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RISPOSTA A MARIO TREVI PSICOANALISTA di Ottavio Rosati

 

 

Quando avevo messo in cantiere Giocare il Sogno Filmare il Gioco" e "Da Storia Nasce Storia" ero partito un oscuro malessere.

C’erano giorni in cui, dopo aver condotto uno psicodramma in cui il protagonista era riuscito a operare il suo povero/prezioso miracolo, per ore e ore mi restavano incisi nella mente alcune immagini straordinarie del gioco e alcuni scambi tra i membri del gruppo, ricchi di empatia, humor e intelligenza. Questi resti, simili a quadri o a scene di film indimenticabili, appartenevano al gruppo più che al regista. Erano una strana specie di oggetti smarriti: la psiche oggettiva li depositava ai bordi del gruppo come il mare porta ogni genere di cose sulla spiaggia. Se mi gettavo su una poltrona e, anziché aprire un libro, accendevo il televisore, queste immagini rifiutavano di sloggiare. Protestavano di essere più interessanti ed emozionanti di quelle sullo schermo. Soggettivamente o obiettivamente? Fermo restando che il festival di San Remo, la lotteria di capodanno e il varietà non si toccano, cominciai a chiedermi cosa avrebbe preferito dei telespettatori chiamati a scegliere tra la banalità di chi parla e straparla sul calcio e il gioco di una persona che mette in gioco in un gruppo terapeutico una storia con risonanze collettive.

Non pensavo a un programma accademico da affidarsi, come dice Guglielmi, ad anime belle strappate al loro romitaggio. Né mi interessava ideare un programma per addetti ai lavori, da confinare in una rete via cavo per abbonati, come quelle che si moltiplicheranno nei prossimi anni. Pensavo a un programma televisivo popolare ma non populista, un programma di frontiera come quelli di Raitre, rivolto a persone che potevano anche non aver mai letto un libro di psicologia ma avevano comunque una psiche più o meno attraversata da archetipi e complessi. Un programma interessante e commuovente per la cartolaia del Testaccio, l'avvocato di Catania, l'idraulico del condominio, il cameriere della pizzeria, il veterinario, l'impiegato, il poliziotto. Sto citando alla rinfusa tutte persone che più tardi ci avrebbero realmente ringraziato per Da storia nasce storia non solo a parole ma con piccoli segni di amicizia, da una penna biro a un check-in fuori orario.

In altre parole, sin dall'inizio questo voleva essere un programma per tutti nonostante che avesse una nuova pietanza da mettere in tavola.

Storia di un lapsus neo-junghiano

Come psicoanalista venivo da una professione fatta di parole. pensieri e silenzi e la fase iniziale di questo disagio durò anni. Il conflitto cresceva. Un giorno, facendo zapping, trovai un nuovo programma "aperto al pubblico" in cui, per vincere un’aspirapolvere, bastava che lo spettatore riuscisse a prendere la linea e dare un salutino per un attimino a non so che scemino all'altro capo del telefono. Intanto sul "Corriere della Sera" Aldo Grasso osservava che l'era dei telequiz era finita e che Mike Bongiorno stava per inaugurare quella del telegame, meno meritocratica ed elitaria: anziché sapere qualcosa, bastava fare qualcosa, ovviamente di insulso. Per la televisione era una svolta epocale che a lungo andare avrebbe influenzato la personalità di base dei nostri tempi.
Naturalmente questo non aveva alcun interesse per l'associazione di psicoanalisi dove si teneva un ennesimo seminario sullo Zarathustra di Nietzsche. Era troppo. Mi decisi a parlare con Mario Trevi, il mio analista didatta neo-junghiano, stimato anche come filosofo. Lo ammiravo e gli ero anche grato del fatto che anni prima (nel 1985) aveva accettato di collaborare a un mio radio-documentario di Rai3: “La mia voce ti accompagnerà” (disponibile oggi sul canale You Tube ipodplays) sul grande ipnotista Milton Erickson. Il suo intervento era sapiente e chiaro ma aveva uno strano finale. Eccolo:

