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LA MADONNA DELLA VITTORIA di Enrico Santori

“Non doveva succedere.

L’unica cosa da dire è che non doveva succedere!”

Maria[2]

Giovedì 1 ottobre 2009. È il mio quarto giorno a L’Aquila. Sono qui da lunedì per tenere dei gruppi di formazione e sostegno per insegnanti di scuola materna ed elementare[3] per conto dell’Ido – Istituto di Ortofonologia di Roma.

Il desiderio di esserci e fare la mia parte è forte fin dall’indomani del terremoto. Molti volontari, colleghi e non, si sono immediatamente riversati in Abruzzo facendo un lavoro eroico e difficilissimo. Io so poco o nulla di psicologia dell’emergenza, ma negli ultimi tre anni ho tenuto molti gruppi di formazione e sostegno per insegnanti di ogni ordine e grado in contesti sociali anche molto complessi come l’entroterra calabro. La scuola, gli insegnanti e la formazione sono una dimensione che conosco bene. Inoltre sono quotidianamente in contatto con colleghi amici che hanno lavorato in primavera nei campi[4] e che dall’estate lavorano con gli insegnanti aquilani. A sei mesi dal sisma mi sento pronto per portare il mio contributo.

Il lavoro sui gruppi di insegnanti aquilani si presenta, sulla carta, come un qualsiasi altro gruppo di formazione e sostegno per insegnanti. C’è un committente: l’istituzione scuola; dei fruitori: gli insegnanti, un conduttore: il formatore psicologo; un argomento specifico: l’insegnamento; degli obiettivi concordati.

In questo particolare contesto i committenti sono due: l’Istituto Scolastico che invia i corsisti e l’Ido che invia il conduttore. So bene, per formazione ed esperienza, che gruppoanaliticamente[5] questo è un aspetto da valutare con attenzione. È una questione di ruoli: dietro ad ogni soggetto del gruppo si intravede il profilo dell’istituzione a cui appartiene. Questi insegnanti vivono in un contesto reale che ha subito un trauma sul territorio, lo stesso di cui fa parte l’istituzione committente, mentre il conduttore arriva dall’esterno così come esterna è l’altra istituzione committente con sede in un’altra città, una città non traumatizzata. Inoltre, se il gruppo esiste è perché due istituzioni lo rendono possibile. Ad oggi il vissuto delle vittime del terremoto è di forte ambivalenza nei confronti delle istituzioni: da un lato alcuni sentono di rimproverare loro parte della responsabilità dei danni provocati dal sisma e dall’altro sono loro debitori dei soccorsi, dunque letteralmente della sopravvivenza.

Il tema dell’ambivalenza va tenuto in considerazione anche nei confronti del conduttore, inevitabile crogiuolo di dinamiche proiettive derivanti dalla specificità dei singoli, dalla generica dimensione gruppale, dall’esperienza traumatica del terremoto.

Per la mia formazione, lo psicodramma e metodi attivi, questi di insegnanti sono, tecnicamente, gruppi di socioplay[6]. La specificità nella conduzione del socioplay è che ogni intervento deve avere un andamento orizzontale, mai verticale, ed evitare le profondità. I temi emersi devono circolare e rimbalzare fra tutti in quanto il gruppo è omogeneo e l’argomento è dato: l’insegnamento dopo il terremoto.

Scoprirò subito che tenere in queste circostanze un gruppo di socioplay è molto complesso. I temi, le emozioni e i traumi sono enormi e spingono con una forza strabordante dall’interno verso l’esterno. Non è mio compito lavorare questi contenuti, non è né il contesto, né la dimensione adeguata, né la richiesta che i committenti mi rivolgono[7]. L’attenzione maggiore volta alla tecnica è tenere costantemente sottocontrollo tutto ciò che non deve essere fatto. Importantissimo è lavorare in sottrazione[8] e aver sempre ben presente nella mente l’obiettivo dell’intervento: stimolare la coesione di gruppo e la collaboratività tra colleghi che si troveranno ad affrontare una situazione lavorativa nuova e intensa.

Per molti di questi insegnanti e per molti bambini il 6 aprile è stato l’ultimo giorno di scuola, scuola che il 1 ottobre non è ancora iniziata e che si appresta a ripartire. Quelle che ho di fronte sono persone abitate dalla paura del terremoto che continua quotidianamente ad arrivare e ferite da traumi complessi e lutti multipli: la morte di persone fisiche, la morte della città, la morte della casa, la morte del proprio stile di vita, la morte della vecchia professione. Così come era, il lavoro dell’insegnante non esiste più. C’era un insegnamento prima del terremoto, c’è un insegnamento dopo il terremoto.[9] Ed è questo, o almeno questo dovrebbe essere, il tema dei gruppi.

