PSICOMUSICA di Jacob Levi Moreno
Introduzione di Ottavio Rosati
Sarà forse per il Pazzariello di Luzzati sulla copertina, ma la nota introduttiva a questo Psicomusica è scritta in tre parti, ognuna con un suo colore. Una nota tricolore: blu, gialla e rossa.
Blu.
Traducendo per la seconda volta, dopo vent’anni, questo scritto di Moreno, ho sentito il desiderio colpevole di cambiargli un po' stile. Persecutori interni intrisi di conservatorismo mi tenevano d’occhio intimandomi di restare al mio posto. Ho cercato di resistere ma mi è venuto il mal di testa e alla fine ho trovato proprio in Moreno il coraggio di cui avevo bisogno. Così mi sono permesso di liberare, nel 2005, il testo di Psicomusica dalle circonlocuzioni impersonali che affliggono la versione originale del 1947. Soprattutto dai verbi al passivo.
Verbi al passivo? Mi spiego.
Se scrivo “Ho alleggerito un testo”, stabilisco col lettore un rapporto leale. Lo metto in condizione di dire che non c’era nessun bisogno di farlo. Il lettore sa da chi e da cosa può prendere le distanze; può chiudere il libro e mandarmi una mail di insulti.
Se invece scrivo, con scivolosa modestia: “È stata avanzata l’ipotesi che il testo, in una certa fase, potrebbe essere liberato da certi suoi limiti”, non mi prendo le mie responsabilità e, dopo due pagine, ho ipnotizzato il lettore. Proteggo l’idea dalle critiche, così bene da nasconderla.
Questo stile è comprensibile, anzi inevitabile, nei casi in cui non si pubblica perché si scrive, ma si scrive perché si deve pubblicare. Ma è sconcertante nella prosa di un rivoluzionario come Moreno la cui fama negli anni Quaranta si stava allargando in tutto il mondo e il cui nome in rumeno vuol dire ‘Nostro Maestro’.
Perché un personaggio che ha passato la gioventù a Vienna a dare scandalo e a comporre poesie in nome di Dio, arrivato nella pragmatica New York scrive timidamente che certi esperimenti terapeutici dovevano essere fatti, invece di scrivere che lui li ha fatti? Come mai Moreno, yankee nella Grande Vienna, diventa Austro Ungarico in America? E’ un meccanismo di difesa o un galateo strategico? O un misto dei due?
Credo che Moreno volesse mitigare la forza sfacciata delle sue affermazioni di principio. Cercava di difendere la sua originalità - massiccia come la sua stazza - dagli attacchi invidiosi di un establishment psichiatrico che aveva cominciato a dargli credito ma che, in confronto a lui, era a corto di idee. Il fatto che oggi le proposte di Moreno ci sembrino ovvie è dovuto al fatto che hanno avuto successo. Ma nel 1947 usare un’orchestra sinfonica per curare un disturbo psicosomatico non era una cosa normale.
Forte di questa convinzione, curando il testo, ho spezzato in tre parti le frasi più lunghe di Psicomusica, ho tradotto cultural conserve ‘confezione’ e non ‘conserva culturale’ che fa pensare il lettore alla passata di pomodoro. E ho girato i verbi al passivo in attivo con tanto di soggetto. La fumosità della versione originale si è dissolta e il discorso di Moreno è emerso asciutto e chiaro.
A questo punto, il testo, uscito come nuovo dal suo autolavaggio, dava una piccola lezione di taoismo. Cioè?
Per mettere in tavola un discorso che elogia la spontaneità, non avevo usato solo una dose di spontaneità, ma tecniche elementari di editing insegnate in qualunque corso di scrittura creativa. Dunque la cura della spontaneità e quella della confezione, non sono in contrasto. Sono complementari come il maschile e il femminile, ma non opposte. Il flusso della spontaneità e la solidità del canone culturale si combinano idealmente come lo yin (centrifugo) e lo yang (centripeto) nella sintesi del Tao. L’idea di Moreno, che la cultura della confezione possa bloccare la musicalità latente in ogni essere umano non è un attacco alla musica e nemmeno un manifesto di musicoterapia.
