L'ATTIVAZIONE DELL'IMMAGINE NELLO PSICOPLAY JUNGHIANO di Ottavio Rosati
Una tecnica tra due teorie.
Questo articolo sull'attivazione dell'immagine nello psicodramma junghiano non descrive un approccio teorizzato da Jung (1). Quella dello psicodramma junghiano infatti è una formula elaborata negli anni Novanta da terapeuti di varia formazione professionale e costituisce un'ibridazione tra alcuni aspetti del pensiero di Jung e Io psicodramma, la psicoterapia di gruppo la cui formulazione risale allo psichiatra e sociologo Jacob Levi Moreno (Bucarest 1889-New York 1974) (2).
La formazione professionale degli psicodrammatisti a orientamento junghiano è duplice. In primo luogo abbiamo veri e propri psicologi analisti come Edward C. Whitmont (1964; 1975), W. Züblin o il direttore del Cari Gustav Jung Institut di Zurigo, Helmut Barz con Ellynor Barz. Si tratta cioè di analisti della seconda e delle successive generazioni che hanno operato un collegamento tra la psicologia analitica e alcune tecniche basilari dello psicodramma, senza però approfondire il modello teorico di Moreno. La maggior parte di questi analisti non ha svolto una vera e propria formazione professionale in psicodramma e non fa parte dell'Associazione Internazionale fondata da Moreno nel 1964 (3).
Un contributo di rilievo è anche quello di psicodrammatisti, provvisti di una vera e propria formazione professionale in psicodramma classico o in quello analitico (inizialmente di matrice freudiana) che, a partire dagli anni Ottanta, hanno sviluppato esperienze e ricerche sempre più influenzate dal pensiero di Jung. La maggior parte di loro ha completato la propria formazione di terapeuti di gruppo, con un'analisi personale e/o un lavoro di supervisione di matrice junghiana che li ha sensibilizzati all'importanza del simbolo e al lavoro sull'immagine (4). Alle soglie del Duemila lo psicodramma junghiano si configura quindi come un'esperienza in sviluppo che inizia a essere documentata ed elaborata teoricamente, a dimostrazione del fatto che la vocazione per il gioco e il piacere dell'azione non sono incompatibili con la speculazione e la riflessione scientifica. Restano comunque da elaborare sistematicamente i margini di apparente convergenza tra alcune categorie del pensiero di Jung e di Moreno, per esempio tra la concezione junghiana del transfert e quella moreniana del tele, tra il Selbst e la nozione di Io-Dio, tra archetipo della Persona e il concetto di Ruolo, tra archetipo dell'Ombra e il role playing del Doppio, tra Simbolo e Spontaneità, ma soprattutto tra immaginazione attiva e azione psicodrammatica.
All'interno di un trattato di psicologia analitica, un articolo sull'attivazione dell'immagine nello psicodramma junghiano si propone dunque più come segnalazione di un work in progress, stimolante ma imprevedibile, che come un rendiconto di una serie di esperienze completamente maturate e consegnate alla tradizione. In questo la situazione ricorda quella che, fino a qualche anno fa, caratterizzava la tecnica della sand-box di Dora Kalff. Si tratta dell'approccio che più di ogni altro nell'ambito junghiano può essere avvicinato allo psicodramma per il fatto di ridimensionare il ruolo esclusivo della parola affiancandole, per il paziente, le dimensioni del gioco nella materia e, per l'analista, l'osservazione di immagini concrete. Inizio con una breve descrizione dello psicodramma vero e proprio inteso come formalizzazione moderna di una pratica terapeutica del teatro e del gioco di finzione che per certi versi è esistita da sempre (5) e che solo nel Novecento è stata compiutamente definita, praticamente negli stessi anni, da Moreno nell'ambito psicologico e da Pirandello in quello artistico. Cercherò poi di definire quattro principali stili di conduzione psicodrammatica, utilizzando la teoria tipologica di Jung. Vorrei descrivere lo psicodramma come un genere di immaginazione attiva realizzabile nell'ambito di un gioco interpersonale in grado di esteriorizzarla e concretizzarla in una dimensione di gruppo. Questo presuppone la convinzione che la psicoterapia di gruppo sia possibile a vantaggio, e non a scapito, del processo di individuazione del singolo paziente. Questa tesi oggi non è più eretica ma trova vari sostenitori tra gli stessi allievi di Jung poiché, come afferma Strubel,
l'individuazione comprende sempre un gioco di scambio tra le ricerche individuali e quelle collettive secondo il senso della vita. Non c'è alcuna individuazione che sia indipendente dalla ricerca di identità dei gruppi e in ultima analisi di tutta la società. (1981, 211).
Il gruppo tra setta e individuazione.
Come è noto, per Jung «Cento teste intelligenti messe insieme danno per risultato un idrocefalo» (1936; 1985, 300), poiché lo spirito gregario che si instaura allo scopo comune di superare lo smarrimento e il panico (Ibidem, 299) tende a massificare e occultare le spinte individuative del singolo.
È difficile per Jung riconoscere al gruppo una valenza terapeutica: più che alla psicoterapia individuale all'interno di un gruppo egli pensa al gruppo tout court, come fenomeno sociale. E Io pensa più nei suoi aspetti regressivi e massificanti che in quelli fondamentali per il riscatto della dignità umana, come quelli che ispirano comunità e organizzazioni a difesa dei diritti dei Lavoratori o dei bisogni di minoranze oppresse. Ciò non toglie che l’osservazione critica e spietata di Jung gli abbia permesso di compiere importanti riflessioni sulla psicologia di massa degli stati totalitari, riflessioni ancora oggi valide e attuali.
La visione di Jung ricorda quella compiuta da Le Bon alla fine dell'Ottocento (Jung 1940/50; 1980, 123), anzi sembra fondata su di essa (Plaut, in Samuels 1989, 515). Di conseguenza Jung ritiene che l'esperienza trasformativa realizzabile nell'analisi a due non sia in alcun modo paragonabile a quella che può aver luogo in un gruppo (1940/50; 1980, 123). A suo parere,
la terapia di gruppo è solo in grado di educare l'uomo sociale [...] Nella terapia di gruppo si corre il rischio di arenarsi al livello collettivo (1972; 1989, 26.1.1955, 452-453).
Un cambiamento di atteggiamento, afferma Jung, «non prende mai le mosse dal gruppo, ma inizia solamente dall'individuo» (1948; 1986, 96). Nel gruppo sarebbe possibile solo «la rappresentazione solenne di fatti ed eventi sacri» (Jung 1940/50; 1980, 124), l'unica forma di esperienza che impedisce alla moltitudine di sconfinare nell'istintualità inconscia, permettendo allo stesso tempo al singolo di essere in qualche modo cosciente di ciò che sotto i suoi occhi si verifica (Ibidem). Ogni esperienza di gruppo si verifica , infatti, ad un livello di consapevolezza inferiore rispetto a quello individuale (Ibidem, 123). In Coscienza, inconscio e individuazione Jung afferma che gruppi, comunità e interi popoli possono rimanere colpiti, cosi come l'individuo che precipiti all'interno di una costellazione archetipica, da epidemie psichiche (1939; 1980, 270). Jung in una lunga lettera allo psichiatra sociale Hans Illing, scritta nel 1955, così riassume le sue riflessioni sull'argomento:
1. La terapia di gruppo è necessaria per l'educazione dell'essere umano sociale.
2. La terapia di gruppo non sostituisce l'analisi individuale.
3. I due tipi di terapia si completano l'un l'altro.
4. Il pericolo della terapia di gruppo risiede nella possibilità di fermarsi a un livello collettivo.
5. Il pericolo dell'analisi individuale sta nella possibilità di trascurare l'elemento sociale
(Jung, in Pignatelli di Cerchiara 1970, 392).
