IL PROFETA DELLO PSICODRAMMA di Jacob Levi Moreno
Introduzione di Ottavio Rosati
Perché gli accademici e gli psicoanalisti, con l’eccezione di Jung e pochi altri, lasciano ai posteri il compito di raccontare la loro vita?
Perché non possono raccontare la loro ombra. Solo quella degli altri. Questo libro di Moreno è un raro caso di sincerità autobiografica. La vita di Moreno (gli anni di studio a Vienna, ricchi di pratica spirituale e volontariato sociale, la sua allergia per il potere professionale e accademico, l’eroismo sociale della Religione dell’Incontro, con amici straordinariamente Chassidisti come Chaim Kellmer) impone che l’ombra del suo autore venga subito presentata al lettore, lo prenda per mano e lo porti a passeggio tra le pagine, alla ricerca delle molte luci da lei generate.
Questi “sogni ricordi e riflessioni” sono soprattutto utili per capire che l’opera e la vita di Moreno vanno lette nella dimensione archetipica del puer aeternus, indifferente alla realtà convenzionale e proteso verso valori estremi ed imprese inedite. Provano che l’idealità estrema di Moreno si radicava nei fatti oltre che nelle parole.
Il narcisismo (di vita, non di morte) e la megalomania di cui Moreno era il primo ad auto-accusarsi, con una risata assolutoria, non seguivano percorsi facili e volgari radicati nel collettivo. Al contrario, si incarnavano in un’esistenza che era espressione pura di un ideale e che implicava l’amore del prossimo e il superamento del complesso dell’io-mio, ossia quel narcisismo auto-centrato che porta a perseguire le più alte mete solo ed esclusivamente in vista di un successo personale. Quello di Jacob Levi era un ideale rischioso e impopolare: la vocazione dell’io-Dio, in virtù della quale gli altri non sono l’inferno secondo Sartre, ma il paradiso secondo Martin Buber. Una vita fin dall’inizio, dedicata alla ricerca di un sincero rapporto di scambio con l’altro.
Ma quello che rende veramente straordinaria la via seguita da Moreno è la stretta, quasi sincronica, assonanza che si è venuta a creare tra gli episodi di vita personale e la successiva elaborazione professionale.
I primi capitoli di questa autobiografia sono illuminanti: mostrano come il disturbo dell’identità di Moreno e la sua precoce fuga dalla famiglia, per guadagnarsi la vita come precettore, siano derivati dall’impossibilità oggettiva (e non dalla sua impossibilità) di offrire una soluzione al complesso I Edipo. Parlo di oggettiva impossibilità perché si tratta di un’impasse che non nasceva tanto da grovigli inconsci, quanto da una difficoltà relazionale sottovalutata dalla psicoanalisi freudiana. L’Edipo di Moreno più che un “complesso” del figlio, è l’espressione della reale qualità del padre, dei suoi meriti, dei suoi difetti, dell’amore e del rispetto che gli porta la moglie. I fatti di famiglia che leggiamo in questo libro sono karmicamente antifreudiani, ma esemplari dal punto di vista della terapia sistemico-relazionale di cui Moreno fu profeta. Scopriamo che il padre di Jacob era un ebreo rumeno-sefardita, culturalmente sradicato, che vendeva casse da morto e non parlava il tedesco: un uomo in crisi. Un padre che con i suoi fallimenti, la sua lontananza per i viaggi e le sue molte mogli, rese problematica l’identificazione del figlio. Una imagine di famiglia, ritagliata da una delle tante passeggiate domenicali, appare quanto mai profetica: i bambini marciavano in coppie maschio-femmina, il padre e la madre formavano la retroguardia e Jacob faceva da guida alla colonna, aprendo la strada e controllando il traffico.
Così, dovendo affrancarsi da una madre incolta ma vitale, bambina ma socievole, una madre spiritosa, superstiziosa, popolare, poliglotta, sognante, narratrice di storie e lettrice di mani, tarocchi e fondi del caffè, Jacob si rivolse a Dio e trovò il padre in un ideale:
La mia attrazione per l’idea di Dio è iniziata nella prima infanzia. L’Essere più importante nell’Universo era Dio, e mi piaceva essere legato a Lui. La prima sessione psicodrammatica ebbe luogo quando interpretai Dio all’età di cinque anni, nel 1894.
