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INTERVISTA DI OTTAVIO ROSATI A LEWIS YABLONSKY

 

3 AGOSTO 1984 in occasione del seminario di psicodramma tenuto alla
Scuola di Formazione del CeIS “Casa del Sole” - Castel Gandolfo

 

 

O.R. Cominciamo dai ricordi, Lewis. Come hai incontrato per la prima volta Moreno?

Y: Bene. L’ho incontrato la prima volta nel 1949 come studente laureato alla NYU dove lui insegnava. Lui venne e posso dire di essermi innamorato immediatamente dell’uomo in virtù della sua teoria e dei fenomeni dello psicodramma e la cosa che ricordo di più di lui è che immediatamente cominciai a rispondere alle sue idee circa il gruppo e il destino dello psicodramma e il fatto che le persone hanno problemi nel gruppo e nelle famiglie. Perché è molto importante occuparsi di tutte le dinamiche sociali di una persona e questo mi conquistò totalmente. Mi ricordo di una volta che mi invitò ad accompagnarlo ad una conferenza che stava dando sul suo approccio alla psicoterapia e allo psicodramma e le sue idee sulla sociometria davanti a un gruppo di psicoanalisti che cominciarono a criticarlo e quasi a offenderlo e a trattarlo come se fosse mezzo matto.  E tutto quello che stava dicendo erano cose che oggi nel 1984 tutti conoscono e condividono e cioè che quando si fa psicoterapia con un individuo o un gruppo occorre occuparsi della sua famiglia e dei suoi contatti sociali. E io ricordo che quando tornammo al suo istituto di New York io gli dissi che i matti erano quegli psicoanalisti. “Come fai a sopportare quelli che ti prendono per matto?” E Moreno rispose: “Può darsi che io sia matto ma quante più persone credono nella mia pazzia tanto meno sono pazzo”. Eravamo nel 1951 e lo stesso gli era già accaduto trent’anni prima a Vienna.

 

O.R: Nel film della RTF diretto da Jean Luc Leridon alla Sorbonne, Moreno conduce lo psicodramma in modo un po' istrionico come un grande attore o uno showman. Era sempre così o no?

Y: Bene. Lo psicodramma ha sempre qualcosa di caloroso e quindi spesso in psicodramma esageriamo le cose per farle vedere più chiare. Noi esageriamo certi aspetti della vita. Ma Moreno letteralmente esplodeva quando si accendevano le telecamere. Alzava il tono di molti volumi. Senza una camera davanti a lui, era più centrato di quando agiva su un set.

O.R. Come ogni grande attore! E' una sindrome ma si può anche dire che è un archetipo. Gli psicoanaisti freudiani ortodossi diranno che si tratta di narcisismo ma personalmente penso il contrario. I narcisisti sono loro perché Narciso si ammira da solo, a porte chiuse, mentre il performer ammette l'enorme importanza del pubblico, lo cerca, si espone agli sguardi e rischia alla luce del sole. 

Y. Giusto. Perciò, quando noi vediamo Moreno nei suoi film dovremmo ammettere che alcuni suoi movimenti sono un po’ esagerati. Tuttavia ebbe sempre una propensione teatrale. Del resto mi ricordo di questa conferenza qui a Roma sull’abuso di droga: i ragazzi che parlavano della loro tossicodipendenza gesticolavano con le braccia e io ho detto: “Non ho bisogno di assumere droghe perché ho tutte le droghe dell’universo nel mio corpo e tutto quello che devo fare per eccitarmi è accendermi”. Come Moreno che era sempre eccitato per natura.

O.R.: Zerka Moreno mi ha raccontato che quando entravano insieme in un ristorante si giravano tutti a guardarlo.

Y: Oh certo! Anche quando entrava in un ristorante trasformava la situazione in uno psicodramma e piaceva subito alle persone sedute agli altri tavoli. Insomma, era carismatico. Sopra le righe. A proposito, ieri sera la tua amica... Pivano quando parlavamo della "Action hunger" di Moreno, ha detto fatti raccontare da Ottavio la storia di quando da ragazzo si presentò a una cena elegante coi vestiti a pezzi. Cioè? Che storia è?