È evidente che pretendere dal teorico del processo di individuazione una distinzione tra terapia (e/o analisi) di gruppo centrata sul gruppo e terapia (e/o analisi) di gruppo centrata sul singolo paziente sarebbe ingenuo e poco sensato. Spetta allo psicologo contemporaneo operare una precisa distinzione teorica e tecnica tra le varie dimensioni. Il ricorso ad altri autori, da J.L. Moreno a W. Bion a S. Foulkes a D. Napolitani, permette di verificare la possibilità che un contesto di gruppo sia orientato non alla creazione di una comune ideologia falsificante o di un comune psichismo regressivo, ma all'analisi degli assunti di base del gruppo e infine all'elaborazione delle differenze individuali sottese tra diritti e doveri, capacità e complessi.
Le parole di Fiumara: «La psicologia analitica ha in sé tutti i presupposti per formare una sua propria e specifica teoria del gruppo adeguata alle esigenze della situazione socioculturale odierna» (1989, 61), sono forse un po' troppo generose, ma provano che nell'ambito della psicologia analitica questo bisogno non solo è stato percepito sul piano teorico ma è stato anche affrontato sul piano della prassi terapeutica:
Il gruppo è fondamento naturale e necessario dell'individuo come il complesso ne è costituente naturale e necessario: l'equazione gruppo-complesso è totalmente sostenibile e con essa l'ovvio riferimento archetipico. A questo punto h prima riflessione: noi cerchiamo di facilitare questo processo di individuazione ma è forse questa solo «convenzionale» poiché mentalmente l'individuo è tutt’uno con l'ambiente, la nicchia ecologica a cui si è adattato? (Fiumara 1989, 60).
La pratica clinica che, nell'ambito della gruppoanalisi e in quello dello psicodramma, sostiene questa tesi ottimistica, parajunghiana, in fondo non dà torto a Jung, sia nell'ambito privato che in quello istituzionale (Gasseau 1985). L'esperienza infatti dimostra che non il gruppo di per sé, ma solo una particolare maniera di gestirlo, può aiutare il singolo a trovare nei compagni di gioco uno strumento all'individuazione del proprio discorso anziché un ostacolo. Esiste un tipo di regia psicodrammatica, per cosi dire matriarcale, che può sedurre il soggetto coprendo la sua problematica in una cortina ottusa di solidarietà e retorica. Ma esiste anche una regia, meno comoda e popolare, in grado di favorire il processo di individuazione dei membri del gruppo. Quest'ultima si realizza a condizione che il conduttore abbia ben chiaro che in un gruppo di dieci partecipanti sono dieci i gruppi presenti e dieci gli psicodrammi che si incrociano a ogni sessione. Questo a causa dell'inevitabile iscrizione reciproca a strutture gruppali interiorizzate che precedono l'incontro e che l'incontro ha appunto lo scopo di analizzare.
L'idea che durante ogni psicodramma non ha luogo uno psicodramma ma tanti psicodrammi quanti sono i soggetti presenti nel gruppo non è esplicitamente espressa da Moreno, che col concetto di tele (cioè di empatia reciproca) enfatizza la dimensione dell'incontro e della reciprocità, piuttosto che analizzare quella dell'affabulazione reciproca. Va ricordato perciò che questa idea, radicalmente junghiana, non sarebbe possibile senza la riflessione di Siegmund Foulkes e l'elaborazione della teoria gruppoanalitica della sua scuola.
In conclusione se lo psicologo analista mantenesse un'ottica coerentemente junghiana interpretando il senso di uno psicodramma attraverso un ricorso sistematico alla teoria degli archetipi, egli finirebbe per omologare le storie e i destini dei partecipanti sotto il segno di comuni costellazioni dell'inconscio collettivo, perdendo di vista le occasioni di differenziazioni individuale offerte dalle concrete esperienze di gruppo. Viceversa il ricorso a Moreno, Foulkes e ad altri autori offre h possibilità di pensare e realizzare uno psicodramma centrato sull'individuo in omaggio alla famosa boutade che il maestro di Zurigo dedicò al suo gruppo di allievi: «Per fortuna io non sono junghiano».
J.L., inventore senza brevetti.
Ma qual è la specificità dello psicodramma nel panorama delle terapie di gruppo? Come indica il suo nome, in cui il suffisso dramma (dall'inglese drama = teatro) ha preso il posto di analisi, lo psicodramma è un tipo di psicoterapia di gruppo, espressiva e attiva, basata sulla messa in scena, anche detta «gioco» (dall'inglese to play = giocare, ma anche recitare) e l'azione spontanea.
La formula del Teatro della Spontaneità, da cui sarebbe in seguito nato lo psicodramma vero e proprio, nacque a Vienna negli anni venti ad opera di un vivace esponente della vita culturale della città, il giovane medico e poeta Jacob Levi Moreno che al concetto freudiano di astinenza contrapporrà quello di act hunger, ovvero «fame di azione»: la parola dramma, come è noto, deriva dal greco drào = faccio, agisco. Attore dunque non è solo l'artista che recita l'opera di un autore sul palcoscenico ma anche colui che agisce creativamente nella storia e nel Grande Teatro del Mondo. Non a caso dobbiamo a J.L. Moreno (affettuosamente chiamato Geièl (J.L.) dai suoi amici e allievi) anche la prima proposta di comunità terapeutiche e gruppi di auto-aiuto, cioè di contesti la cui efficacia terapeutica e riparatrice sta nella possibilità di agire e operare, piuttosto che parlare e pensare.
Ed è appunto all'insegna della fame di azione che si manifesta la vita di Moreno stesso. A interessi di natura teologica, filosofica e letteraria, Moreno infatti affiancò incursioni nel mondo del teatro, nella animazione sociale ante diem di bambini, profughi e prostitute, nella psicologia sociale e nella psichiatria. Egli non limitò la propria attività al lavoro clinico. Oltre che psichiatra e psicoterapeuta, Moreno fu inventore, sociologo, didatta, direttore di riviste, case editrici, istituti e associazioni internazionali, poeta, saggista, animatore teatrale, polemista, conferenziere. Ma l’attività che più alternò alla psichiatria è quella sociologica.