Le iscrizioni sono volontarie, ma dal lavoro emerge presto lo scetticismo e la sensazione di essersi sentite[10] quasi costrette a partecipare. La costrizione è interna e nasce dalla consapevolezza che è necessario farsi aiutare ma l’ambivalenza è forte perché diffusa è la sensazione che tanto non potranno essere aiutate perché troppo complessa è la situazione che vivono: chi potrà mai capirle? È impossibile per chiunque non abbia vissuto quello che loro hanno vissuto. E quello che hanno vissuto loro non lo ha vissuto nessuno. Negli ultimi sei mesi si sono già confrontate con esperti di ogni tipo, psicologi compresi, dei quali hanno sperimentato quella che viene raccontata come la supposta arroganza di chi sa. Ma chi può conoscere realmente qualcosa perché letta solo sui libri? Quello di cui vengo, dunque, subito avvertito è: “soprattutto stai zitto e ascolta! Ascolta…”.

E io ascolto, ascolto storie incredibili, storie inimmaginabili. Qualunque argomento si affronti e da qualunque prospettiva si parta si torna sempre lì, a quella inenarrabile notte di aprile che viene rinarrata in continuazione da ognuno, da ogni angolazione, da ogni prospettiva. Rinarrata e rivissuta quasi per poterla rendere reale perché finalmente immaginabile.

L’esperienza del terremoto è una di quelle esperienze dove la realtà supera l’immaginazione. E quando la realtà supera l’immaginazione l’immaginario deve essere aggiornato e, un po’ alla volta, ritarato, misurato e avvicinato, passo passo, alla realtà vissuta. Tutte queste singole storie ne fanno allora una sola: “La storia del terremoto de L’Aquila”, la mega narrazione del romanzo collettivo di una singola drammatica notte di una città.

È a questo livello che si gioca il mio intervento: fare di queste storie singole una storia collettiva. Perché dentro ogni singola storia diversa ci sono le stesse emozioni di tutti: lo stesso terrore, la stessa rabbia, lo stesso dolore, la stessa frustrazione, la stessa disperazione… la stessa speranza. Il mio lavoro sta allora nel dare voce alle singole voci e, come in un coro, armonizzarle e farle esprimere in un canto collettivo, quelle di un gruppo che dovrà affrontare un lavoro condiviso ed allenarsi a giocare un ruolo nuovo[11]: quello di insegnanti terremotati di bambini terremotati.

L’ingrediente principale dei miei interventi all’interno del gruppo è lo sforzo, la continua tensione, verso la “giusta misura”: ogni intervento dovrà scendere in profondità (guai a banalizzare alcunché) cercando costantemente la leggerezza per poter risalire dagli abissi della disperazione portata continuamente dai racconti; necessario sarà sottolineare sempre la specificità delle storie individuali, andando a cercarne all’interno elementi universali che leghino il singolo a un gruppo più ampio[12] nel tentativo di scongiurare l’isolamento psico-affettivo; indispensabile sarà attingere costantemente ad una dimensione filosofico-religiosa che non sappia però di religione poiché i sentimenti religiosi in campo sono ambivalenti e contrastanti.[13] Un continuo lavoro da equilibrista che cammina su un filo teso a mezz’aria senza rete di protezione. Una sfida. Una sfida come quella che queste persone vivono ogni giorno da 178 giorni.

I “miei” gruppi sono quattro e, sulla carta, sono di quindici partecipanti ciascuno, ma al primo incontro[14] del primo giorno col primo gruppo si sono presentate in ventitre. Le insegnanti fanno tutte parte dello stesso istituto ma lavorano in plessi diversi. Alcune hanno iniziato le lezioni in settimana, le altre le inizieranno la successiva ma sono già regolarmente in servizio. I gruppi si svolgono all’interno dell’orario scolastico e in molti casi si sovrappongono all’orario di lavoro. Questo ha reso fluidi i confini dei gruppi che finiscono per essere spesso formati da persone diverse. Inutile pretendere l’attenzione al rispetto delle più classiche regole della conduzione dei gruppi che devono essere sistematicamente aggiornate ad hoc[15].

Una cosa che si capisce subito mettendo piede a L’Aquila è la necessità di adattarsi. Non si può fare altrimenti. Tutto richiama alla fluidità. Sembra che con gli edifici e con i muri che li delimitavano siano caduti tutti i confini, anche quelli simbolici. La liquidità è nell’aria e non ci sono appigli.[16]

In questo scenario le abilità principali per la conduzione diventano quelle del surfista che deve affrontare le onde così come arrivano. Impossibile prevederle. L’unica cosa da fare è saper leggere il vento, riconoscere quando queste stanno per sopraggiungere, andare loro incontro e provare a rimanere in piedi.

Ogni attività strutturata che immagino prima dell’inizio di un gruppo viene continuamente disattesa da una difficoltà oggettiva, un cambiamento imprevisto, una situazione inattesa. Improvvisare è la regola e la spontaneità, in senso moreniano[17], è l’unico strumento: spontaneità e verità, impossibile nascondersi.