O.R.: Niente, niente... In quel periodo, per pagare il tipografo della nostra rivista, recuperavo i crediti dei suoi clienti. E una volta era stata particolarmente dura. Avevo le scarpe sporche di fango e mi ero graffiato salendo sul cancello per sfuggire ai cani ma ero in giacca e cravatta perché subito dopo Fernanda mi portava a cena a casa di Indro Montanelli dove avrei scoperto che sua moglie Colette Rosselli era "Donna Letizia", la maestra di Bon Ton degli anni Cinquanta. Quando mi presentai, Montanelli disse: "Ha mai pensato a fare l'inviato di guerra?" (Yablonsky ride) E secondo te avere una presenza, una personalità carismatica è sempre importante per un direttore di psicodramma?

Y: Non sempre. Certo, amico mio, ci sono alcuni Maestri di psicodramma come Rosati e Yablonski (ride) che sono particolarmente focosi, ma io penso che in generale questo faccia parte dello psicodramma. (Ride anche Ottavio).

O.R.: Quali sono secondo te le principali differenze fra l’approccio europeo allo psicodramma cioè lo psicodramma analitico e quello americano?

Y: Francamente non ho abbastanza esperienza dello psicodramma europeo per poter rispondere.

O.R.: Tu hai usato lo psicodramma in programmi televisivi. Cosa ricordi di questa tua esperienza così interessante?

Y: Sono stato coinvolto nello psicodramma e nella conoscenza di Moreno per trent’anni. Una delle profezie di Moreno sul futuro era il mondo della televisione potesse farsi carico attraverso lo psicodramma dei problemi dell’America e dell’Europa. Le persone avrebbero potuto avere nelle loro case delle sessioni e vedere, per esempio, un padre e un figlio in conflitto che stanno comunicando e agendo. E suppongo, più di ogni altro incluso Moreno, di essere stato responsabile e di aver diretto in televisione forse più di 40 gruppi di psicodramma in America.

O.R: Veri psicodrammi o la ricostruzione scenica di veri psicodrammi?

Y: La maggior parte erano spontanei. Per esempio a Los Angeles ho fatto uno show e mi hanno chiesto di fare 5 psicodrammi, così presi un gruppo e dissi: “Non voglio nessuna interferenza e non voglio occuparmi per nulla delle riprese o di qualunque cosa di questo genere”. Presi un gruppo di circa trenta persone, alcuni dei quali erano miei studenti e li diressi in un vero psicodramma dal vivo e spontaneo e facemmo fatto 4 puntate al giorno. Tutto questo era al Phil Donahue Show, un programma di interviste molto famoso: il pubblico di Phil Donahue potevano essere 20-30 milioni di persone. Feci lo psicodramma in questo programma poi, circa un anno fa, in LA feci una serie di 5 psicodrammi per la rete A.B.C. Mi ricordo di persone che mi dicevano: “Lo sa, io ho visto lo psicodramma ed ero molto impressionato dalla storia di quel giovane figlio”. Avevo fatto uno psicodramma sull’interruzione del rapporto tra un padre e un figlio e un certo aumento della reciproca ostilità e mancanza di comprensione. Il padre era una persona tirannica e dittatoriale e questo giovane figlio venne da me e mi disse: “Sa che ho visto il programma con mio padre e lui ha detto che era molto interessante. Mentre lo guardavamo ha detto ‘Come può un padre essere così?’ E io gli ho risposto: ‘Ma papà tu sei proprio come lui ’. Insomma questo incontro tirò fuori molti problemi fra loro. Molti dei problemi che c’erano li abbiamo risolti.
E ora, Ottavio, se posso rivolgermi a te direttamente, io penso che Mr. Rosati è quello che può portare lo psicodramma in TV qui Italia.

O.R.: Non ancora.

Y: Non ancora? Perché? La popolazione non è pronta?

O.R.: Sono io a non essere pronto. Mi mancano dei pezzi e li sto mettendo insieme. Cambiamo discorso, Lewis. Qual è il ricordo più bello della tua professione di psicodrammatista fino ad oggi?