II sistema psico-sociologico del padre dello psicodramma è dunque edificato su una stimolante contraddizione: mentre il Moreno psicologo, inventore dello psicodramma, accorda all'individuo il pieno diritto all'espressione e alla concretizzazione della sua soggettività e della sua fantasia, il Moreno sociologo, attraverso la fondazione della sociometria, tenta di definire l'atomo sociale di un soggetto indagando e quantificando le matrici sociali e le relazioni interpersonali che Io costituiscono (6).
Non è questa la sede per riassumere la nascita controversa e lo sviluppo dello psicodramma, che Moreno nel 1926 trasferì nella cultura pragmatista e concreta degli Stati Uniti da cui si sarebbe diffuso in rotto il resto del mondo (compresi l'Unione Sovietica, La Cina e il Giappone). Ai nostri fini basterà ricordare che lo psicodramma è un gioco terapeutico di gruppo (molto raramente a due) dove è consentito, anzi raccomandato, al paziente di esprimersi attraverso la dimensione del passaggio all'atto o acting out (Moreno 1946; 1985, 43-45), dimensione problematica e antitetica a quella dell'astinenza che caratterizza il setting analitico freudiano tradizionale. Diventa così non solo possibile ma indispensabile al setting psicodrammatico agire nello spazio e interagire in gruppo. Nel corso dei gioco il paziente mobilita inoltre la vista, condivide esperienze esistenziali e utilizza spontaneamente e, senza alcuna preoccupazione estetico-formale, il corpo e la materia (Ibidem, 207).
Nei primi decenni del secolo sembrò presuntuoso che il giovane Moreno cercasse di contrapporre il suo psico-dramma alla psico-analisi di Freud, secondo un progetto individuativo di sapore junghiano:
Bene, dottor Freud, io parto da dove lei finisce. Lei incontra le persone nel contesto artificiale dei suo studio [...] Lei analizza i loro sogni, lo cerco di dar loro il coraggio di sognare ancora, Io insegno alla gente a giocare la parte di Dio. (Ibidem, 66).
Tuttavia nel corso di trent'anni l'establishment psichiatrico prima e quello psicoanalitico poi, passarono gradatamente dall'indifferenza al sarcasmo, dal sarcasmo alla critica e infine dalla critica alla riscoperta e al saccheggio del suo metodo. Oggi esistono diverse associazioni di psicodramma analitico che, soprattutto in Francia e in Italia, hanno combinato tecniche basilari come il gioco, la distribuzione e l'inversione dei ruoli, ad un'analisi di gruppo i cui presupposti teorici restano prevalentemente freudiani o kleiniani (Rosati 1979, 588-789).
La tendenza mercuriale dello psicodramma a penetrare in altri metodi e modelli terapeutici (dalla psicoanalisi alla terapia della famiglia, dall'analisi transazionale di Berne alla Gestalt Therapy di Perls) fino a prenderne la forma e a renderla più brillante, è un fenomeno che lo stesso Moreno aveva profetizzato e favorito in tutti i modi. Era, infatti, sua convinzione che la forza dalla sua proposta stesse soprattutto nel potere trasformativo del gioco e dall'incontro di gruppo, più che nel sistema concettuale con cui gli aveva dato il diritto di convivere con i tradizionali metodi dialogici a due.
Il fatto che Moreno si augurasse di passare alla storia non come scienziato, ma per aver introdotto il riso e lo humor in psicologia, conferma che da un punto di vista archetipico nello psicodramma non è certo in gioco l'alternanza tra Apollo e Dioniso come credono gli osservatori più ingenui. È piuttosto la complicità tra il Puer e la Grande Madre che sovraintende alla natura ludica e trasformativa dello psicodramma come pure alla personalità del suo eccentrico inventore. Di questa personalità, in cui preoccupazioni sociologiche e spirituali fanno da àncora a una volatile tendenza alla trasformazione, all'entusiasmo e al movimento, danno testimonianza persino i ritratti fotografici. Le riprese cinematografiche (una delle quali dovuta a Roberto Rossellini) ce lo mostrano a braccia rese e frementi di contenimento: una figura in cui gli abbracci carismatici di papa Giovanni si combinano ai guizzi geniali del principe Antonio de Curtis, agli elisir d'amore sociologico di un Dulcamara generosissimo (7).
Certamente la proposta di una platea-palcoscenico circolare e povera in cui rappresentare pubblicamente il Sé, senza vestiti né testo né scrupoli estetici, arrivò al talento di Moreno attraverso i fermenti culturali di un impero che andava macerando in bollicine di valzer e champagne. Così come Freud trovò in Schnitzler il suo doppio letterario, Moreno trovò in Pirandello il suo doppio drammaturgico, per la comune volontà di rivoluzionare la struttura tradizionale del teatro e la concezione aristotelica della catarsi dello spettatore teatrale, costretto a tacere e a identificarsi nel personaggio (Rosati 1982; 1983; 1987; 1988a). Dal punto di vista biografico, la motivazione individuale a farsi carico di questi fermenti ideologici per portarli nell'ambito della psicoterapia e dar loro una soluzione concreta, venne a Moreno dalla ricerca di uno sguardo strutturante e specularizzante che gli era mancato e che per molti anni gli fu più facile dare che ottenere. In sua madre, infatti, il piccolo Jacob non aveva trovato l'Io ausiliario adeguato ai bisogni di contenimento e rispecchiamento di un bambino.
A riferire la storia della famiglia di Moreno è stata Zerka Toeman, in un monologo psicodrammatico in cui parla come doppio di suo marito (Boria 1983, 274 e sgg.). La storia comincia dal racconto delle origini della madre che aveva diciannove anni quando Jacob venne alla luce:
Mia madre veniva da una ricca famiglia di commercianti di grano. Aveva due fratelli che non si sono mai sposati ed erano entrambi molto più anziani di lei. Quando i genitori morirono, loro - non sapendo cosa fare con mia madre - la spedirono in un collegio di suore cattoliche, dove avrebbe dovuto prendere il velo. Ma ciò per gli ebrei era sconcertante, per cui ad un certo momento la tolsero di lì e le fecero sposare mio padre, coetaneo di mio zio e molto più anziano di lei (lbidem, 274).
Il problema però non era solo quello delle cure materiali: la madre di Moreno, per dirla con Kohut, non era in grado di rispecchiare con empatia la personalità del figlio. Non sapeva contenere le delusioni del bambino né rifletterne gli entusiasmi nello scintillio dei suoi occhi.
Mia madre era una brava donna, ma dagli orizzonti molto limitati [...] Non mi sentivo appartenere al mio retroterra borghese. Non stavo bene da nessuna parte […] Mi sentivo sempre irrequieto, alla ricerca di un altro posto in cui stare meglio [...] Ero la disperazione di mia madre che non sapeva come comportarsi con me. Pensava che fossi un po' pazzo. E probabilmente tale apparivo agli occhi altrui. Ma voIevo dimostrare che uno può essere pazzo e sano allo stesso tempo (lbidem, 275, 276).