Nel setting analitivo colloquiale che io contrapporrei al setting analitico catartico cioè alla strategia del paziente steso su lettino, può esere talvolta utile, anche se non è mai necessario, introdurre nel colloquio che è scambio paritetico di sensi un aneddoto capace di veicolare per via di immagini il senso del discorso che non può essere raggiunto per via di concetti. Sotto questo profilo l’aneddoto svolge una funzione paragonabile a quella della metafora che, spostando dal contesto abituale una parola, la carica di significati solitamente non raggiunti dal pensiero. È stato osservato che mai come nella metafora il termine si arricchisce di connotazioni inedite appunto perché esso subisce una dislocazione rispetto al suo contesto abituale. Lo stesso, pressappoco, avviene con l’aneddoto introdotto nel colloquio analitico il quale, per altro, è essenzialmente metaforico. L’aneddoto viene, per così dire, desituato rispetto al suo contesto abituale per esempio il suo contesto storico. E proprio per questo si arricchisce di risonanze e di significati che possono produrre straordinarie aperture di senso nel mondo mentale solitamente troppo chiuso, per paura e difesa, del paziente. Allora quel che non viene raggiunto dal concetto che lega ogni parola un suo significato preciso, viene raggiunto dall’analogia implicita nell’aneddoto che apre la parola su significati che la coscienza razionale corrente non può raggiungere. È la tecnica raffinata ma nello stesso tempo cordiale, immediata e terrestre, dei racconti didattici di Milton Erickson che distraeva, e nello stesso tempo attraeva, l’attenzione di un paziente di un allievo verso un contenuto psichico escluso dalla sfera cosciente appunto mediante un aneddoto straordinariamente capace di allargare – per così dire – l’universo mentale dell’interlocutore.

Su un altro piano, meno terapeutico ma profondamente dialogico, questa è anche la tecnica colloquiale degli Hassidim almeno per quel che ne sappiamo dalle sapienti, pazienti raccolte di Martin Buber di Louis Israel Newman. In queste comunità mistiche ma antiascetiche della Polonia settecentesca, i sorridenti rabbini e i loro giocondi allievi erano soliti scambiarsi aneddoti piuttosto che discorsi razionali e l’aneddoto aveva un potere de-situante e aprente straordinario. Facciamo un esempio.

Come si fa a comunicare a una persona sofferente di invidia e pertanto di sentimento di inferiorità e insicurezza, la ricchezza inconfrontabile del suo universo di rapporti interpersonali e del suo mondo interiore? Sappiamo, per esperienza che ogni discorso razionale fallisce in questo tentativo. I Chassidim raccontavano la storia di Rabbi Zusya che, un momento prima di morire, a un allievo che gli chiedeva se fosse preoccupato per la morte rispose: "Nell’aldilà non mi sarà chiesto perché non sono stato Mosè, ma mi verrà chiesto perché non sono stato Zusya".
Sembra una sciocchezza. In realtà il potere di apertura di questo aneddoto. Esso raggiunge ciò che il discorso razionale non può raggiungere. In esso, al posto di un concetto, viene messa una concreta immagine, quella di un piccolo Rabbi che, nel punto di morire, attinge a una sublime verità: il massimo peccato di un uomo è quello di non essere stato se stesso, di aver rifiutato per invidia nevrotica la ricchezza naturale di cui era dotato.

Credo che questo insegnamento mi abba colpito profondamente. Da allora feci sempre tutto il possibile e, qualche volta anche l'impossibile, per evadere dalla prigionia del lavoro terapeutico basato sulle parole e per lavorare con le immagini.

E cioè:

  1. lavorare sull'immaginazione attiva entrando in contatto con l'Ombra
  2. realizzare psicodrammi bicamerali con forti immagini
  3. creare una nuova tecnica analitica basata sull'aziome e sulle imimmagini: la scacchiera
  4. passare dalla radio alla televisione
  5. rinunciare al ruolo di critico teatrale
  6. ridurre al minimo il lavoro di saggista
  7. scrivere sceneggiature per film corredate da story board
  8. frequentare più artisti che intellettuali
  9. fare il mio comimg out gay innamorandomi di un giovane artista molto assorbito dall'inconscio
  10. realizzare delle produzioni professionali.