Un disturbo diverso da quello del primo violino dell’orchestra sinfonica di New York andrebbe compreso e curato con uno psicodramma diverso. Uno strimpellatore disoccupato e con la testa tra le nuvole potrebbe richiederebbe un role playing allo studio della musica. Nel suo caso, la spontaneità consisterebbe nell’imparare a muoversi dentro le regole del gioco. Cantare fuori dal coro è diverso dal fare pipì fuori del vaso.
Il discorso sulle tecniche di psicodramma può essere fatto anche in termini di definizione sociometrica: l’artista alternativo che si illude di operare fuori del sistema, in realtà occupa una posizione ben definita. Che lo voglia o no, anche un metallaro rock si muove in un genere preciso e gestisce un ruolo: quello dell’outsider.
In definitiva ogni stonatura ha le sue note e va gestita con un intervento su misura. La spontaneità non consiste nel dare fiato alle trombe ma nel riuscire a fare ciò che sembrava impossibile. La lezione di Moreno vale per il paziente ma soprattutto per il terapeuta.
La pagina blu finisce qui. La seconda pagina è gialla.
*
La pagina gialla di questa nota descrive un esperimento partito da Jung e finito su un Cacatoa Alba ricco di spontaneità: un pappagallo bianco e giallo.
La tecnica usata da Moreno per curare il disturbo del violinista in crisi, per certi versi, mi ha fatto pensare all’immaginazione attiva, una delle principali tecniche junghiane, basata su fantasie creative che di solito si fanno “a mente nuda” ma possono anche implicare il ricorso alle mani. Alla materia, al corpo, alla danza. Tra l’approccio suggerito da Jung e quello organizzato da Moreno ci sono differenze e analogie.
La differenza sta nel fatto che quello del violinista non è un confronto personale e privato con l’inconscio ma un lavoro a due: è Moreno che fa la regia dei giochi. L’analogia sta nel fatto che questa regia e questi giochi attivano comunque una funzione trascendente, in cui il violinista impara a mettere in contatto il suo io con l’inconscio, creando una terza via. Nella psicomusica si incontrano le capacità di esecuzione e le fantasie personali. La guarigione dal sintomo porta anche un nuovo modo di suonare che alla fine è apprezzato anche dagli altri orchestrali.
Forte di questa constatazione, ho fatto a mia volta un’immaginazione attiva centrata sulla psicomusica. Volevo sondare il punto di vista del mio inconscio in materia. Mi sono concentrato finché è emersa la figura cordialissima di Moreno. Mi suggeriva di mostrare il suo esperimento a un esperto di musica per avere un punto di vista aggiornato sulla sua proposta del 1947.
La mia scelta è caduta sul mio amico Dario Della Porta, un musicologo romano, noto per la serietà dei suoi studi e la raccolta di libri e dischi che ne fa un vero principe delle conserve culturali.
Per fare accettare a Della Porta un invito a colazione a casa mia, ho fatto leva sulla presenza di due ragazze che gli piacevano e del mio pappagallo Teto che gode della sua simpatia. DDP sapeva che dopo il caffè gli avrei mostrato uno studio sulla psicologia della musica, per avere un suo parere.
Quanto segue è la registrazione dei commenti fatti da DDP leggendo il testo di Moreno. Le due ragazze erano andate a comprare il gelato. Era presente il pappagallo che a un certo punto si è stranito ed è entrato nella sua gabbia.
JLM: Con lo sviluppo degli strumenti musicali, si sviluppò la notazione musicale, un linguaggio astratto, altamente specializzato…
DDP: (Sorridendo) Non capisco. Come sarebbe? La notazione musicale non è collegata all’evoluzione degli strumenti. E non è affatto un linguaggio astratto. Al contrario… È un fatto assolutamente pragmatico. Nasce nel Medio Evo. Prima del Mille. Poi, Guido d’Arezzo inventa le note musicali. La notazione neumatica (sorride), dal greco che vuol dire segno – tu l’hai fatto il liceo classico?... Ah sì? davvero? - deriva da segni che erano la trascrizione su carta di gesti fatti dal praecentor (china gli occhi) il capocantore, per segnalare l’andamento della melodia e favorire l’intonazione collettiva. Capisci? Andiamo avanti. Se credi.