Gli andirivieni di questa madre bambina e orfana, sospesa tra religioni e genitori sostitutivi, finirono per avere ripercussione sul piccolo Jacob:
Quando avevo nove mesi fui molto vicino alla morte, a causa di una grave forma di rachitismo. Un giorno mia madre ed io eravamo in giardino, quando si fermò sul cancello una zingara che mi guardò e disse: «Ma questo bambino è molto malato! ». Mia madre non sapeva cosa fare con me. Era cresciuta in un collegio cattolico e non aveva avuto esperienza di una figura materna significativa a cui ispirarsi per far crescere i figli. Piangeva e diceva: «Si, il mio bambino è malato». E la zingara: «Ti aiuterò io a farlo star bene. Procurati della sabbia e poi metti tuo figlio ogni giorno su questa sabbia al sole». E io guarii dal rachitismo (lbidem, 274).
A dimostrazione del fatto che si può essere sani e pazzi allo stesso tempo, il setting dello psicodramma viene dunque architettato in modo tale che il regista possa giocare col paziente e seguire i suoi fantasmi sotto lo sguardo del pubblico. Il rischio di precipitare in una situazione duale senza via d'uscita è notevolmente ridotto dal fatto che il gioco avviene alla luce del sole, davanti a testimoni, come a teatro: del resto si tratta di recitare, di far finta.
Scendendo dal lettino per salire su un palcoscenico, la relazione paziente terapeuta viene compresa dalla relazione di gruppo in cui, per dirla con Whitmont, «I punti di vista di una terza, quarta e quinta persona possono fornire davvero nuovi angoli visuali che in un rapporto analitico spesso aiutano a risolvere una folie a deux (1964; 1975, 87). Il protagonista si giova di un doppio sostegno: quello del regista e quello della platea. Che lo si ammetta o no, la platea giova anche al regista: può anche darsi che la formula risolutiva per il paziente venga suggerita al terapeuta dall'osservazione di una zingara di passaggio.
Sorprende che il contatto caloroso e cedevole della sabbia al sole che salvò la vita al futuro inventore dello psicodramma sia anche l'elemento base della sand box di Dora Kalff. Si direbbe che la sabbia, terra leggera capace di accogliere la forma e impressionarla al suo interno, sia quanto di più simile alla rêverie materna possa essere offerto dalla materia.
Uno spazio transizionale antico come il mondo.
Naturalmente il fronte più ostile a Moreno fu, almeno fino agli anni cinquanta, quello della psicoanalisi freudiana (8). L'esperienza problematica ed eroica di Sandor Ferenczi e della sua analisi attiva mostra infatti la resistenza dell'analisi dialogica a mettere in discussione l'egemonia della verbalizzazione e dell'interpretazione analitica che Freud pose alla base della sua teoria (Rosati 1989). Al contrario, lo psicodramma è una psicoterapia di gruppo, in cui i partecipanti non si limitano a parlare stando seduti sulla loro sedia ma recitano a soggetto come attori le proprie storie, reali o immaginarie (Moreno 1946; 1985, 247). «A noi [afferma Moreno] può andare il merito di aver messo sul palcoscenico la psiche messa. La psiche, che in origine veniva dal gruppo, dopo un processo di riconversione sul palcoscenico impersonato da un attore ritorna al gruppo nella forma dello psicodramma» (1972; 1985, 33).
La rivoluzione psichiatrica di Moreno si riprometteva di far scendere i pazienti dal lettino di Freud per farli salire su un palcoscenico come autori e attori (Moreno 1946, 1985, 54; 1964, 1985, 34, 54). A differenza di quello tradizionale, il palcoscenico dello psicodramma non ospita sulle sue tavole un'opera d'arte e nemmeno una produzione finalizzata al divertimento: ospita un gioco teso a consentire al paziente di esternare le specifiche esperienze di cui è sempre stato privato e di cui ha bisogno: un gioco che va pensato tenendo in mente le parole di Donald Winnicott per il quale il bambino o l'adulto è libero di essere creativo «mentre gioca, e forse soltanto mentre gioca» (1971; 1974, 101).
Questo tipo di gioco, apparentemente teso alla spontaneità, non è facile per il paziente ma ancor meno lo è per il terapeuta. Il suo scopo non è la sistematica interpretazione da parte del terapeuta né la ricerca immediata di un senso, ma il gioco stesso: se lo psicodrammatista, realizzando questo teatro, riesce a contenere il gioco, cioè a comprenderlo senza spiegarlo, sarà ripagato dall'insight del paziente che fornirà egli stesso le interpretazioni.
Come la parola “azione” anche la parola “interpretazione” ha due sensi: uno teatrale e uno analitico. L'interpretazione in psicodramma dovrebbe avvenire nel primo piuttosto che nel secondo: il sognatore è invitato a recitare il suo sogno come se fosse una commedia ma anche a ristrutturarlo dandogli il finale e l'esito simbolico da lui immaginari. Da parte sua il terapeuta non assume l'atteggiamento del critico che decifra le immagini e ne spiega il significato, come in psicoanalisi: egli è piuttosto un regista terapeutico che orchestra la dinamica di gruppo e aiuta il paziente-autore a esprimersi nel gioco, accompagnandolo senza sostituirsi a lui, senza decidere mai al suo posto i passi, le tappe e il traguardo di questo viaggio. La spiegazione riduttiva, secondo la quale la nascita dello psicodramma rimanderebbe a esperienze critiche nell'area del rapporto primario verificatesi nell’infanzia di Jacob Levi Moreno, non ci impedisce di constatare che la formula base dello psicodramma è rinvenibile in molti spazi e tempi della storia della cultura. Essa sembra rimandare a una specifica variabile archetipica della terapia, fondata sulla creazione di uno spazio transizionale che consenta all'uomo la mediazione tra realtà e mondo interno. In questo senso lo psicodramma è sempre esistito, come ogni realtà teatrale creata allo scopo di affrontare la malattia e la sofferenza. Sono possibili, ad esempio, paralleli tra lo psicodramma ed «espressioni rituali d'Oriente come il teatro di Bali che per la sua valenza ipnotica attirò l'attenzione di Antonin Artaud» (Rosati 1988b, 119).
Esula dai nostri fini un discorso storico sulle tecniche di drammatizzazione rinvenibili nell'arco di secoli in civiltà e culture tra loro molto distanti a partire dalle tecniche di incubazione dei sogni praticate nei templi dedicati a Esculapio nell'antica Grecia, tecniche che per la loro particolarità risultano affini a quelle psicodrammatiche (vedi Meier 1949; 1987). Un esempio più recente ci è fornito, invece, da alcune forme embrionali di psicodramma sviluppatesi nell'Ottocento in Francia ma anche in altri stati europei e in Italia nelle “Case de' Matti” di Aversa (Catapano, 1987). In quei luoghi alcuni psichiatri pensarono di poter curare l'immaginazione del malato (Hulshorff, in Foucault 1972; 1988, 367) attraverso la realizzazione teatrale. Secondo l'opinione di Hulshorff, uno di tali eminenti psichiatri, è in pratica indifferente che tale immaginazione venga guarita con la paura, per mezzo di un'impressione viva e dolorosa sui sensi, oppure mediante un'illusione (Ibidem). Questo perché, come osserva Foucault,
L'allestimento scenico realizza l'oggetto delirante, ma non può far ciò senza esteriorizzarlo; e se dà al malato una conferma percettiva della sua illusione, lo fa liberandolo bruscamente. La ricostruzione artificiale del delirio costituisce la distanza reale nella quale il malato riacquista la sua libertà (1972; 1988, 369).