 Ad esempio, quando anni dopo sarei entrato in conflitto con Francesco circa il suo rapporto con Manuel. ero in grado di formulare pensieri emotivi, duri come questo: "Certo che Manuel è il tuo ragazzo e che io ne sono scioccamenten geloso, Certo che lo hai conquistato dopo che sei stato tu a lasciare Marcello, anziché essere stato lasciato come le altre volte. Questo è innegabile e giusto perché l'hai sempre dichiarato come un obiettivo. Resta però il  fatto che la tua conquista si basava anche sul fatto che continuavi di nascosto ad avere un rapporto di sostegno, amore, di lavoro e di crescita intellettuale con me. Il vostro rapporto di coppia nasce e presuppone il nostro anche se Manuel non lo sa. Quando sei arrivato eri uin ragazzo semplice, spaesato, fragile, triste, inconscio ma buono, onesto, in gamba e incantevole. E mi hai rimesso al mondo cone hai messo al mondo Manuel con la sua depressione e la sua alessitimia che giustamente ti chiama "La luce degli occhi miei" . E ha ragione anche se di questa tua luce, lui non vede non sa tutto. E nemmeno molto. Perché è una luce abbagliante e accecante.

  

Mio padre non aveva mai giocato con me. Lui lo aveva fatto, così come il mio primo analista Aldo Carotenuto

Nel suo studio pieno di luce e silenzio, tra Ficus Benjamina e incensi di Pondichery, c'era la prima edizione de "Le visioni del mondo" di Jaspers ma neanche un piccolo televisore. La presi alla larga e cominciai a inquadrare il problema in termini di nuovo e vecchio inconscio collettivo. Dopo mezz'ora venni al punto. Perché le immagini di un gruppo di psicodramma, nonostante la loro pregnanza, dovevano circolare tutt'al più tra una dozzina di persone mentre quelle di un gioco a premi televisivo raggiungevano milioni di telespettatori? Non era augurabile che accadesse il contrario? E che ne pensava lui di uno psicodrammatista che, come me, si fosse posto in concreto il suddetto problema: era impazzito, stava tradendo la sua professione o la stava facendo? Agiva per amore di sé, per amore dello spettacolo o per amore di ciò che aveva studiato?

Il maestro era abituato a giocare all'understatement con grande eleganza. Pubblicava silenziosamente saggi di gran valore che chiamava 'libricini' e si era appena dimesso dalla nostra associazione analitica per amore di quiete, mentre intorno a lui fioccavano scandali. Rispose che forse il progetto, lecito e al tempo stesso lecitamente sospettabile, nasceva dal bisogno di soddisfare soprattutto una mia personale esigenza. Ma che questo accade per qualunque progetto. Aggiunse che secondo lui non era possibile mostrare cosa fosse la psicoterapia. Ma che d'altra parte l'incontro analitico è dialettica tra due soggetti ognuno dei quali ha da compiere un suo specifico progetto di individuazione. In un certo senso non rispose. Non prese posizione.

Due anni dopo, mentre montavo la seconda serie di Da storia nasce storia, tornai trepidante a trovarlo con una pila di VHS sotto il braccio.

Ero emozionato come un figlio che torna a casa dalla guerra con qualche decorazione e qualche ferita. Quando venni al punto, il maestro mi disse che disgraziatamente non aveva visto nessuna delle puntate del programma perché la sera era abituato ad andare a letto alle dieci in punto.

Tutti i neonati si assomigliano e tutti assomigliano a Edward G. Robinson: protestai che se avessi scritto un libro di trecento pagine sulla sociologia della conoscenza psicoanalitica l'avrebbe letto a costo di farsi venire l'insonnia. Perché allora una reale impresa televisiva doveva cadere nel vuoto? Pretendevo un rispecchiamento, un analisi, una critica costruttiva. Al limite anche distruttiva. Lui non poteva sapere che fatica avevamo fatto. La protesta durò circa un quarto d'ora e il maestro la contenne senza mai interrompermi.

Come risposta mi parlò soavemente degli ultimi giorni di Lao-Tse che, sul punto di ritirarsi da un impero corrotto, passava l'ultima notte a dettare il libro della norma. Mi sfuggiva il nesso. Diciamo che mi "arrabbiai" di brutto: voleva forse dire che lui era nel Tao e io nel turpe impero dei sensi? Individuatevi, individuatevi ma non uscite dal giardinetto. C'era ancora gente per cui televisione era opera del demonio? Come la mettevamo con lo storicismo allora? Che fine faceva la polemica contro lo Jung della psicologia perennis e a favore dello Jung ermeneutico e probabilista?