Giovedì 1 ottobre. Mattina. Ore 9.30. Il cielo è limpido, il sole è alto e l’aria, buonissima, comincia a farsi calda. Come d’abitudine ho appena finito di sistemare la stanza e le prime insegnanti iniziano ad arrivare.

Quello di ordinare la stanza prima di un gruppo è un rito che, se posso, cerco di non mancare: preparare il temenos, respirare il luogo, sentirne l’energia, percepirne il campo, contattarne hillmanianamente l’anima e, soprattutto, creare ordine. Una cosa che mi colpisce sempre entrando nelle scuole è il disordine che vi regna all’interno: la caoticità delle strutture, la casualità a cui sono abbandonati gli oggetti, la trascuratezza degli ambienti. Questa, in effetti, è una scuola tirata a lucido, come tutte quelle aquilane dopo il terremoto, ma entrando la sensazione che si prova è la stessa di ogni altra scuola pubblica italiana: tutte terremotate pur in assenza di terremoto. Ho spostato i grandi tavoli del refettorio lungo le pareti, ho lasciato lo spazio necessario in corrispondenza delle uscite di sicurezza e sistemato in cerchio ventiquattro sedioline da bambino: ventitre per loro e una per me. Ma non bastano. Le persone che ho di fronte alle 9.40 sono ventinove. Le ventitre insegnanti del primo incontro, cinque di un altro gruppo, una di un altro ancora.

All’inizio del primo incontro, così come d’abitudine, avevo chiesto ad ognuna di presentarsi in assoluta libertà e avevo proposto, come conclusione alla presentazione, di scegliere una parola ciascuno e di scriverla su un cartellone colorato appeso precedentemente alla parete. Trovandomi ora con sei persone nuove, prendo il cartellone del primo incontro con scritte le parole di tutti, lo porgo al centro e invito le nuove arrivate a presentarsi brevemente e ad aggiungere la propria parola sul cartellone colorato. Le prime cinque eseguono la consegna, la sesta no. Non riesce a scrivere nulla. Nessuna parola. Niente.

Ricordo subito che nel gruppo precedente era arrivata con grande ritardo, aveva saltato così le presentazioni e per tutta la durata del lavoro si era rifugiata in un silenzio ostinato interrotto solo da improvvisi scoppi di lacrime mute.   

Il lavoro di gruppo è appena cominciato e ci troviamo già ad un’impasse. Ho solo messo un piede in mare ed ecco subito arrivare l’onda grande. Che fare? Proviamo ad andarle incontro.

Enrico: Riesci a dirci come ti chiami?

Maria: Maria

E: Ciao Maria, benvenuta. Possiamo aiutarti a trovare una parola?

M: No.

E: Perché?

M: … Perché sono ferma alle 3.32 del 6 aprile[18].

E: …

M: …

E: La parola, allora, può essere FERMA?

M: No

E: …

M: …

E: Quale allora?

M: …

E: …

M: Non doveva succedere. L’unica cosa da dire è che non doveva succedere!

Hai ragione Maria. Hai assolutamente ragione, non doveva succedere. Ma è successo. E a te, cosa è successo a te? Cosa è successo a te per lasciarti così bloccata? E cosa possiamo fare, io, e noi, oggi, qui, per te?

Cerco di pensare in fretta con in testa e nel cuore queste domande mentre faccio il giro degli sguardi di tutti. Negli occhi di ognuna vedo lo stesso dolore di Maria, e lo stesso blocco. Maria rispetto alle altre lo ha letteralizzato, e lo esprime non esprimendosi, ma in realtà, chi più chi meno, queste donne sono tutte bloccate alle 3.32 del 6 aprile. Sento che il blocco di Maria è il blocco del gruppo. Anche l’aria è bloccata, sospesa, rarefatta. Siamo in una bolla, la bolla di Maria. Nella mia mente, come un mantra, iniziano a girare queste parole: “il cattivo psicologo è quello che non ha il coraggio di sbagliare”. Respiro profondamente.

E: Se siamo tutte d’accordo, e se Maria ce lo consente, possiamo provare, tutti insieme, a dare una mano a Maria.

Gruppo: Si, certamente...

E: Allora Maria, cosa possiamo fare per te? Come possiamo aiutarti?

M: In nessun modo. Per capire che non si può vi basti sapere che, da quella sera, porto delle ciabatte dove un ragazzo ha fatto pipì. Non le lavo e non voglio…, non permetto a nessuno di lavarle. Tutto deve rimanere così.

E: Ok.

Mi alzo e lentamente le vado incontro, con grande delicatezza le porgo la mano e gentilmente la invito ad alzarsi.