Il contributo teorico più significativo dato da questi autori allo sviluppo della psicologia sembra quindi essere quello di aver attribuito valore al «potere torbido dell'immaginazione» (Ibidem, 367). La riflessione sullo stretto legame che intercorre tra immaginazione e drammatizzazione spontanea evidenzia quelle analogie tra il pensiero di Jung e quello di Moreno che ci autorizzano a parlare di uno psicodramma junghiano.
Un sogno dormito in piedi.
Partendo da quanto Jung scrive a proposito del sogno: «la creazione onirica è sostanzialmente soggettiva, e il sogno è un teatro in cui chi sogna è scena, attore, suggeritore, regista, autore, pubblico e critico insieme» (1916/48; 1976, 285), potremmo considerare lo psicodramma come una dimensione espressiva tra il sogno e il teatro, o «un sogno dormito in piedi», per utilizzare la formula con cui Jean Cocteau definiva il cinema. Questo «sogno dormito in piedi» può aiutare lo psicologo analista a stabilire col sogno un tipo di trazione diversa, ma non necessariamente opposta a quella tradizionale basata sull'analisi verbale del suo significato.
Sui limiti dell'interpretazione tradizionale si è pronunciato anche James Hillman senza mediare né relativizzare la portata polemica della sua idea.
Un sogno è, alla stessa stregua di un mistero, efficace finché rimane vivo. I culti terapeutici di Esculapio si basavano sul fatto di sognare, non sull'interpretazione del sogno. Questo implica, a mio avviso, che i sogni possono essere uccisi da coloro che li interpretano (1979; 1984, 117).
Per dare forza polemica alla sua presa di posizione, Hillman è arrivato a sostenere che il metodo classico di interpretazione dei sogni sia da ritenersi «radicalmente sbagliato» (Ibidem, 9).
Perché l'immagine del sogno possa agire nella vita, allo stesso modo di un mistero, deve essere sperimentata come pienamente reale. L'interpretazione nasce quando abbiamo perso contatto con le immagini, quando la loro realtà è a tal punto secondaria da dover essere recuperata tramite traduzioni concettuali. Cerchiamo allora di rimpiazzare la sua intelligenza con la nostra, invece di parlare alla sua intelligenza con la nostra (Ibidem, 117).
Hillman dunque insiste su uno dei due poli della sintesi operata da Jung nell'immaginazione attiva, ma non chiarisce come andrebbe realizzata in concreto, sul piano della tecnica e della terapia, questa sua battaglia per un'esperienza dell'inconscio radicalmente immaginale.
Di fronte al duplice rischio (tradire la vitalità simbolica delle immagini a favore di una teorizzazione fine a se stessa, o escludere la presa di coscienza dal campo della riflessione psicologica) è possibile cercare nello psicodramma una terza via. Il passaggio dalla parola al gioco, dalla narrazione verbale alla rappresentazione diretta, può permettere una combinazione dialettica dei due approcci: quello analitico tradizionale, basato sul primato dell'Io e sulla sua capacità di giudizio razionale, e quello attivo, che enfatizza l'esperienza piena e diretta delle immagini e delle emozioni invocata da Hillman. In questo senso lo psicodramma può configurarsi come un tipo di immaginazione attiva che, accordando al lavoro sulle immagini importanza e coerenza, combina due elementi opposti. Da una parte, il fatto di passare dalla diegesis ai codici analogici della mimesis (nel senso dato da Platone al termine) gli permette di mantenere una relazione assai stretta col linguaggio rappresentativo del sogno. Dall'altra parte, il fatto che questa rêverie terapeutica si svolga all'interno di un gruppo di partecipanti (che dopo aver accompagnato il gioco aiutano anche ad esplicitarne il senso) consente al «sognatore» di oggettivare la «creazione onirica soggettiva» di cui parla Jung. Il gioco in gruppo salva l'immagine e allo stesso tempo permette di estrovertirla e condividerla, esprimendo, uno dopo l'altro, tutti i ruoli e le funzioni descritte da Jung in merito al sognatore.
Beacon House e Sand Box
Sarebbe contraddittorio limitarsi a parlare teoricamente di una tecnica che opera uno sfondamento del linguaggio analitico sul campo dell'immagine. Invito dunque ai lettori, che non hanno fatto esperienza concreta di lavoro psicodrammatico, a osservare la pianta del piccolo teatro di psicodramma che Moreno costruì all'istituto di Beacon nello stato di New York.
Si tratta di un semplice spazio a pianta centrale, con una balconata e due piccole cabine, una per le luci, l'altra per la registrazione. In questo spazio, rettangolare come la cassetta azzurra della Sand-Box di Dora Kalff, il superamento della barra tra conscio e inconscio, tra significante e referente, corrisponde all'abolizione del sipario tra platea e palcoscenico. Per chi assiste allo psicodramma del protagonista di turno sono previste delle sedie mobili che consentono al gruppo di spettatori sia di osservare la scena che di guardarsi tra di loro.
In questa Sand-Box totale, fatta di legno anziché di zinco, il numero di figure che il paziente può comporre in scena non è limitato ai tesori messi a disposizione nella stanza della terapia dall'analista: ogni partecipante nel momento in cui assume un ruolo da corpo a un'immagine e diventa, per convenzione, un personaggio. Lo scaffale col repertorio di immagini è costituito dal gruppo. I giocatori sono anche giocattoli. Naturalmente l'analogia è parziale.
Lo spazio di Beacon House è l'allegoria di un nuovo modo di concepire il teatro eil suo rapporto con la vita del pubblico: la tradizionale spaccatura tra platea e palcoscenico (attori e spettatori) e quelle secondarie, sia in palcoscenico (tra autore, regista e attori) che in platea (tra spettatori passivi e spettatori con diritto di replica: i recensori) è finalmente superata a favore di un'esperienza teatrale e psichica totale. Che si abbia a disposizione un teatro di psicodramma simile a quello di Beacon o qualsiasi altro spazio, chi partecipa alla sessione vive tutti i ruoli di chi concorre all'evento teatrale. Ciascun membro del gruppo è di volta in volta: spettatore (in quanto paga ii biglietto e assiste ai giochi dei compagni di gruppo); critico recensore (allorché valuta il gioco esprimendo il suo punto di vista); autore (quando racconta la propria storia e sviluppa h sua azione); attore (nel momento in cui interpreta i vari personaggi); regista (giacché mette in scena il racconto distribuendo i ruoli ai vari attori e strutturando le immagini del proprio gioco). Un discorso a parte (e da fare in altra sede) riguarda poi i ruoli gestiti dallo psicodrammatista che, oltre a quelli appena elencati, gioca anche il ruolo di produttore della messa in scena.