JLM: Gli strumenti originari dell'uomo, come produttori di ritmi musicali, erano il suo corpo e le sue corde vocali,
DDP: (Alzando gli occhi al cielo) Il ritmo? Il ritmo non si produce con le corde ma con qualunque oggetto tu decida di usare, dalle pietre ai tronchi cavi. Capisci? Gli oggetti che producono ritmi sono classificati come idiofoni, pensa al tam-tam. Certo, le corde vocali sono un pezzo del corpo ready made e come tale idiofono. Ci puoi cantare ma servono a seguire il ritmo, non a scandirlo. Per dare un ritmo puoi battere le mani o batterti il petto. Come Tarzan. Per usare le corde vocali devi strapparle, essiccarle per bene e batterle tra di loro come due bastoncini. (Spegne la sigaretta sul piatto. Fa un ghigno) C’è altro? Ma quando tornano queste due?
JLM: Anche la musica in forma di psicomusica può diventare una funzione attiva di ogni persona nella sua vita quotidiana.
DDP: Perché, secondo te, se vado all’opera e non salgo sul palco a cantare sono passivo? Che discorsi sono questi? Voi psicologi siete pazzi. Il tifoso allo stadio, il loggionista, non mi pare che abbiano un atteggiamento passivo solo perché fruiscono. Mi sembra che gli spettatori abbiano la loro da dire. O no? Tu ne sei la prova, visto come ti agiti in questo momento. In questa roba qui, un po’ anni Settanta, ci vedo la degenerazione di concetto di democrazia-uguale-cose-facili, che consiste nell’abbassare le cose alte per metterle al proprio livello, senza fare fatica. Voi psicologi avete la vostra parte di responsabilità. Come si fa? Come si fa? Questo Moreno è un pazzo. Abbiamo finito o no?
JLM: Tra gli strumentisti più abili domina la corsa alla competizione.
DDP: E allora? So what? Viva la faccia; così si migliora il prodotto… Ma che gente siete? Solo perché curate un violinista, vi mettete a dettare legge su cose che non conoscete? (Sbatte il coperchio del portatile) Se guarisco uno dandogli una botta in testa non vuol dire che sono un filosofo attendibile. Cose da pazzi. Niente di nuovo del resto. Tolstoy pure diceva qualcosa del genere, in un contesto che è la negazione dell’Occidente in blocco. Scrive, tra l’altro, che i canti dei contadini sono la forma più alta di creazione musicale, superiori a Beethoven e Wagner. Un malinteso senso democratico è il cavallo di Troia per andare in questa direzione. Da chi ci può venirci ‘sta roba se non da questo Est invidioso e terrificante? Moreno, Tolstoy… due calmucchi, ti dico! Basta, non ho tempo da perdere. Fammi un caffè e lasciami solo col tuo pappagallo.
L’esperimento si conclude qui. La pagina gialla anche.
Resta la terza e ultima parte, di colore rosso.
Ho reagito fischiettando una canzone di Cesaria Evola davanti a Teto che si è unito a noi. Per molti versi la stroncatura di DDP sembra più una conferma che una stroncatura delle tesi di Moreno sui pericoli di un eccesso di formalizzazione. In fin dei conti il suo non è il parere di un musicista né di un terapeuta ma di uno studioso di musica, certamente in contatto con l’eros del flusso creativo. Ma attraverso il logos. Se almeno DDP suonasse la chitarra, dice il mio calmucco inetrno, forse capirebbe o sentirebbe diversamente il significato della psicomusica.