E: Facciamo così: vieni con me, alzati, facciamo due passi, qui nel mezzo, e mentre camminiamo ci racconti di queste ciabatte. Di te non ti chiederemo nulla, tranquilla, però ci piacerebbe sapere di queste ciabatte. Vero ragazze? Siete curiose si spere di queste ciabatte?

Maria, timidamente, mi da la mano e si alza. La sostengo lievemente per un braccio e cominciamo a camminare insieme nel grande cerchio del gruppo. Mentre camminiamo incrocio lo sguardo delle altre che seguono i nostri passi circolari. Maria guarda in terra e a tratti alza gli occhi ad incontrare quelli partecipativi delle colleghe. Un primo risultato è raggiunto. La situazione si è mossa e il gruppo ha ripreso un poco a respirare. Ora qualcosa può succedere. L’atmosfera è molto intensa e l’aria densa, ma la tensione, con i passi, comincia a sciogliersi.

E: Allora Maria, queste ciabatte?

M: Cosa devo dire?

E: Facciamo così, giochiamo: ora tu interpreti il ruolo delle ciabatte, ok? Tu diventi le tue ciabatte e noi ti facciamo un’intervista.

M: Come?

E: Vieni qui al centro. Ora tu pensa a queste ciabatte, visualizzale dentro di te e tienile bene in mente. Ci sei?

M: Si.

E: Le vedi?

M: Si.

E: Ok, ora tu sei le tue ciabatte. Allora, care ciabatte, benvenute.

M: Grazie.

E: Vorrei farvi alcune domande, siete pronte?

M: Si.

E: Bene. Di che colore siete?

M: Gialle.

E: Certamente: (rivolto la gruppo) la pipì! (timidi sorrisi da parte del gruppo e leggera sorpresa sul viso di Maria). E come siete?

M: Calde.

E: “E te credo, co’ tutta quella pipì!” (una fortissima risata da parte del gruppo deflagra nella stanza e coinvolge anche Maria che si sorprendere a sorridere. Aspetto qualche secondo…)[19] E come state?

M:…

E: ...?

M:… stanche. Molto stanche.

È a questo punto che Maria sembra come “appoggiarsi all’interno”. Stacca il contatto visivo che aveva mantenuto con me per tutte le battute precedenti, il suo corpo allenta le tensioni, la sua voce si fa calda, le spalle scendono, così come la testa che si piega in avanti.

E: Perché? Come mai siete così stanche? Cosa vi è successo?

Maria, ormai totalmente dentro il gioco, esce automaticamente dalla dimensione di worming up[20], dimentica che la mia domanda è rivolta alle ciabatte e inizia la sua narrazione in prima persona.

M: Quale figlio salvo? Chi dei tre? È la prima cosa, l’unica, che ho pensato quando mi sono svegliata alle 3.32: CHI SALVO. I miei figli sono piccoli e dormivano in tre stanze diverse. Se la casa fosse crollata non avrei mai fatto in tempo a salvarli tutti e tre. Per fortuna la casa non è crollata e noi ci siamo salvati tutti, ma io quella domanda me la sono posta. E mi sono anche data la risposta. Non la sa nessuno ma io la so. E non la scorderò mai. Non scorderò mai di aver dovuto rispondere a quella domanda. Quando siamo usciti fuori ci siamo messi al centro di un piazzale. Eravamo al sicuro lì in mezzo tutti abbracciati, ma io sapevo che era inutile perché sentivo che tanto la terra si sarebbe aperta e ci avrebbe ingoiato tutti e quattro. Quando la scossa è finita ho visto una nuvola di polvere che si alzava dal centro storico. In pigiama e ciabatte, con i miei figli per mano, sono andata verso la polvere, verso mio marito che stava al convitto per il turno di notte. Ho chiesto notizie a tutte le persone che ho incontrato e che scappavano nella direzione opposta alla mia, ma nessuno sapeva niente. Quando sono arrivata ho visto che il palazzo aveva resistito. Allora ho respirato e sono entrata. Ma dentro era crollato tutto. Tutto. Allora mi sono messa a scavare con le mani, a cercare mio marito. Ragazzi feriti e tutti nudi riuscivano a liberarsi e uscivano fuori dalle macerie. La polvere era ovunque. In mezzo a questa polvere ho sentito pronunciare il mio nome da un vecchio piccolissimo, curvo e bianco, che mi chiamava. Era Giuseppe, mio marito, che ha trentotto anni ed è alto un metro e ottanta. Ci siamo abbracciati, mi ha chiesto dei nostri figli ed è tornato a scavare. A un certo punto, da lì sotto, riesce a uscire un ragazzo: è ferito e ha la bocca piena di polvere, quasi non riesce a respirare. È straniero, e mi dice delle cose prima nella sua lingua, una lingua di un paese dell’est, poi in inglese. Io non conosco né la sua lingua né l’inglese, ma quello che mi dice lo capisco. Mi dice che lì sotto ci sono ancora due suoi amici. Io vorrei dirgli qualcosa per consolarlo ma non so come fare. Allora gli do le mie ciabatte e mi rimetto a scavare. Arrivano i primi soccorsi e chiedono quante persone vive ci sono sotto le macerie. Dico loro che ci sono sicuramente due ragazzi stranieri ma che non so se sono vivi. Mi rispondono che due ragazzi non bastano per potersi fermare lì a scavare, che in altri punti della città ci sono più persone rimaste intrappolate; e se ne vanno. Poi arriva l’ambulanza e porta via il ragazzo ferito. Lui mi restituisce le mie ciabatte piene della sua pipì. Allora mi rimetto le ciabatte con tutta la pipì e mi siedo sulla panchina della piazza, e aspetto. Aspetto e penso a quei ragazzi lì sotto e alle loro madri che stanno in un altro paese e che non sanno niente. Penso a quei due ragazzi che hanno tanto bisogno della mamma e che non ce l’hanno, stanno lì sotto da soli. Allora io rimango lì finché non li tirano fuori. Ci sono voluti due giorni. Due giorni per estrarre due corpi che non avevano neanche un graffio.

