicende del 1830 sulla vita di Adèle (la figlia)? E che tipo di rapporto aveva il padre con la bambina?
Non c’è motivo di credere che Victor Hugo non amasse tutti i suoi figli. Numerose sono le lettere del padre lontano, soprattutto nel periodo estivo, traboccanti di tenerezza per tutti i suoi bambini che passavano l’estate a Villequier mentre lui girava il mondo con le sue amanti. Tutte ricche di attenzioni ed affetto. E’ noto anche come tra i suoi figli lui preferisse Léopoldine, la maggiore, ma è difficile paragonare il rapporto di un padre con due figlie, una di diciannove e una di tredici anni, il cigno e la colomba come le chiama nelle due poesie a loro dedicate . E’ anche naturale immortalare, cristallizzandolo, il ricordo di una figlia morta tragicamente giovanissima, per di più se la vicenda è infarcita di un intenso senso di colpa verso tutta la famiglia per non essere stato presente né al momento della tragedia né ai funerali, e dallo shock intenso di aver appreso la notizia da un giornale solamente cinque giorni dopo l’accaduto . Il comportamento manifesto di Hugo nei confronti di Adèle può essere stato, e sottolineo che non c’è ragione di credere il contrario, tra i più premurosi. Ma “di solito gli influssi più forti che agiscono sui bambini non provengono affatto dall’atteggiamento cosciente dei genitori, bensì dal loro sfondo inconscio” . E’ noto come i problemi insoluti dei genitori si riflettano sui figli proprio perché questi ultimi si trovano in uno stato di assoluta dipendenza e di primitiva identità con l’inconscio dei genitori; tale participation mystique “fa sì che il bimbo senta i conflitti dei genitori e ne soffra come se fossero suoi” . Non abbiamo tuttavia nulla che manifesti, in modo evidente, un atteggiamento sconveniente, seppur inconscio, del padre verso la figlia. Ma Victor Hugo è un artista, del suo tempo il più grande in assoluto, ed è proprio nella creazione artistica che si attinge inevitabilmente alle profondità dell’inconscio, e i movimenti e i mutamenti, le sfumature e i sussulti di questo magma sotterraneo e sommerso si riversano, in uno scrittore, nell’inchiostro come linee tracciate sulla carta . E’ dunque nelle sue opere che ritroviamo una fotografia, “al negativo”, delle dinamiche inconsce dell’artista. Inoltre, “spesso (…) la creazione di opere d’arte rappresenta una risposta all’angoscia che ci afferra quando ci sentiamo trascinati lungo una china e non riusciamo a scorgere alcun approdo. Alcune di esse (...) per la loro specificità e per le condizioni in cui si originano, possono (…) mostrare con maggiore evidenza i segni di questo viaggio interiore attraverso l’inconscio” .
Victor Hugo scrive uno dei suoi romanzi più belli e di maggior successo, che lo consacrerà all’attenzione del grande pubblico verso il quale fino ad allora aveva creato più scompiglio che ammirazione, proprio nel 1830. Secondo la testimonianza della moglie in Victor Hugo raconté par un témoin de sa vie  il marito si mette al lavoro la mattina del 27 luglio mentre il manoscritto riporta la data del 25. Adèle nasce il 28. Le due “creature” vengono alla luce all’incirca nelle stesse ore e sappiamo come il volume abbia una stesura di cinque mesi e mezzo, i primi della vita di Adèle. Il romanzo sarà “l’opera più rappresentativa della grande letteratura romantica” , un capolavoro assoluto, quello straordinario “libro-architettura”  che è il Notre-Dame de Paris. La storia è conosciuta. I personaggi sono talmente famosi da essere entrati nell’immaginario collettivo.
Esmeralda, giovane e bellissima zingara che danza per Parigi con la sua capretta, ama un bell’ufficiale, Febo, che non la ricambia ma cerca soltanto di sedurla. L’arcidiacono Frollo, folle d’amore e di gelosia verso la ragazza, tenta di uccidere l’ufficiale, ma vedendosi rifiutato dalla zingara la farà accusare del delitto e condannare. La giovane sarà in un primo tempo salvata da Quasimodo, campanaro sordo e deforme della cattedrale di Notre-Dame, figlio adottivo dell’arcidiacono, anch’esso innamorato della fanciulla. Ma quando i paltonieri, amici della ragazza, cercheranno di trarla definitivamente in salvo, si creeranno una serie di drammatici equivoci che porteranno tutti i protagonisti verso una tragica fine: Esmeralda viene giustiziata, Quasimodo, intuendo le responsabilità del padre adottivo, uccide l’arcidiacono prima di darsi la morte.