Y: Ce ne sono molti, molti. Ma ricorderò sempre il lavoro con Moreno nei primi giorni che andavo a Beacon (NY) e lo vedevo dirigere le sessioni ed essere parte di questo fenomeno. Ora questo sembra ancora fresco e interessante ma in quei giorni fare psicodramma per me era come andare sulla luna, un altro pianeta. C’era un altro livello di realtà che mi fu aperto quando ero ventenne e cominciai a lavorare con Moreno e nel vedere che 15-20 persone potevano entrare nel teatro e farne esperienza. Non sapevamo mai esattamente dove saremmo andati a finire ma ci saremmo fatti carico della famiglia di qualcuno e della loro casa, o in paradiso o all’inferno. Ricordo una sessione che era diretta da Moreno e una giovane donna molto disturbata, una paziente, una psicotica in senso clinico, voleva confrontarsi con il diavolo delle sue fantasie e così Moreno disse “Noi possiamo portare il diavolo in scena” e propose come interpreti diverse persone ma lei mi indicò e disse che solo io potevo farlo. Fu sconvolgente per me giocare questo ruolo (era davvero un bravo diavolo direi) ma mi sembrò di riuscire a soddisfare quella che era la sua immagine del personaggio. Adesso qualcuno ascoltando quello che dico potrebbe dire “Bene, se questa donna è malata e vede il diavolo, a che le serviva che nello psicodramma fossi io a rappresentare il suo diavolo?” La mia risposta è che iniziamo sempre dalla persona che è protagonista della sessione e se lei vede un diavolo, noi mettiamo in scena un diavolo nel tempo e nello spazio. In modo che lei lo possa confinare e possa prendere una posizione e farne un’esperienza attiva e non passiva. 

O.R.: Certo. E’ l’unico modo, oltre alla preghiera, per liberarsene e prendere posizione.

Y: Un’altra sessione che fu molto importante per me fu a Beacon. Un giovane ragazzo di nome Jim Hanneth mi ipnotizzò. Mi portò in trance. Io naturalmente gli dissi che questo non aveva senso perché non mi sentivo ipnotizzato. Allora lui mi disse: “Chiudi i tuoi occhi” e io li chiusi. Poi disse: “Ora non potrai aprire i tuoi occhi fino a che non ti dirò che potrai” ed effettivamente non ci riuscivo così mi resi conto che ero ipnotizzato. Risi ma ad ogni modo eravamo in una sessione e lui mi disse “Quanti anni hai?”. A quei tempi avevo trent’anni ma dissi “sexteen”. Lui disse “Vuoi dire sixteen” ma io non potevo non dire sexteen. Ma ora invertiamo i ruoli: quando hai avuto tu una situazione indimenticabile?

OR. Un momento emozionante , dove mi sono sentito anche io come in trance, è stato una sera che ero a cena con Fernanda Pivano, la scrittrice che ti ho fatto conoscere ieri a casa mia. A un certo punto entrò nel ristorante Federico Fellini, il regista... lo conosci?

Y: Sì, lo conosco. Naturalmente. Come tu conosci Woody Allen.


Omaggio a Fellini di Antonello Geleng - per gentile concessione dell'Istituto Luce

O. R. Loro due si abbracciarono. La Pivano abita e lavora a Milano ma viene molto spesso a Roma. Così a un certo punto lei disse a Fellini una frase che sarebbe diventata celebre: "Che bello! A Roma non faccio la Dolce Vita ma una vita dolce sì." Lui la invitò a venire sul set al suo famoso "Studio 5" di Cinecittà, e a quel punto Fernanda gli chiese se poteva portarmi con lei: "Ottavio è un bravo psicodrammatista e un tuo grande ammiratore. Sono sicura che un giorno anche lui lavorerà a Cinecittà!" E Fellini sorrise e disse di sì. Niente di strano. Era una persona simpaticissima che non si dava mai delle arie. Come Bertolucci... Eppure, tu non ci crederai, ancora la cosa mi commuove. Probabilmente ero anche io in trance!

Y: Era un gioco di ruolo: lei ti aveva riconosciuto un ruolo davanti a un grande esponente di quel ruolo. 

O.R.: Già. E' quello che direbbero con altre parole anche Kohut o Fonagy. Un "rispecchiamento" generoso dell'identità all'interno di un triangolo "edipico", in senso lato: il padre, la madre, il figlio. In casa mia non sarebbe mai stato possibile: quando da ragzzo avevo detto che mi volevo iscrivere al Centro Sperimentale di Cinematografia, mio padre e mia madre mi avevano preso per pazzo.

Y.: Normale! Per questo nella vita cerchiamo un padre una madre psicodrammatici.

O.R.: E cosa mi dici sull’America? Ci sono drammaturghi ispirati dallo psicodramma?