Maria racconta la sua storia in modo fluido, ritmato, senza esitazioni né ripensamenti, come se l’avesse ripetuta già decine di volte. Ne faccio internamente una sintesi e un’analisi schematica: Maria ha tre figli piccoli e in un momento di estremo pericolo, in una situazione di vita o di morte, si trova a doverne scegliere solo uno per la sopravvivenza. Si salveranno tutti e tre ma internamente Maria ha fatto la sua terribile scelta. Da lì a poco incappa in uno scenario nel quale tre ragazzi amici tra loro, e “fratelli” per nazionalità, si trovano nella medesima situazione che i suoi figli hanno appena scampato. Di questi tre amici-fratelli uno sopravvive e gli altri due muoiono per “abbandono”, un abbandono dovuto ad un apparente e arbitrario buon senso. Maria inconsciamente agisce uno spostamento[21] della sua decisione interna – la scelta obbligata di salvare solo uno dei suoi tre figli – sui tre ragazzi stranieri – di cui solo uno sopravvive – entrando simbolicamente nel ruolo della loro madre. Soffre inoltre per non aver avuto una lingua condivisa con il ragazzo-figlio sopravvissuto – non avendolo per questo potuto consolare verbalmente – del quale conserva gelosamente la pipì nelle sue ciabatte.

Che fare di quest’analisi? È necessario, di questa storia, individuarne velocemente la dimensione collettiva. Guardo il gruppo e vedo che le persone che ho di fronte sono tutte donne tra i trenta e cinquantacinque anni, il novanta per cento di loro è madre e quella di Maria è, prima di tutto, la storia di una madre. Nei gruppi di questi giorni ho già ascoltato storie di reazioni di madri nei confronti dei figli, durante quella terribile notte del 6 aprile, le più disparate: chi dalla paura è scappata dimenticandoseli in casa, chi ha visto crollare su di loro pareti intere, chi li ha estratti con le proprie mani dalle macerie, chi è rimasta per ore dietro un muro a parlare con loro intrappolati all’interno di una stanza.

Della narrazione di Maria decido di sottolineare l’ultima parte, la dimensione che l’ha vista assumere il ruolo di madre simbolica dei ragazzi stranieri. Propongo al gruppo prima una ristrutturazione[22] e poi un’amplificazione[23]:  

E: Cara Maria, hai ragione, quei ragazzi, quella sera, sotto tutte quelle macerie, avevano un immenso bisogno di avere lì la loro madre. Ma loro una Madre ce l’hanno avuta. La loro Madre, per quei due giorni, lì seduta su quella panchina, sei stata tu. In quei due giorni tu sei stata la Madre di quei ragazzi, e anche la Madre delle loro madri. In quei due giorni tu sei stata la Madre di tutti. Sei stata una Madonna. Sei stata la Madonna de L’Aquila. Qui a L’Aquila c’è una Madonna che senti vicina?

M: Si. La Madonna della Vittoria.

E: Ecco, tu sei stata la Madonna della Vittoria. Ora, vedete, quello della Madonna è un ruolo che gli psicologi chiamano archetipico, cioè un ruolo che si rifà ad una figura collettiva, eterna e universale, della sfera mitologica o religiosa. In situazioni straordinarie ognuno di noi può attingere alla sfera universale e assumere il ruolo eroico di una figura simbolica come la Madonna, ma questo ruolo può essere sostenuto solo per un breve periodo, perché divino e non umano. Se lo assumiamo su di noi e lo teniamo per troppo tempo il rischio è di venirne sopraffatti e rimanere schiacciati. Vedi Maria, è possibile che tu sia ancora in questo ruolo e che il suo peso cominci a farsi sentire. Io credo che sarebbe meglio per te che tu lo lasciassi. Cosa possiamo fare, noi, qui, oggi, per aiutarti ad uscire dal ruolo di Madonna della Vittoria e tornare ad essere solo Maria, la madre dei tuoi tre figli, tutti splendidi, forti e in salute?