La trama del Notre-Dame de Paris con uno sguardo attento e retrospettivo può essere letta come una prefigurazione tragica e “farsesca” della vita di Adèle Hugo. Così come Esmerlda, giovane e bellissima, affascinante al punto tale da ammaliare tutti gli uomini che incontra, tanti quanti li rifiuterà, Adèle si innamora di un ufficiale dongiovanni, bello e inaffidabile, in modo così intenso e folle che questo amore cieco, insensato e ingiustificato, la porterà alla rovina. Lo stesso impeto dell’amore romantico accompagnerà Esmeralda al patibolo e Adèle al manicomio. Ma non è soltanto il tragico destino delle eroine a intrecciare la trama delle due storie.
Nel romanzo non c’è un vero e proprio protagonista. Questa è una delle prime critiche che vennero mosse al lavoro, un romanzo corale dove i personaggi non sono descritti nella loro totalità psicologica . Su tutti domina e incombe l’immensa, articolata, artistica, tenebrosa mole della cattedrale. Ma un personaggio emerge su tutti gli altri: il “signore” indiscusso della cattedrale, lo spaventoso e deforme “re dei matti”, colui che ha tolto a Tersite “l’uomo più brutto che venne sotto Ilio” , lo scettro di brutto della letteratura: il gobbo di Notre-Dame, Quasimodo.
Nel suo saggio breve sul romanzo, Guy de Maupassant, indicando come gli autori creano i propri personaggi, dice: “mostriamo sempre noi stessi nel corpo di un re, di un assassino, di un ladro, di un galantuomo, di una cortigiana, di una suora, di una fanciulla e di una venditrice di mercato.(…) Differenziamo dunque i nostri personaggi soltanto cambiando età, sesso, posizione sociale, e tutte le circostanze della vita del nostro io, che la natura circonda con l’insormontabile barriera dei sensi” .
Ma cosa c’è allora di Victor Hugo, uomo affascinante e scrittore di successo, in Quasimodo, “opaca creatura” dall’“organismo malfatto”? 
Abbiamo già detto ciò che succede all’autore nel periodo durante il quale compone il romanzo. Subisce il più tremendo dei rifiuti: quello sessuale da parte di una donna di cui è innamorato. Questo è un momento molto duro dal punto di vista psicologico. Negli occhi desideranti della persona che amiamo veniamo riconosciuti come oggetto, oggetto del desiderio, e percepiamo come nostro il corpo che abbiamo. Si ripete in questo processo di seduzione, nel senso etimologico di condurre a sé, l’esperienza fondamentale del bambino che si specchia e si riconosce negli occhi della madre. E’ noto come un trauma precoce a questo livello sia all’origine di tutta una serie di disturbi che riguardano il corpo, disturbi sessuali, disturbi alimentari.
Per quel che riguarda Quasimodo l’elemento che lo contraddistingue è l’incredibile e ripugnante deformità. Non solo Quasimodo è brutto, ma addirittura ostenta la propria bruttezza. Quasimodo odia tutti e frappone il proprio mostruoso aspetto fra sé e gli altri. Ma perché? “Dietro ad ogni favola del “brutto anatroccolo” si cela la storia di un rifiuto d’amore: così l’esperienza dell’essere “brutti” rimanda ad un originario essere stati esiliati. Il brutto adotterà allora una strategia inconscia funzionale alla coazione a ripetere l’esperienza del rifiuto, pur essendo internamente mosso dal desiderio. Opporre all’altro un corpo brutto è un espediente per sottrarsi all’altrui desiderio, per mettersi fin dall’inizio fuori gioco e neutralizzare, anticipandolo, un inevitabile rifiuto” .
Ecco allora il filo rosso che lega Victor Hugo al suo personaggio più famoso. Entrambi vivono l’esperienza drammatica del rifiuto. Ed è proprio nella creazione del sordo campanaro e nelle sue vicende che lo scrittore ha modo, attraverso la creazione artistica, di elaborare e dar voce al proprio dolore, trovando una via per affrontarlo.
