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LA MIA AMERICA A VIA LUNGARA di Fiorella Minervino

 

Fernanda Pivano racconta la sua casa di Roma

Qui venivano a passare le vacanze i miei amici scrittori, da Allen Ginsberg ad Harold Brodkey

Di Fiorella Minervino - LA STAMPA, 6 LUGLIO 2000

Via Lungara è una lunga strada stretta, sotto il Gianicolo, a Trastevere, con mille bottegucce, minuscoli bar, chiese e chiesupole, una fabbrica di candele, giardini magnifici e occulti. Più che a Roma pare di trovarsi in un borgo, dove tutti si conoscono e si salutano. Al termine, vicino all'arco, si leva una curiosa costruzione, seicentesca, a tre piani, lunghissima, con persiane verdi, gerani, inferriate al piano terra. Sembra un monastero, invece era in origine un mulino, poi trasformato in scuderia dei Torlonia, infine dopo la Seconda guerra mondiale, in curioso stabile dai molti appartamenti, diviso all'interno in due ali, ciascuna con delizioso giardino di rose, alberi, palme, felci, capitelli, statue. Una decina d'appartamenti, sui tre piani, con scala a chiocciola e terrazza in cima, offre un'incredibile varietà di portoncini sul giardino. Nell'altro lato si affacciano le case più ricche, con terrazze spaziose. È un luogo un po' misterioso, magico, con qualcosa di mistico che induce a pensare a orazioni collettive o ad asceti votati al silenzio. La Kasbah, cosi si chiama, è un intrico di alloggi e di persone svariate, registi famosi, attrici, psichiatri, gente di profilo. Qui trascorre l'estate Fernanda Pivano, la famosa americanista che fin l'America ci invidia, scrittrice, saggista, giornalista raffinata, che con l'amico Cesare Pavese da Torino introdusse la letteratura americana in Italia, continuò poi con tutti gli scrittori divenuti celebri, da Hemingway a Korouac o Ginsberg, fino a Jay Mclnerney e Paul Auster, L'appartamento 19, con porticina verde, tettuccio, albero di arance davanti, è quello della Pivano, All'interno un vano dall'arredo semplice, discreto, divani, sedie, pianoforte, tavolo, la biblioteca un po' alla rinfusa, neppure l'ombra d'una cucina, come sempre nelle case di Nanda. Al primo piano la camera da letto gioiosa, con disegni, marionette, ricordini alle pareti, una finestra che dà sul verde. All'ultimo, ecco ii suo studio dove scrive; libri ovunque, casse ricolme di volumi come dovesse partire ogni momento. Un tavolo bianco è la sua scrivania, davanti al terrazzino di rose e caprifoglio. “Qui mi trovo benissimo - riflette -. Amo Roma, ci venivo da bambina con i miei genitori all'Hotel Hassler, poi di nuovo fino al 1972, quando un giovane intervistatore, ora regista e psicanalista, Ottavio Rosati, mi spiegò l'inutilità d'un albergo costoso, quando c'era un'incredibile casa in via Lungara. Mi precipitai, il portiere giurò che c'era una lunga lista d'attesa. Allora diedi l'indirizzo della mia banca e della mia agente letteraria. L'appartamento saltò subito fuori per incanto”. I primi anni, rievoca Nanda era la sua casa da weekend. Insegnava lettere al Conservatorio di Milano, con colleghi come Quasimodo che le raccontava i suoi amori, e allievi come Riccardo Muti e la moglie. «Non si insegnava quasi nulla, ci si divertiva un mondo». Il sabato saliva su un aereo per correre in via Lungara, finché andò in pensione da insegnante e a Roma trascorre parecchio tempo. Da principio cominciò col dare splendide feste. «Rosati mi aiutava. Smontavamo la casa e per 4 anni feci trovare l'omino delle caldarroste, tanti minuscoli alberi carichi di regalini per gli amici. Mi pareva di poter ricreare il salotto multinazionale che avevo avuto fino a poco prima. Era bello. Fra i primi invitali furono i registi Sbragia, Nanni, la cognata di Orson Welles, poi cominciarono gli scrittori americani. Le vicine a turno venivano a curiosare per sapere chi ero. Poco a poco diventai amica degli inquilini. Mi stupivo perché a ogni rientro a Roma vedevo un gran giro di letti, le copie si facevano e disfacevano con velocità inaudita nella Kasbah, tutti ne parlavano». Davanti al terrazzino ha scritto il primo romanzo, «Cos'è più la virtù», per raccontare anche i suoi numerosi corteggiatori respinti. Il secondo, del 1988, stilato sempre a mano, perché non usa neppure la macchina da scrivere, è per l'appunto «La mia Kasbah», un libro spiritoso, gradevolissimo, ricco di arguzia e sensibilità, che narra la storia della casa e dei suoi abitanti fra intrichi architettonici e amorosi. «La sera era molto divertente - ricorda la Pivano -. Passavamo da un appartamento all'altro portandoci dietro le nostre sedie in giardino e io leggevo a voce alta alcuni capitoli del romanzo, ognuno diceva la sua, parevano entusiasti. Uscito il libro, tornai. Nessuno mi salutò, tutti offesi, dai portieri che non volevano essere chiamali cosi, alle signore che si ritenevano più belle di come le avevo descritte, agli incroci amorosi, che io ritenevo noti ed erano invece segreti. Un inferno. La Kasbah si ribellò ai miei racconti. Tuttora molti si girano dall'altra parte al mio arrivo».
Venne il momento del Festival Internazionale dei Poeti sulla spiaggia di Castelporziano, gli ultimi tre giorni del giugno 1979. «Feci venire gli amici americani a leggere poesie. Vivevano tutti in questa casa. Gregory Corso, che non voleva dormire in una casa borghese, trascorreva la notte sulle panchine nel giardino li fuori. Per Allen Ginsberg divenne l'albergo fisso per la vita. Dormiva sul divano all’entrata, si lamentava di continuo perché avevo messo da poco l'impianto per irrigare le piante in terrazza. Naturalmente non funzionava, in compenso verso le 3 di notte c'era un incredibile afflusso d'acqua; lui era scandalizzato per tutta quell'acqua, diceva: "Ma cos'è questo imbroglio?" Anche Harold Brodkev; è vissuto qui a lungo. Oggi i miei amici sono quasi tutti scomparsi, tranne Gregory Corso che sta malissimo, Paul Auster, Don de Lillo e il geniale Jay McInerney», Nanda sussurra: «Ho una nostalgia bruciante di Hemingway, anche se questa casa non sarebbe il suo genere, troppa gente. Dalle 5 alle 11 del mattino restavo seduta al suo fianco mentre lui lavorava, a guardarlo. Questo non si cancella facilmente. Era ossessionalo dalla semplicità, su 10 pagine ne gettava 7. Un giorno tentò di cancellare una parola con la matita, fino a spuntarla, poi buttò via la pagina. Io dissi: "Ma per una parola, bastava cancellarla". "Allora non hai capito niente, urlava, una parola rovina la pagina"».

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