M: Sento il bisogno di andare nel paese dei due ragazzi e di incontrare le loro madri e raccontare loro cosa è successo quella notte. Sento il bisogno di dire a quelle donne che io sono rimasta lì con i loro figli e sento anche il bisogno di mentire e di dire che non c’è stato nulla da fare.

E: Vuoi provare a incontrarle qui, oggi, in questo gruppo?

M: No. Voglio andare a incontrare proprio quelle due donne là, nel loro paese, a casa loro, perché solo quando avrò detto loro quello che ho da dire potranno sapere quello che è successo e io potrò tornare ad essere solo la madre dei miei tre figli.

E: Ok. Allora, quando pensi di andarci e come farai?  

M: Non lo so, non ci ho ancora pensato.

E: Facciamolo ora. Tutti insieme. Cosa serve a Maria per trovare quelle donne?

Gruppo: Conoscere i loro nomi e gli indirizzi.

E: E come può fare per trovarli?

M: Posso chiedere di controllare sui registri del convitto.

E: Molto bene.

Due del gruppo si propongono a Maria per accompagnarla nel viaggio. Maria è molto contenta e accetta la proposta. Emerge il problema della lingua. Viene individuata e chiamata una collaboratrice scolastica di nazionalità straniera, della stessa lingua madre delle due madri, che accetta di partecipare al viaggio e di fare da interprete. C’è una grande attivazione di tutti e una collaborazione davvero efficace. In pochi minuti il viaggio è organizzato. Nel gruppo, passato in un tempo breve da una dimensione di stallo ad una di movimento, si respira un senso di alleggerimento e soddisfazione. La partecipazione emotiva, mutata in partecipazione pratica, ha prodotto la costruzione di due oggetti: uno concreto, il viaggio, e uno simbolico, il tele[24].

Per chiudere la sessione, prima di aprire la fase di sharing[25], propongo a Maria di scegliere un ego ausiliario[26] che interpreti il ruolo delle ciabatte, e la invito ad incontrarle e parlare con loro. Torna il blocco. Maria non riesce a parlare. Le ciabatte con la pipì rappresentano il ragazzo sopravvissuto e incontrarle rievoca in Maria il trauma di non aver avuto una lingua per potersi esprimere con lui. Durante il gioco il gruppo, ormai attivato, interviene con una serie di doppiaggi[27] spontanei di entrambi i personaggi dai quali emerge che anche le ciabatte sono state chiamate a giocare un ruolo eroico e a comportarsi quasi come degli anfibi, ma che ora sono stanche e vorrebbero tornare ad essere solo ciabatte, comode e pulite, senza pipì. Vengono così psicodrammaticamente consolate, lavate e, simbolicamente, “lasciate andare”.

Maria non vive nel gruppo la sua catarsi[28], non è ancora pronta. Il suo trauma centrale, la scelta interna di salvare dal terremoto uno solo dei suoi figli, ha trovato una rappresentazione esterna nella morte dei due ragazzi stranieri. Andando ad incontrare le madri di quei due ragazzi morti, Maria potrà incontrare quelle due parti di se che si identificano nelle due madri di quei due suoi figli che avrebbe, per necessità, lasciato morire sotto le macerie. La sua catarsi ha bisogno dunque di un teatro esterno per esorcizzare, nel reale, ciò che si è strutturato intrapsichicamente.

A quel punto, ci auguriamo, Maria potrà ripartire da dove si è fermata, dalle 3.32 del 6 aprile – dal momento in cui le si è posta la terribile domanda – e uscire dalla fantasia identificatoria – nella quale l’ha cacciata la terribile risposta – con la Grande Madre, Gea, quella Terra terrifica che su quel piazzale stava per aprirsi e ingoiarla insieme ai suoi figli. Un viaggio di ritorno dagli Inferi, progettato nel gruppo e organizzato col gruppo, è la via creativa che la stessa Maria, moderna Persefone, ha concepito per rimettere in moto il suo tempo. Per realizzarlo ha avuto e avrà bisogno della partecipazione emotiva di ogni singolo membro del gruppo.


[1] La Madonna della Vittoria è una statua in legno raffigurante la Madonna con il bambino conservata presso il santuario di Scurcola Marsicana che da questa scultura prende il suo nome. Venne ritrovata nel 1525, dopo essere rimasta per decenni sotto le rovine dell’Abbazia che fece erigere Carlo I d’Angiò. Le venne attribuito questo titolo in memoria della vittoria nella battaglia contro Corradino di Svevia del 1268.