Che la psicologia personale del poeta possa essere rintracciata nella sua opera e che l’opera stessa possa essere, in certo qual modo, una risposta, quasi alla stregua di una nevrosi, ai “complessi” individuali dell’artista è la grande lezione di Freud, lezione approfondita da Rank e da Stekel. E’ Jung ad andare oltre questa lettura deterministica intrecciando e sovvertendo le dinamiche e i rapporti generativi tra creatura/creatore. “La psicologia della creatività è propriamente femminile, poiché l’opera creativa erompe da profondità inconsce, cioè proprio dal regno delle Madri. Se la creatività predomina, predomina anche l’inconscio come forza formatrice della vita e del destino, contro la volontà conscia; e la coscienza, spesso impotente testimone degli eventi è trascinata dalla potenza di una forza sotterranea. L’opera che si sviluppa è il destino del poeta e ne determina la psicologia. Non è Goethe che fa il Faust, è la componente psichica “Faust” che fa Goethe” . Parafrasando Jung possiamo dunque affermare che non è Hugo che fa Quasimodo, è la componente psichica “Quasimodo” che farà Hugo.
Ed ecco allora che Quasimodo vive in un esilio volontario all’interno della cattedrale di Notre-Dame dove può esprimere tutta la sua arte nel suono delle campane, le sue uniche vere amiche, e dove porterà con sé Esmeralda, facendola prigioniera ma regalandole, da par suo, la salvezza. A vent’anni di distanza dalla stesura del romanzo Victor Hugo andrà in esilio su un’isola , Jersey prima e Guernesey poi, ambiente ideale per rifugiarsi a scrivere in completo isolamento, lontano dal mondo e con la finestra sul mare, trascinandosi dietro –senza lasciare a nessuno la possibilità di scelta– la famiglia , di cui la sola Adèle è impossibilitata ad allontanarsi in modo autonomo , divenendo l’unica, di fatto, prigioniera. Quasimodo ama di un amore puro e sincero Esmeralda, ma reso sordo dalla sua arte e oltremodo impetuoso, finisce per ostacolare i paltonieri che avrebbero voluto salvare la zingara, lasciandola a Frollo che la condurrà al patibolo. Anche Hugo ama di amore paterno Adèle, ma sordo per l’arte sua ai bisogni di lei favorirà, suo malgrado, quella fuga verso il nulla di un’illusione d’amore che la porterà alla catastrofe. Quasimodo capisce cosa è successo veramente soltanto alla fine, quando è ormai irrimediabilmente troppo tardi, e sente di non poter fare altro che uccidere l’unica persona con la quale sia mai stato capace di instaurare un rapporto, Frollo, suo padre adottivo, il triste e scisso arcidiacono, figura che vede in sè simbolizzati gli elementi che contraddistingueranno sopra ogni altro la vita dello scrittore: l’amore, il talento e la forza smisurata della cultura da un lato e il rigore, la forma e la regola sociale –in una parola la Persona per dirla con Jung – che incatenano tanto un prete quanto un padre della patria. Frollo, signore leggittimo della cattedrale, la quale nelle intenzioni stesse dell’autore rappresenta la scrittura , altro non è che un doppio di Quasimodo, è l’Hugo sociale, lo scrittore al servizio della scienza –l’alchimia nel romanzo– e della Stato, un uomo inchiodato da se stesso alla necessità e all’impossibilità di reprimere le proprie passioni che, nell’oscurità della notte avvolto da un grosso mantello nero, agisce e lascia agire dall’altra metà di se stesso, “quell’inguardabile viluppo di deformità e incopiutezze che è Quasimodo” . Le ultime parole del gobbo campanaro, che affacciato dalla balaustra di Notre-Dame guarda sulla piazza il corpo della sua amata che pende dalla forca e sotto di sè quello di quel padre che ha appena spinto giù, due morti di cui è irrimediabilmente colpevole, sono: “oh, tout ce que j’ai aimé!”. Tirando le somme della sua vita il poeta, solo, dopo aver sepolto la sua intera famiglia , scriverà: “ma vie ayant été dure et funèbre, en somme” , e non ci sono iperboli letterarie in questa frase che più di ogni altra lo lega a quella, oltremodo profetica, ultima e definitiva, che aveva fatto pronuciare al suo doppio letterario. E a questo punto non ci stupirebbe più di tanto se fosse vero l’aneddoto che vuole che l’ultima goccia della bottiglia d’inchiostro acquistata per l’occasione fu consumata dallo scrittore vergando proprio l’ultima riga dell’ultimo capitolo del Notre-Dame de Paris, coincidenza che colpì a tal punto Hugo che fu fortemente tentato di cambiare il titolo, già da tempo comunicato, con Ce qu’ il y a dans une bouteille d’encre; e in francese encre non indica solo “inchiostro”, ma, in senso figurato, sta per “pasticcio”, “rebus”, parole facilmente associabili ad “inconscio”. Ecco allora che il titolo diventerebbe Tutto quello che c’è nell’inconscio, e la figura femminile, l’unica del romanzo, che abita l’inconscio di Hugo è Esmeralda.