Y: Spesso ho visto sceneggiatori venire in psicodramma e prendere appunti. Quando lo sceneggiatore vede la verità, la realtà, è molto felice e pensa che molti dialoghi siano utilizzabili in commedie e in film. Ma di solito la cosa non ha mai seguito. Ma ce ne fu uno che prese uno psicodramma e lo trasformò in una commedia. Il mio stesso intento è stato quello di riprodurre un gioco punto per punto. Non so se tu conosci uno scrittore cecoslovacco che si chiama Karel Capek.

O.R.: Molto poco.

Y: Capek scrisse R.U.R. ("I robot universali di Rossum", un dramma utopicofantascientifico in tre atti): una storia sull’alienazione dei robot e che aveva alcune analogie con il saggio di Moreno “Who shall survive?”. Parlavano entrambi di robot e di come l’amore per le macchine all’improvviso sfocia nella morte poiché ci affidiamo abbastanza pesantemente a loro e non ci basiamo sulla nostra stessa spontaneità e sulla nostra stessa creatività. Un genere di macchina che per esempio sta uccidendo le persone nel mondo nelle grandi città sono le automobili che ci riempiono di scorie. E questo sta avvenendo velocemente e non è che l’inizio del gioco poiché le automobili sono ancora funzionali ma giorno verrà che arriveremo ad un punto dove tutto il traffico si fermerà. In alcuni posti è già accaduto come Moreno aveva profetizzato. 

O.R.: Hai mai avuto attori come pazienti in psicodramma?

Y: Ho avuto molti attori che sono venuti nelle sessioni di psicodramma ma non ho voluto chiamarli pazienti. Loro volevano essere chiamati ‘clienti’. Fra loro ho avuto un interessante ragazzo con un doppio problema. Se persone che non hanno mai recitato vengono inserite in uno psicodramma possono essere soltanto sé stesse. Spesso un attore può mettere su uno schermo tra lui e la sessione perché lui o lei ha una tecnica. Così loro possono piangere e ho avuto spesso attori che portano avanti la terapia in modo isterico e io mi trovavo a desiderare che diventassero reali. 

O.R.: Non l’azione psicodrammatica?

Y: Giusto, loro recitano come attori e possono recitare certi ruoli. Comunque ho scoperto che ci sono attori molto spontanei che sono degli eccellenti ego ausiliari e che sono molto preziosi nelle sessioni.

O.R.: Quello che dici sugli attori si collega ad un altro problema: cosa pensi di un paziente che ha un disturbo narcisistico nel senso di Heinz Kohut? Un soggetto così può essere aiutato con lo psicodramma?

Y: La personalità narcisistica dal punto di vista della psicopatia o della sociopatia è una persona che dà scarsa importanza agli altri. Ho fatto un sacco di lavori con dei criminali osservando alcuni narcisisti e psicopatici. E ho notato che la tecnica dell’inversione di ruolo può aiutarli a comprendere i sentimenti delle altre persone. Così può entrare nel criminale una percezione dei sentimenti e delle amozioni della vittima.

O.R.: Quali sono le tue personali scoperte e contributi alla tecnica e alla teoria dello psicodramma?

Y: Avendo lavorato per più di trent’anni sia col dr Moreno che con sua moglie Zerka Moreno, che sono le massime autorità del settore, molte delle tecniche che ho imparato vengono da loro. A differenza di Moreno che di solito partiva alla larga e diceva alle persone cosa fare, io penso subito a trovare qualcuno che si propone per fare lo psicodramma e ad entrare in azione. Per il resto probabilmente sono stato un pioniere nella conduzione degli psicodrammi in carcere.

O.R.: E anche in TV sei stato il primo.

Y: Vorrei poterlo dire ma mi viene in mente un’altra storia con Moreno di quando ero alle prime fasi della didattica. Intorno al 1952, un giorno che eravamo insieme fu invitato alla N.B.C. al Rockefeller Center da qualche dirigente. Al RC pensarono di fare uno psicodramma in TV. Cosi Moreno portò me e la mia fidanzata con lui al 60esimo piano del Rockefeller Center dove diresse uno psicodramma. Io e la mia fidanzata stavamo attraversano dei problemi e fu molto interessante ed emozionante metterli in scena. Un loro dirigente, un tipo grassoccio, cadde dalla sedia dall’emozione e chiamò tutti i suoi assistenti e disse a Moreno: “Dottore, lo rifaccia ancora”. Gli sfuggiva del tutto il ruolo della spontaneità in psicodramma. Lo prese come se fosse stato un film che avremmo potuto riavvolgere. Ma ovviamente per noi rifarlo era impossibile.