Vorrei a questo punto, proporre al lettore un gioco. Riporterò una citazione senza farla seguire dal nome dell'autore per invitare il lettore a verificare, nella nota relativa, a chi appartenga: se a Jung, che parla dell'immaginazione attiva, o a Moreno, che parla di psicodramma:
per l'osservatore l'azione che viene rappresentata sul palcoscenico rimane sempre un fenomeno lontano che non Io tocca realmente; e quanto meno egli viene coinvolto, tanto più limitato sala anche l'effetto catartico di questo teatrino privato. L'opera che si recita non richiede soltanto di essere osservata in maniera distaccata, ma vuol anche convincere lo spettatore a prendervi parte. Se colui che osserva riesce a capire che, su questa scena interiore, viene rappresentato il suo dramma personale, allora le peripezie e lo svolgimento finale non potranno più lasciarlo indifferente [...] Si sentirà perciò spinto, o verrà incoraggiato dal suo medico, a intervenire anche lui nella recita e trasformare quella che in un primo tempo era una semplice rappresentazione teatrale, in un reale confronto con l'Altro presente in lui (9).
Un'esperienza dolorosa e umiliante.
Per l'attore psicodrammatico la scena da rappresentare non è cristallizzata in un libro, come per l'attore professionista. Lo scambio di battute tra il Capocomico e il Padre nei Sei personaggi in cerca d'autore di Luigi Pirandello (Dov'è il copione? - È in noi, Signore) esemplifica magistralmente la situazione: in psicodramma l'attore non ha bisogno di un testo perché egli stesso è il testo. Per dare vita alla scena gli basterà rivolgersi all'inconscio con spontaneità e senza censure intellettuali.
Il processo di attivazione delle immagini può attivarsi spontaneamente o essere provocato in maniera artificiale. Un sogno o un'immagine della fantasia, ma anche un'alterazione dell'umore, possono costituire il pretesto iniziale (Jung 1955/56; 1989/90, 495). Focalizzando la propria attenzione sull'immagine emersa, si sviluppa, secondo Jung, una serie di fantasie che «a poco a poco assumono carattere drammatico: il semplice processo passivo si tramuta in azione» (Ibidem, 495-496). L'immagine sulla quale ci si concentra prende vita, inizia a muoversi perché «il semplice fatto di averla presa in considerazione è sufficiente ad animarla» (Ibidem, 495). Essa si arricchisce di particolari, si sviluppa in una trama (Jung 1935; 1991, 176), una trama che il soggetto osserva e alla quale prende parte come se fosse una scena recitata su un palcoscenico. Il paziente, in definitiva, «sogna a occhi aperti» (Jung 1955/56; 1989/90, 496).
Jung ci ha fornito pochi esempi clinici di immaginazione attiva. Quelli più significativi sono legati direttamente alla scoperta del metodo e all'incidenza che tale stato di relazione con le immagini interne ebbe nella sua vita. Egli descrive cosi, in Ricordi, sogni, riflessioni, questo «drammatico» confronto con l'inconscio.
Fu un momento decisivo nel mio destino, ma cedetti, rassegnato, solo dopo infiniti contrasti: era un'esperienza dolorosa e umiliante sentirsi costretto a mettersi a giocare come un bambino! » (1961; 1984, 216).
Come sappiamo, il disorientamento esistenziale di quegli anni si risolse solo quando i risultati delle sue esperienze di immaginazione attiva incisero effettivamente nella sua vita esterna, anziché restare confinate in se stesse. Come egli stesso afferma,
Sempre, quando, trovandomi in un vicolo cieco, mi mettevo a dipingere o a scolpire una pietra, era una specie di rite d'entrée per i pensieri e i lavori che seguivano. (lbidem, 217).
«Rito d'ingresso», quindi, e «gioco», sono i termini che Jung usa per descrivere un'esperienza sconvolgente che lega tra loro materia, corpo ed emozione. Che questi tre elementi costituiscano un aspetto imprescindibile del processo è confermato da autori come Whitmont e Marie Louise von Franz:
Un movimento di danza iniziato sia dal terapista che da un membro del gruppo spesso infrange rigidità e resistenze (Whitmont 1975, 87).
Spesso è di giovamento anche il compiere un piccolo rituale come accendere una candela, camminare in un cerchio, etc., perch6 in questo modo entra in gioco la materia. Jung una volta mi disse che questo procedimento era più efficace dell'immaginazione attiva usuale ma che non poteva spiegarne le ragioni. A mio avviso, ciò può fornire anche delle risposte a un problema che oggigiorno a volte si presenta, il problema del coinvolgimento del corpo (Franz, von 1978, 77).
I fenomeni sono gli stessi che possono essere osservati nello psicodramma moreniano in cui, proprio dando corpo e sostanza a un'immagine o uno stato d'animo, si dà vita ad un fenomeno potenzialmente creativo e catartico. «Il metodo di attivazione delle immagini è soltanto un punto di appoggio [...] nel processo di apprendimento a essere spontanei» (Moreno 1946; 1985» 368).
È significativo che in riferimento all'immaginazione attiva Jung abbia spesso rivolto la propria attenzione ai fenomeni emotivi e affettivi. Nel saggio del 1916 La funzione trascendente, pur non avendo ancora introdotto il termine immaginazione attiva, egli afferma:
per impadronirsi dell'energia dislocata nel posto sbagliato si prende la condizione affettiva come base o punto di partenza del procedimento. Ci si chiarisce quanto più possibile lo stato d'animo sprofondandovisi senza riserve e fissando per iscritto tutte le fantasie e le varie associazioni che affiorano. Bisogna lasciare alla fantasia tutto il campo libero possibile, senza tuttavia permetterle di abbandonare h cerchia del suo oggetto, cioè dell'affetto, mentre essa continua progressivamente ad associare saltando, per cosi dire, di palo in frasca [...] Il procedimento rappresenta una sorta di arricchimento e di chiarimento dell'affetto, e in tal modo l'affetto con i suoi contenuti si avvicina alla coscienza (1957/58; 1976, 97).
Per Jung e Moreno la possibilità di trasferire su un piano di realtà ciò che si manifesta nel confronto con il mondo interno è una necessità prioritaria.
L'accesso alle immagini implica un addestramento a escludere l'attenzione critica, producendo tosi un vuoto della coscienza che favorisce l'emergere delle fantasie latenti (Jung 1957/58; 1976, 93).
È questa l'esperienza «dolorosa e umiliante» vissuta da Jung. Quel primo momento che egli definì «drammatico», e che per Moreno sarebbe stato semplicemente «psicodrammatico».
Un bacio tra rettitudine e felicità.
Esiste un altro punto in comune tra Jung e Moreno: il processo di attivazione delle immagini può essere aiutato dalla concretizzazione materiale ma questa non deve cristallizzarsi. L'estetizzazione la priverebbe di tutta la sua vitalità. L'insistenza di Moreno su di un processo psicologico che esista allo statu nascendi, senza sclerotizzarsi in una «conserva culturale», ricorda la raccomandazione di Jung di non perdere di vista le finalità dell'immaginazione attiva cadendo in un processo di estetizzazione dell'immagine.