Esmeralda è bellissima, zingara, orfana, bramata da tutti ma innamorata solo dell’Amore al quale dà il nome, il volto e la divisa di Febo. Incredibile è la somiglianza di Esmeralda con Adèle Hugo. Adèle è bellissima, in una lettera a Madame Hanska Balzac scrive: “la seconda figlia di Hugo è la più grande bellezza che io abbia mai visto in vita mia” . Adèle è zingara, o meglio, come Esmeralda che non è di fatto figlia di zingari ma è resa tale per essere stata rapita in fasce, anche Adèle, come abbiamo visto, viene metaforicamente “rapita” in fasce  divenendo una zingara dell’anima, una cittadina del mondo, ma di un “mondo altro”, illusorio, quello di un sogno d’amore e del suo drammatico tentativo di ribellione nel “mondo reale” attraverso di esso. Adèle è “orfana”, o meglio, non è realmente orfana, ma tanto ha fatto per divenirlo che è finita, in una certa misura, per riuscirci: anche se nel 1852 scriveva: “non perderò per nulla al mondo la chance inaudita d’esser chiamata Mademoiselle Hugo, poiché chi non avrebbe rifiutato il matrimonio per portare il nome di Mademoiselle Molière, di Miss Shakespeare, di Miss Byron o di Senorita Dante?” , dal 1863, e per tutti gli anni della sua fuga, lei celò la sua identità assumendo quella di miss Lewly, un “doppio” che le permetteva di sgravarsi dal peso del nome di quel padre troppo famoso e importante anche in quella parte di mondo, ma soprattutto che le avrebbe potuto permettere di avere la possibilità di riuscire a trovare una sua identità, sottraendosi definitivamente al ruolo di figlia, che con quel nome le veniva inesorabilmente preclusa.  Un nuovo nome però che non basta, che non la rende libera ma la rende clandestina, zingara, che nel mondo reale per essere opposto a quello di Hugo ha bisogno di essere legato a quello di un uomo, e la rovinosa scelta di Adèle cade su Pinson, che in francese suona come “fringuello”, un ufficiale che ha in Febo di Châteaupers uno speculare e profetico doppio letterario. E’ perché non riesce a reprimere in gola il grido: “A me, Febo! Febo mio!” quando ormai l’ufficiale non c’è più che Esmeralda viene scoperta e portata a morire sul patibolo per un crimine che non ha commesso; è la stessa implorante richiesta d’amore ad un uomo che non vuole amarla, ad un uomo che se c’è stato a quel punto non c’è più, che condanna Adèle a perdersi nelle tenebre della follia fino ad essere reclusa dietro quella porta “più cupa di quella di una tomba”.
Marianne, la donna mancina di Handke, ad un certo punto dice: “Pensate quel che volete. Quanto più credete di poter dire di me, tanto più io mi sento libera da voi. Delle volte ho come l’impressione che quel che di nuovo si sa della gente, già non sia più valido. Se in futuro qualcuno mi spiegherà come sono, anche se vuole lusingarmi o incoraggiarmi, respingerò questa sfacciataggine” . Queste parole potrebbero facilmente essere attribuite ad Adèle Hugo. Poiché noi riteniamo, con John Nash, che “la malattia mentale sia un concetto legale” , per il nostro lavoro ci siamo lasciati ispirare più che dai manuali di psichiatria da alcune righe di Alda Merini: “La presunzione di essere folle è un modo di dichiarare guerra a coloro che vogliono la nostra vita. La pazza della porta accanto è la testimonianza viva di un cratere d’infanzia entro cui va sepolto ingenerosamente il genio. Povera parola che sta ad indicare un mostro rattratto, un’anima che pensa unicamente a se stessa e ai propri velari, un teatro di fantasmi entro cui si aggira la morte, ma, in fondo, abitare con la morte è anche vivere e toccare la morte è anche toccare il seme dell’anima” .
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