[2] Maria è un nome di fantasia. La sua storia è vera, tranne i nomi propri e le indicazioni geografiche.

[3] Scuola dell’infanzia e primaria.

[4] Campi: aree di accoglienza, “tendopoli”, adibite dalla protezione civile per far fronte all’emergenza abitativa post-terremoto.

[5] Gruppoanalisi: “è una forma di psicoterapia praticata dal gruppo, nei confronti del gruppo, ivi incluso il suo conduttore”. S. H. Fulkes, 1975, La psicoterapia gruppoanalitica, Astrolabio, Roma, 1976, p. 17.

[6] Socioplay: “il socioplay è dedicato non a individui ma a gruppi reali, cioè a persone accomunate da una condizione, un destino, una scelta. La dimensione analitica arretra sullo sfondo fino a sparire. In primo piano emergono le implicazioni socio-culturali della psiche. Nel socioplay il conduttore non approfondisce mai il discorso del singolo. Fa passare il tema comune da un membro all’altro. Lavora in direzione orizzontale, non verticale. (…) Anche il socioplay è terapeutico. È una terapia del gruppo tramite il gruppo, non del singolo in gruppo. Una terapia della parte del singolo che ha problemi collettivi. Per esempio, in un gruppo di insegnanti in un socioplay dedicato all’adolescenza. In certi casi non si tratta di problemi da sviscerare, ma di temi da esplorare. Più con la mente che col cuore.” E. D. Santori, Dallo psicodramma allo psicoplay. Conversazione con Ottavio Rosati, Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, volume 3 ottobre 2007 fascicolo 5, Giovanni Fioriti Editore, Roma, p. 241.

[7] Altra cosa sono invece le richieste dei partecipanti al gruppo, che in modo esplicito o implicito fanno continue richieste di elaborazione di contenuti individuali.

[8] Questo aspetto è molto complesso poiché da un lato questi gruppi attivano quello che potremmo definire come controtransfert eroico che spinge il conduttore a “strafare”; dall’altro si attivano meccanismi di identificazione proiettiva che inducono nel conduttore vissuti di impotenza e forte frustrazione. Si può avere allora una sensazione di fare troppo poco e di voler fare di più, il che sarebbe un errore poiché fare di più è fare un’altra cosa rispetto alla domanda.

[9] Le difficoltà maggiori che trovano gli psicologi dell’Ido nel loro lavoro nelle classi con i bambini è proprio con quelle insegnati che, difronte alla complessità della situazione, impostano l’insegnamento con il vecchio stile ignorando le tematiche specifiche dei traumi da terremoto portati continuamente dai bambini.

[10] I partecipanti ai gruppi sono tutti insegnanti donne dunque, da qui in avanti, declinerò ogni riferimento al femminile.

[11] La teoria dei ruoli, introdotta da J. L. Moreno nel suo libro Who Shall Survive? del 1934, è alla base dello psicodramma.

[12] Il terremoto ha prodotto, tra gli aquilani, una grande quantità di sottogruppi: il sottogruppo di chi ha subito lutti; il sottogruppo di chi ha subito danni alla casa, e tra questi i sottogruppi relativi alla categoria nel quale questa è stata inserita (A, B, C, D, E o F); il sottogruppo di chi ha scelto di vivere nei campi; il sottogruppo di chi ha scelto di vivere in albergo, e tra questi i sottogruppi di chi è rimasto a L’Aquila e di chi è andato sulla costa; e molti altri ancora. Il lavoro costante durante i gruppi è quello di ampliare il senso di appartenenza dei soggetti dai singoli sottogruppi a gruppi sempre più ampi: i terremotati del 6 aprile, gli abitanti de L’Aquila, gli abruzzesi, gli italiani, i terremotati del mondo e così via fino a gli essere umani.

[13] Poiché in alcuni gruppi è forte la propensione alla condivisione di tematiche religiose, i miei interventi sono spesso di apertura verso tematiche universali di natura filosofica o ispirate alle grandi religioni (cristianesimo, ebraismo, islamismo, buddhismo e induismo). Cerco di enunciare temi e/o verità in modo spiritoso inserendo racconti zen e barzellette tratte prevalentemente dalla tradizione yiddish.

[14] Il totale degli incontri previsti per ogni gruppo è tre.

[15] Pretendere, per garantire continuità al lavoro svolto, che le stesse persone prendano parte sempre allo stesso gruppo equivarrebbe ad impedire a molte di partecipare.

[16] Michael Conforti definirebbe questa dimensione come il campo archetipico attivo a L’Aquila. “Possiamo postulare che esista un rapporto tra sito e archetipo, che sotto molti aspetti è la sfera che riguarda il campo della geomorfologia e che può offrire una spiegazione plausibile dei “luoghi di energia” presenti nel mondo. Assisi, in Italia, è certamente uno di questi. (…) Ogni campo archetipico porta con sé una serie di mandanti, tendenze, comportamenti e influssi, e gli individui all’interno di quel campo ne saranno ineluttabilmente influenzati”. M. Conforti, 1999, Il codice innato, Edizioni Magi, Roma, 2005, pp. 66/67.