O.R.: Per me “l’ombra dello psicodramma” è sta proprio in questa irripetibilità di momenti meravigliosi che nascono e spariscono come nuvole di fumo. E per te invece qual è l’ombra (in senso junghiano) dello psicodramma, quali sono i suoi limiti?

Y: Bene, io penso (e questa potrebbe essere un’autodifesa perché, come tu sai, dopo Zerka sono uno dei maggiori esponenti dello psicodramma) che l’ombra sia un’altra. E’ molto difficile formare conduttori di psicodramma perché questo richiede un’enorme quantità di talenti. La persona deve essere competente di psicologia e psicopatologia; la persona si deve sentire a suo agio nella conduzione dei gruppi; la persona deve sentirsi un po’ teatrale, un po’ emozionante, un po’ carismatica. Deve esserlo. E’ importante in psicodramma. E molta gente semplicemente non ce la fa. E si vede. Nella terapia individuale in ogni caso non si sa cosa fanno perché sono sempre chiusi nella privacy dello studio. Quindi se il terapeuta è inefficace, cosa ne possono sapere i pazienti? Loro hanno le patologie e devono credere che il terapeuta sa cosa sta facendo. Comunque in psicodramma non puoi darla a bere a tutti perché c’è un gruppo con cui devi fare i conti, che tu ne sia capace o no. Se qualcuno viene da me individualmente e sono seduto solo con lui chi lo saprà mai se lo sto aiutando oppure no?

O.R.: È proprio così. Infatti io penso che il bisogno di espressione dello psicodrammatista non è necessariamente negativo ma abbia delle implicazioni positive. Fa parte del contratto che altri ti possono vedere in azione. 

Y: Questo è centrale e amplia l’impatto delle sessioni perché lo psicodramma è un processo di gruppo nel quale le persone possono identificarsi. Infatti alcune persone che non sono i soggetti ideali per uno psicodramma quando entrano in un gruppo hanno una profonda esperienza psicoterapeutica a vedere la persona in scena perché si identificano e si coinvolgono con il problema rappresentato e in seguito parlano dei loro sentimenti e delle loro emozioni riguardo la sessione. Loro fanno esperienza di catarsi e imparano a mettere insieme la loro mente e a capire i loro stessi problemi. Ecco perché Moreno parlò di questo nel 1940 e scrisse che la TV avrebbe potuto trasmettere in tutto il Paese. Questo potrebbe accadere per gradi ma ci stiamo ancora lavorando.

O.R.: Talvolta penso che i pazienti dello psicodramma possano entrare in uno stato alterato di coscienza. Non credi che lo psicodramma per certi versi sia sempre un trattamento ipnotico anche quando non si pone programmaticamente come un ‘ipnodramma’ vero e proprio? 

Y: Una volta a LA un gruppo di una società di ipnotisti mi chiese di dirigere uno psicodramma con un gruppo di ipnotisti e io accettai con entusiasmo. Fu una sessione davvero interessante e alla fine cominciai a ricevere alcuni commenti riguardo lo psicodramma e l’ipnosi. Uno alzò la mano e disse “Non lo sa dottor Yablonski che lei ci ha appena ipnotizzato?” e io mi resi conto che qualcosa era avvenuto ma non consciamente, cioè che lo psicodramma in se e per sé era stato davvero suggestivo e ipnotico per le persone del gruppo perché entrarono in una sfera altra, un’altra dimensione delle loro emozioni, della loro mente, dei loro sentimenti. Lo psicodramma ha un effetto ipnotico molto profondo.

O.R.: Anche la fase del warming-up potrebbe corrispondere all’induzione formale della trance che precede la vera e propria elaborazione ipnotica. 

Y: Non l’ho mai vista in questo modo ma sono d’accordo con te che la fase di riscaldamento corrisponda a quei procedimenti ipnotici che si vedevano nei vecchi film di serie B. Quei film dove un’ipnotista con in mano un pendolino sgrana gli occhi, punta le dita e sequestra la consapevolezza del paziente. E ora direi di finire perché il gruppo mi aspetta e se ti unisci a noi ne sarei felice.

(traduzione di Tania Di Martino)

  

 

 

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