Il pericolo insito nella tendenza estetica è la sopravvalutazione dell'aspetto formale, del valore «artistico», delle raffigurazioni emerse, il che devia la libido dalla finalità propria della funzione trascendente indirizzandola verso i problemi di natura puramente estetico-artistica della raffigurazione (Jung 1957/58; 1976, 100).
La creatività, per quanto spontanea possa essere in se stessa, cessa di esserlo per forza di cose una volta entrata in uno stato di conservazione e perde allora di vitalità. Due sono i tipi di creatività, quella che sgorga e fluisce liberamente e quella conserrata. Quest'ultima, che appare nel mondo sotto forma di conservazione culturale, contiene si della creatività, ma in uno stato di sonno raggelato (Moreno 1947; 1973, 10).
La tensione ricorda quella del conflitto pirandelliano tra «vita» e «forma»: un conflitto che Pirandello capi perfettamente ma che, dal nostro punto di vista psicologico, risolse solo sul piano della «forma» e a scapito della «vita» (10). Questa tensione fa pensare che tra il mercurio volatile della fantasia fine a se stessa e il piombo immobile dell'opera finita, esista una terza dimensione archetipica il cui prodotto giova all'esistenza dall'autore più di quanto il lavoro dell'autore giovi all'esistenza del prodotto. In questo senso il passaggio dall'immaginazione attiva allo psicodramma avviene con l'ingresso della materia, che trasforma il teatro alchemico della mente in un teatro reale ma atipico dove l'attore non può mai replicare la sua commedia. È Jung stesso ad avvalersi, senza darne una spiegazione, di una dimensione concretamente psicodrammatica nel momento in cui riferisce di compiere dei rituali per aver libero accesso alla fantasia o quando prescrive la necessità di dare forma col disegno, la scultura e perfino la danza alle immagini in quel modo evocate. L'attivazione psicodrammatica dell'immagine prevede infatti il lavoro della sensazione - di quella funzione cioè che più di ogni altra è in relazione con l'elemento materiale - e la possibilità di comunicare attraverso referenti concreti e permanenti. Una volta concretizzata e messa in scena la figura al centro del gioco, è inevitabile seguire la raccomandazione di Jung di mantenere fissa l'attenzione evitando giochi dispersivi di fantasia. Il paziente infatti non deve liquidare o sostituire l'immagine con un'altra immagine fino a quando il confronto con essa non sia stato effettivamente elaborato. È come se la tensione tra immagine e materia, operante con e contro l'attivazione, costringesse il soggetto a quel processo di concentrazione che Jung non si stanca di raccomandare.
Molto spesso gli stessi pazienti avvertono che un certo materiale tende ad assumere una forma visibile, e dicono, per esempio: «Quel sogno mi ha tanto colpito che, se solo sapessi dipingere, tenterei di esprimerne l'atmosfera. » Oppure sentono che una certa idea non dovrebbe essere espressa razionalmente, ma con simboli. Oppure sono afferrati da un'emozione che, se potesse prendere forma, diventerebbe comprensibile e così via. Ed ecco che cominciano a disegnare, a dipingere, o a modellare le loro immagini. Talvolta le donne ricorrono alla tessitura. Ho persino avuto una o due pazienti che danzavano le loro figure inconsce. Naturalmente è possibile esprimerlo anche attraverso la scrittura (Jung 1935; 1991, 177-178).
Se, come fa notare la von Franz, per Jung «il lavoro alchemico non è altro che un'immaginazione attiva realizzata mescolando, riscaldando, fondendo, etc., delle sostanze materiali» (1978, 77), il parallelismo tra la cucina degli alchimisti e il nostro teatrino di psicologi risulta particolarmente significativo. Forse lo psicodramma costituisce una trasposizione ludica e pubblica dei metodi alchemici, metodi che rappresentavano delle vere e proprie forme di immaginazione attiva (Jung 1955/56; 1989/90, 525-526). Ovviamente il parallelismo si limita all'uso che gli alchimisti fecero della materia, utilizzo che chiama in causa, in primo luogo, il corpo e le sue esigenze. La von Franz ipotizza che l'efficacia di rituali che mettano in gioco la materia possa fornire delle risposte al problema del coinvolgimento del corpo. E insiste sulla relazione che intercorre tra materia e corpo, partendo da una riflessione sulla tipologia degli alchimisti orientali e di quelli occidentali.
Gli alchimisti orientali, soprattutto i taoisti, di solito cercarono di influenzare la materia del loro corpo ma anche quella delle sostanze presenti nel loro recipiente.Gli alchimisti occidentali usavano soprattutto la materia fuori del loro corpo, affermando che «la nostra anima immagina grandi cose fuori del corpo (extra corpus)». Paracelso e il suo allievo Doro, tuttavia, cercarono anche di sperimentare il «firmamento interno» dentro i loro corpi ele attività magiche esterne ebbero con essi un rapporto sincronico: la materia del corpo corrispondeva per analogia agli eventi esterni (1978, 77).
A sua volta, Silvia Di Lorenzo nel 1970 (364-384) in un saggio sull'immaginazione attiva pone il problema della sua scarsa diffusione e della sua applicabilità ai pazienti italiani. Secondo la Di Lorenzo le fantasie degli italiani avrebbero in qualche modo una propensione, culturalmente determinata, per immagini «più corpose, plastiche e concrete» (Ibidem, 372) rispetto alla «figure liberamente immaginose e a volte smisurate, che sono tipiche in civiltà meno in diretto rapporto con la realtà esterna, come quelle nordiche» (Ibidem, 373). Negli esempi letterari portati dalla Di Lorenzo (Il dialogo tra un vivo e un morto di Jacopone da Todi, l'episodio di frate Masseo tratto dai Fioretti di San Francesco e la poesia di Pascoli Paolo Uccello) è particolarmente evidente il ruolo giocato dalla bellezza e dalla dimensione solare plastica ed estetica. È evidente una tensione a quell'anima mundi della natura e della bellezza sulla quale ha recentemente richiamato l'attenzione Hillman (1989).
La presenza materiale di oggetti per giocare con l'immagine dentro di noi e il coinvolgimento attivo del corpo danno luogo, con una frequenza che non ha termini di paragone nell'analisi classica, a fenomeni di intenso coinvolgimento emotivo. Lo confermano, tra gli altri, Whitmont e von Franz:
Il materiale viene in tal modo condensato nel suo nucleo simbolico: è diventato non-distruttivo e accettabile, ma conserva la sua autenticità dinamica e affettiva. Il contenuto libidinale è così disponibile per l'integrazione. La trasformazione nell'atto di mangiare il dio durante il rituale della messa è un esempio collettivo di questo processo. Le possibilità inerenti all'uso conscio di questa modalità, sia nei confronti della psicoterapia, sia in quanto fattori culturali, sono, a mio avviso, ancora imprevedibili (Whitmont 1975, 84).