Inconsapevolmente buddhista, ma con fede, Moreno visse a lungo - anche dopo la laurea in medicina - come un monaco laico, che non accettava denaro dai suoi pazienti e alle signori viennesi, in cerca di avventure extramatrimoniali, rispondeva: “Preferirei di no. Sono sposato a una causa più nobile”.
Se la genesi della sua attitudine identificatoria con Dio è annunciata in una passeggiata domenicale, quella dello psicodramma, inteso come un incontro salutare tra persone alla luce del sole, è già inscritta in un episodio dell’infanzia di Moreno, riferito dalla moglie Zerka.
All’epoca, il piccolo Jacob era malato di rachitismo e nessun medico aveva saputo curarlo. La madre piangeva sulla porta di casa, mostrando la sua pena ai passanti. Una zingara di passaggio la vide, si fermò e le disse di curare il bambino mettendolo nudo su un mucchio di sabbia al sole. Fu dunque una terapeuta selvaggia e naturale a guarire il ragazzo.
Il racconto di Moreno ci regala due occasioni di riflessione. La prima: la profezia con cui la zingara calmò l’angoscia della madre (Verrà il giorno in cui questo bambino sarà un grande uomo. La gente verrà da tutto il mondo per vederlo. Sarà saggio e gentile. Non piangere.) è a metà strada tra l’accoglimento di Winnicott e uno scenario curativo di psicodramma. La seconda: a differenza di quella ufficiale, la terapia giusta fu gratuita e improvvisata.
Se leggiamo questo episodio come profezia non solo di guarigione, ma anche dei futuri sviluppi della terapia psicodrammatica, dobbiamo allora riconoscere che lo psicodramma parte da dove la psicoanalisi finisce. Tutto ciò che viene escluso dal classico setting freudiano, e cioè il gruppo, l’azione, lo sguardo, il contatto fisico e l’espressione pubblica dei conflitti, diventa un tesoro nelle mani di Moreno. Per certi versi, tutto accade come in quella cucina popolare romana – la cucina dei poveri a base di legumi e frattaglie – in cui gli elementi più semplici sono anche quelli più gustosi. Lo psicodramma è un piatto di umili origini, ma di sapore forte.
Stupisce, ai nostri giorni, il tentativo di burocratizzare il metodo inaugurato da Moreno, sottoponendolo a regole rigide e a scuole di formazione. Stupisce soprattutto se si pensa che lo psicodramma è, per antonomasia, il metodo dell’improvvisazione, la casuale profezia di una zingara guaritrice.
Lo psicodramma oggi si è affermato come strumento di comunicazione e formazione anche nel mondo della scuola - dove facilita gli scambi tra studenti e il dialogo con gli insegnanti – e in quello del lavoro. Sono molte le forme di role-playing attraverso cui si comincia a prendere confidenza con il proprio ruolo sul piano del gioco teatrale e dell’allenamento. Ma non dobbiamo dimenticare che all’origine di ciò non c’è stata una dottrina dettata sulla carta, bensì l’esperienza di vita di un uomo illuminato. E’ innanzitutto il carisma di Moreno e la sua estrema e sincera vicinanza ai fatti della vita che ha dettato il passo della cura.