Ho ripreso in mano I giochi e gli uomini, un libro del 1958 di Roger Caillois, che porta avanti il discorso di Huizinga per una teoria generale dei giochi. Come è noto, Caillois distingue quattro categorie diverse di gioco a seconda che in essi predomini il ruolo della competizione, del caso, della messa in scena o della vertigine. E li chiama Agon (si gioca a tennis o a poker), Alea ( si gioca al lotto o a dadi), Mimicry (si gioca un ruolo a teatro o nella vita) e Ilinx (si gioca a perdere l’equilibrio sull’ottovolante). Quel che mi tornava utile era la sua distinzione tra due elementi costitutivi senza dei quali nessun gioco è possibile: Paidia e Ludus. La prima rimanda agli elementi di spontaneità, alla freschezza imprevedibile di ogni mossa del gioco. Il secondo si riferisce alla struttura in cui avviene il gioco, fatta di regole, ruoli e confini.
In termini psicologici, Paidia è la spontaneità. Ludus è il setting che la contiene. Per esempio, giocando a tennis, possiamo inserire una variabile a sorpresa, fingendo di fare un lungo linea per poi incrociare la palla con un effetto, all’ultimo momento. Ma il colpo imprevedibile ci dà gioia solo perché le linee del campo lo rendono possibile in quanto restano sempre quelle e non si trasformano di colpo in quelle del calcio. Non si dà Paidia senza Ludus. Insomma quella del musicologo era la voce del Ludus per la Paidia di Moreno.
Restava però in circolazione una disarmonia. Non riuscivo a definirla e nemmeno a liquidarla.
La soluzione è venuta dalle immagini. Da un sogno allietante arrivato mentre finivo di scrivere questa nota in uno stato di totale concentrazione sulla psicomusica. Lo riferisco (con riserva e cautela) sospettando che possa dirci qualcosa di Moreno, e non solo del suo incauto sognatore-traduttore. Del resto, se la trasmissione dell’inconscio tra generazioni è ormai un dato acquisito, è da presumere che si verifichi anche nelle famiglie di psicodrammatisti, in cui Moreno è il nonno.
Il sogno era ambientato nella basilica romana di Santa Maria in Trastevere, a pochi metri da casa di DDP. Credo che non vada analizzato con la testa ma guardato col cuore, come un racconto o un cortometraggio:
Sono a S. Maria in una postazione alta. A sinistra dell’altare. Un violinista ebreo con la barba lunga ma molto giovane scende dal tetto. È Moreno, magro e vestito di bianco. Si aggrappa ai capitelli ionici come l’Uomo Ragno e scivola sulle colonne di marmo che costituiscono il materiale di recupero dei templi pagani con cui nel Medio Evo è stata costruita la basilica. Arriva al centro della navata dove si trova una grande scatola di cartone bianco di forma rettangolare, fatta per contenere un’antenna satellitare.
Il violinista Moreno comincia a suonare in modo forsennato, girandole attorno. A un certo punto salta sul coperchio e suona ballando e pestando i piedi. Solo a quel punto sento che la scatola contiene una Sposa Cadavere come quella del film di Tim Burton. La scatola dell’antenna è stata usata come un sarcofago. Dentro ci sono anche dei bambini morti che il violinista può riportare in vita con il suo entusiasmo. Per far questo deve aprirla. Accanto a me c’è il parroco di S. Maria che sorride vedendo uno chassidim nella sua chiesa. La musica amplificata dalla chiesa è struggente. Trattengo a stento le lacrime. “Violinisti così scendono dal tetto ma non salgano mai dalla scala,” dice don Matteo. “Scala? Che Scala?” domando. Mi sveglio col cuore in tumulto.
No comment.
E il musicologo? Che ne sarà di lui, della sua mancanza di Eros? Non c’è da preoccuparsi. La simpatia Dario della Porta per il pappagallo prova che la sua anima può ancora salvarsi. Il cacatoa sarà per Dario ciò che Margherita fu per Faust.
Fine della pagina rossa.
Fine della nota.
La parola, rinfrescata, va ora a Moreno.
Buona lettura.