Dobbiamo perciò chiederci in che modo l'evento sincronico sia legato alla coniunctio. Credo che sia abbastanza esatto dire che, nel momento in cui si produce un evento sincronico, la psiche si comporta come se fosse materia e la materia si comporta come se appartenesse a una psiche individuale. Vi è perciò una specie di coniunctio di materia e psiche e nel contempo uno scambio di attributi che avviene sempre nello hieros gamos. Perciò è vero che un evento sincronico è un atto di creazione e un'unione di due principi normalmente separati. L'atteggiamento in cui è possibile accedere a questa esperienza secondo i cinesi (avete sentito le parole di Mo Dsi), è un atteggiamento di sincerità totale che, e questo è interessante, per i cinesi coincide con un atteggiamento giocoso (Von Franz 1978, 153).
Sincerità, materia e gioco sono appunto gli elementi che entrano faticosamente in campo, tra timori, sospetti di eresia e diffidenza, nel gruppo di commensali descritto da Karen Blixen nel Pranzo di Babette, un racconto tradotto in film da Gabriel Axel. Il brindisi iniziale di un vecchio generale: «Misericordia e verità si sono incontrate, amici miei... Rettitudine e felicità debbono baciarsi», si realizza durante il pranzo. Lentamente la generosità e l'arte di Babette, cuoca in esilio, regalano a un gruppo di commensali, invecchiati tra rancori e preghiere ormai prive di senso, un incontro sorprendente e caloroso. Le carni, i vini, le frutta, i cristalli e i fuochi del pranzo in onore del Maestro Spirituale scomparso (una sorte di psicodramma alchemico scritto, diretto e prodotto da Babette) consentono ai fedeli del decano l’integrazione della sensazione estroversa, la funzione che nell’inconscio gruppale degli isolani è la funzione inferiore. E parallelamente l’integrazione del sentimento introverso da parte del generale che aveva già conosciuto come cliente la cucina di Babette a Parigi. L'effetto è celebrato dal brindisi finale del generale.
Ciò che abbiamo scelto ci è dato, e pure, allo stesso tempo ci è accordato ciò che abbiamo rifiutato. Anzi, ciò che abbiamo respinto è versato su noi con abbondanza. Perché la misericordia e la verità si sono incontrate, la rettitudine e la felicità si sono baciate.
Così le parole della Blixen brindano, meglio di qualunque esempio clinico, alla possibilità che qualche analista cerchi di risanare in un suo Teatro di Psicodramma la spaccatura contemporanea tra consumismo e pensiero, spettacolo e riflessione, concretezza e intimismo, medicina e benessere creando uno spazio giocoso e a misura d'uomo per il potere della materia e le virtù della psiche.
NOTE
1. Desidero ringraziare Stefania Tucci che si è rivelata un prezioso «ego ausiliario» per la gestione bibliografica di questo articolo.
2. Per l’evoluzione del pensiero di Moreno cfr. Moreno (1946; 1947 e 1964). Per una sintetica presentazione dello psicodramma articolata dal punto di vista storico, metodologico, antropologico, clinico e culturale cfr. Rosati (1988b). Tra i testi introduttivi vedi pure: Yablonsky (1975), Leutz (1985).
3. Il primo Congresso Internazionale di Psicodramma ebbe luogo alla facoltà di medicina dell’università di Parigi nel 1964. Vi presero parte più di mille partecipanti di trentacinque paesi, cfr. Schutzenberger (1970).
4. Per lo psicodramma di orientamento junghiano nato in Italia negli anni ottanta, cfr. Durelli (1987); Gasseau e Gasca (1991); Papa (1983 e 1987); Rosati (1982; 1983; 1984; 1985; 1986; 1988 e 1988°). Tra gli interventi occasionali da parte di analisti junghiani che non operano nel settore vedi: Trevi (1983), Carotenuto (1983).
5. Per un approfondimento sulle origini della tecnica psicodrammatica vedi: Moreno (1946, 1985, 59-92; 1969, 1987, 44-50).
6. La teoria dei ruoli di Moreno e il suo rapporto con la sociometria dei gruppi e la loro sociopatologia sono elaborati in Moreno (1953). In Who Shall Survive? Moreno delinea anche il suo modello di comunità e descrive i famosi test sociometrici che consentono una rilevazione empirica dei fenomeni di attrazione e coesione interpersonale nei gruppi piccoli e medi.
7. Con i primi esperimenti realizzati in America nel 1933. Moreno è stato un precursore dell’utilizzazione di quella ripresa cinematografica e televisiva in psicoterapia, e più in generale in psicologia, che oggi trova una vasta applicazione soprattutto nella psicoterapia della famiglia e nella formazione professionale dei terapeuti. Un capitolo sul cinema terapeutico, quale naturale estensione del teatro terapeutico, è contenuto in Moreno 1946, mentre la storia dei rapporti tra psicodramma e televisione è fatta da Zerka Moreno, a partire dagli esperimenti con impianti televisivi a circuito chiuso utilizzati in cliniche, in Moreno J.L. (1980; 1987, 184-287). Una prima filmografiadi documentari sullo psicodramma (tra cui quello della Radio-Télévision Française realizzato nel 1956 da Roberto Rossellini) o argomenti affini è contenuta in Schutzenberger (1970; 1972, 289-290). Nell'ambito dello psicodramma junghiano vorrei infatti menzionare i documenti scientifici ricavati dalla terza rete Rai dal workshop «Giocare il sogno Filmare il Gioco» tenuto al Teatro Stabile di Torino nel 1990 (Rosati 1989; 1990; 1990a; 1990b; 1990c e 1990d) e il primo programma televisivo basato sullo psicodramma «Da Storia Nasce Storia» (da me ideato e diretto) e prodotto da Rai Tre a partire dal 1991 con la collaborazione del Teatro Stabile di Torino e della facoltà di Psicologia dell’Università di Roma.
8. La storia dei rapporti tra psicodramma e analisi freudiana, da cui ebbe origine nel dopoguerra in Francia lo psicodramma analitico, è stata fatta da Anne-Ancelin Schutzenberger nella sua esauriente postfazione a Leutz (1987). Un testo fondamentale per la comprensione dello psicodramma analitico è Anzieu (1978). Sui rapporti tra psicodramma e analisi vedi pure Lemoine (1972), Musatti (1982; 1983 e 1988) e Widlocher (1970).
9. La citazione e tratta da (Jung 1955/56, 1989/90, 496).
10. Il rapporto tra le vicende della famiglia Pirandello e la fantasmatica dei Sei personaggi in cerca d'autore (concepita in autentico stato di trance) è di notevole interesse per la comprensione delle sue opere. In particolare la trilogia del teatro nel teatro ed Enrico IV costituiscono degli autentici simulacri letterari di psicodramma. È anche provato che Pirandello operò segrete ma precise citazioni del lavoro di Jacob Levi Moreno (da lui osservato a Vienna) nell’ultima commedia della trilogia, Ciascuno a suo modo (1924), arrivando al punto di dare alla protagonista il nome dell’inventore dello psicodramma, «La Moreno (che tutti sanno chi è)», e al suo doppio un nome che anagramma Moreno e Pirandeilo in «Morello». Cfr. Rosati (1982; 1983; 1987 e 1988a).