Secondo suo figlio Jonathan (che Moreno mise al mondo all’età di sessantatré anni con la seconda moglie Zerka), in altri tempi, Jacob Levi sarebbe stato un profeta religioso, un mago o un guru, mentre nel suo tempo fu tutto questo e anche uno scienziato. Resta da aggiungere che questo scienziato, al quale piacevano i bambini più che gli attori, e gli attori più degli intellettuali, era capace di una sintesi di intuizione, pensiero e sentimento che lo rendeva invidiabile e scomodo come pochi tra gli scienziati sociali del suo tempo. Forse è questa la risposta a chi si domanda perché i riconoscimenti tributati a Moreno siano, tutto sommato, inferiori a quelli che meriterebbe. Moreno, già a trent’anni, aveva fondato un movimento religioso, un teatro e una rivista e a cinquant’anni un ospedale psichiatrico, una casa editrice e una scuola. Ma fin qui siamo ancora nell’ambito del mito americano di quegli anni, che prevedeva l’affermazione e il successo dell’uomo laborioso e tenace. Moreno, tuttavia, non cercava il successo personale, ma il successo di un sogno. La pietra dello scandalo è di aver portato nella scienza la passione, nella terapia il gioco, dentro la platea la scena. La sua rivoluzione non riguarda solo la psichiatria, ma la storia del teatro ed è di una grandezza paragonabile solo a quella del più grande drammaturgo del secolo, Luigi Pirandello.
Nella premessa a Ciascuno a suo modo (1924), seconda opera della Trilogia del teatro nel teatro, Pirandello prevede che lo spettacolo abbia inizio davanti al teatro, per strada, dove, in mezzo al pubblico, si troveranno degli attori che si fingeranno spettatori. Occorre, inoltre, stampare e distribuire la falsa copia di un quotidiano locale in cui, a grossi caratteri e bene in vista, si spiegherà che il dramma teatrale che sta per andare in scena è ispirato a un dramma umano realmente avvenuto in città: un melodramma di arte e sesso concluso con un suicidio romantico.
La didascalia di Ciascuno a suo modo descrive minutamente l'azione finta, da recitare come vera prima di entrare in sala, in un ribaltamento speculare del Giornale Vivente di Moreno, in cui venivano rappresentati a soggetto i fatti reali della cronaca giornaliera. Ma se Moreno, a Vienna, si trovò costretto a inscenare i fatti del giorno, perché in un primo momento nessun critico credeva che il suo fosse davvero un teatro improvvisato, Pirandello nella sua commedia esige il contrario: un'attrice dovrà agitarsi “pallida e convulsa” nei pressi del botteghino in mezzo al pubblico, sconvolta dall'idea che la sua vita privata stia per andare in scena in una commedia a chiave.
Così un'attrice vera giocherà a soggetto il ruolo dell'attrice falsamente vera- chiamata da Pirandello “la Moreno (che tutti sanno chi è)” - e, al contempo, giocherà anche il ruolo dell'attrice veramente falsa, ossia il suo doppio. Il carattere sbalorditivo e ipnotico che dell'omaggio che Pirandello fa al padre dello psicodramma è dovuto anche al fatto che la Moreno è attrice a due livelli: la professione del personaggio è appunto quella di attrice e il nome del suo doppio è “la Morello”, segreta crasi di Moreno e Pirandello. Nell'antefatto della commedia la prima donna prenderà a schiaffi la seconda, agendo una catarsi psicodrammatica davanti ai camerini del teatro e, finalmente, Moreno maltratterà il personaggio Pirandello, l'autore in cerca di personaggi nella realtà.
Ma le corrispondenze fra teatro e psicodramma vantano anche un altro antecedente famoso: l'inaugurazione del teatro Beacon di New York – il palcoscenico voluto da Moreno per le sue improvvisazioni – avvenne con una messa in scena di Lila, l'opera di Goethe in cui la protagonista, una donna folle, viene curata proprio attraverso il teatro.
E oggi, a distanza di molti anni, un nuovo palcoscenico di psicodramma – il Teatro Stabile di Catania – viene inaugurato proprio con una rielaborazione teatrale del rapporto fra Pirandello e Moreno*. A dimostrazione del fatto che la tradizione è ancora forte e ricca di avvenire.
* Si tratta del laboratorio-psicodramma Fantasmi di Ezio Donato, protagonista Leo Gullotta, con cui il Teatro Stabile di Catania ha reso omaggio ai rapporti tra Moreno e la cultura italiana. La commedia ha debuttato nel nuovo Auditorium dei Benedettini della Facoltà di Lettere restaurato dall'architetto Giancarlo De Carlo nella forma straordinaria di una pluri-platea con palcoscenico centrale omologa al teatro di psicodramma di cui parla Moreno nella sua autobiografia.