[17] “La spontaneità è la capacità di un soggetto a fronteggiare adeguatamente ogni situazione nuova. La spontaneità non è solo un processo all’interno della persona, ma anche il flusso del sentimento nei confronti dello stato di spontaneità di un’altra persona”. J. L. Moreno, 1946/1980, Manuale di psicodramma, Astrolabio, Roma, 1985, p. 146.

[18] Le 3.32 del 6 aprile 2009 sono la data e l’ora esatta della scossa.

[19] Dentro questa risata si scioglie la tensione che si era accumulata fino a quel momento. Si era tutti un po’ in apnea e l’azione del ridere permette di tirar fuori, anche meccanicamente, l’aria trattenuta nei minuti precedenti e di tornare a respirare. Claude Lorin definisce questa come catarsi dionisiaca: “si manifesta quando le emozioni esplodono e invadono il gruppo (…). Il dionisiaco, durante la seduta, è al contempo l’effervescenza e l’“uffa” collettivo”. C. Lorin, 1989, Trattato di psicodramma infantile, Edizioni Magi, Roma, 1999, p. 174.

[20] Worming up: fase di riscaldamento del gruppo che apre la strada a una dimensione di spontaneità e gioco diversa da quella della vita quotidiana in cui il soggetto è imbrigliato in una rete di ruoli e funzioni alienanti.

[21] Spostamento: “trasferimento dell’accentuazione e dell’intensità di una rappresentazione a un’altra, collegata alla prima da una catena associativa”. U. Galimberti, 1992, Dizionario di Psicologia, vol. 3, Utet, Torino, p. 530.

[22] Ristrutturazione: metodo introdotto da M. H. Erikson per la lettura di esperienze passate e vissuti emozionali, permette di abbandonare la modalità letterale, tipica dell’infanzia, di registrazione psicologica dell’esperienza, dandone una visione più ampia e completa. In merito alla modalità di ristrutturazione dei processi mentali dei pazienti, interrogato dal suo allievo Ernest Rossi, Eickson risponde: “non si tratta di ristrutturare, bensì di dare ai pazienti una visione più completa”. M. H. Erikson, E. L. Rossi, 1989, L’uomo di febbraio, Astrolabio, Roma, 1992, pp. 9/10.  

[23] Amplificazione: “metodo introdotto da C.G. Jung (…) per la lettura delle produzioni inconsce (…) permette di abbandonare l’atteggiamento personale e biografico nei confronti dell’immagine per sperimentarsi in un contesto di rimandi archetipici dal significato universale”. U. Galimberti, 1992, op. cit., pp. 98/99.

[24] Tele: “dal greco: lontano, influenza a distanza, vuol dire sensazioni tra un individuo e un altro, il cemento che tiene uniti insieme i gruppi. È Zweifühlung contrapposto a Einfühlung. Come un telefono, ha due capi e facilita la comunicazione a due vie. Il tele è una struttura primaria, il transfert una struttura secondaria. Dopo che il transfert è stato risolto, alcune condizioni di tele continuano ad operare. Il tele stimola un’associazione stabile e relazioni permanenti. Si ritiene che nello sviluppo genetico del neonato il tele emerga prima del transfert. Le relazioni di tele tra il protagonista, il terapeuta, gli Io ausiliari e le dramatis personae significative del mondo che essi ritraggono sono di importanza fondamentale per il progresso terapeutico.” J. L. Moreno, 1946/1980, op. cit, pp. 45/46.

[25] Sharing: condivisione esistenziale dei vissuti dei membri del gruppo che generalmente chiude una sessione di lavoro.

[26] Ego ausiliare: “gli ego ausiliari sono attori che rappresentano delle persone assenti così come esse appaiono nel mondo privato del paziente”. J. L. Moreno, 1946/1980, op. cit., p. 51.

[27]  Doppiaggio: un membro del gruppo, o il conduttore, parla per un altro a suo nome e in prima persona, dando voce a quelle che reputa siano le sue emozioni e dinamiche segrete.

[28] Catarsi: “Aristotele nella “Poetica” descrive la catarsi come l’effetto purificatore dell’opera, creata da un autore, sullo spettatore seduto in platea. Al contrario, Jacob Levi Moreno, padre fondatore dello psicoplay e degli action methods, sostiene che la vera catarsi consiste nell’espressione attiva e personale di ogni uomo nel momento in cui si trasforma da spettatore in attore e mette in scena la sua vita per cambiarla”. O. Rosati, 2010, Dizionario di psicoterapia, pubblicato su www.plays.it.

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