I miei però erano tutti pretesti. In realtà diedi la stura alle più cocenti frustrazioni del transfert omosessuale sublimato, rovesciandogli addosso il complesso dell'orfano che, prima cerca l'immagine-guida, e poi pretende di guidarla. Anziché le medaglie misi in mostra le ferite fresche accanto alle vecchie cicatrici. Alla terza piaga il maestro smise di sorridere. Cominciava a sembrare colpito e mi fece una confessione degna di un consulente editoriale giapponese: aveva immaginato che avrei sopravvalutato il suo parere. Perciò, sapendo che quel tipo di lavoro gli sarebbe riuscito estraneo, aveva preferito non guardare il programma.

Pur riconoscendola come tale, la bugia mi commosse e mi nutrì. Intanto il bastoncino di incenso era ridotto in cenere e mi resi conto del tempo prezioso che gli stavo facendo perdere con una rivendicazione transferale fuori posto. Mi vergognai di non essere abbastanza presuntuoso e narcisista per fare a meno di uno specchio come il suo, che aveva tutto il diritto di non voler riflettere televisori. Desiderai non aver cominciato quel discorso. Ma ormai il guaio era fatto. Il maestro aggiunse: "Mi creda: il mio è stato un eccesso di affetto paterno. Non un segno di indifferenza".

L'ora era più che scaduta e ci avviammo verso l'anticamera. Lì accadde qualcosa che non potrò mai dimenticare. Non dovevo avere un aspetto rassicurante e, forse preoccupato che scivolassi per le scale, il maestro volle darmi un ultimo sostegno. Mi strinse la mano e disse: "Glielo ripeto, caro Ottavio: non confonda la mia indifferenza per affetto paterno". La frase gli si era ribaltata in bocca e mi fece l'effetto di uno shock psicodrammatico. Dissi arrivederciegrazie. Egli chiuse la porta.

Fermo sul pianerottolo, me la aggiustai pensando che quello non poteva essere un banale lapsus freudiano: doveva essere un lapsus neo-junghiano. Avevano parlato entrambi: il Sé del maestro e l'Io del maestro. E entrambi volevano dirmi qualcosa. Uscendo dal portone, quasi sorridevo di riconoscenza. Intanto mi avevano portato via la macchina col carro-attrezzi.

Fanfaluche e proteste

Abbiamo visto come Da storia nasce storia è stato accolto dalla gente comune e da un grande analista. Poche menzioni del programma sono finora apparse sulle riviste di psicologia mentre giornalisti e critici televisivi sono stati generosi di articoli e recensioni positive, eccezion fatta per un attacco assai divertente di Sergio Saviane apparso su "Il Giornale", accanto a una foto di Guglielmi, col titolo Psicodramma di famiglia. L'articolo (sfuggito all'ufficio stampa della Rai ma gentilmente inviatomi per fax interurbano da mio fratello) comincia così:

Il conduttore fa sceneggiate di gruppo per il recupero, si fa per dire, di persone colpite da disturbi psichici, partorisce continuamente sul bancone sogni, oltre che fanfaluche, parla in diretta col subconscio e con l'aldilà come Alberto Bevilacqua ultima maniera, ma parla anche con i fiori, gli oggetti o i ricordi smarriti, con i bambini di cartapesta, perfino con le tette in persona, come ha fatto, con alto senso del dovere professionale, nell'ultima trasmissione di Raitre, "Da storia nasce storia". In altre parole, è uno psicodrammatico, che entra o esce, partorisce o si trasferisce dentro e fuori della psiche altrui con tale passione e calore umano che può essere considerato senza ombra di dubbio il primo esempio esclusivo mondiale di ragazzo-madro.

Ma, risposte dei critici a parte, quali sono state le reazioni di quelli che nel linguaggio comune si definiscono pazienti o peggio ancora clienti e che gli analisti più aggiornati definiscono analizzandi/nti?

Per quel che riguarda i miei gruppi la reazione principale fu la protesta per l'abbandono (la terapia era stata interrotta per qualche mese) temperata però dalla possibilità di rispecchiarsi in una realizzazione del loro psicodrammatista e magari di mostrarla ad amici e parenti. E qui mi sento già sul collo l'ansimare degli psicologi ortodossi ai quali tutto ciò sembrerà terribilmente scorretto, anche se qualcosa del genere accade, sia pure in misura minore, quando un analista pubblica un libro destinato a essere letto.

Ci fu anche un fenomeno imprevedibile. A causa dei processi di identificazione proiettiva nei gruppi televisivi, alcune persone che facevano psicodramma reagirono come se la messa in onda avesse profanato il segreto professionale della loro terapia. Questo genere di reazione fu espresso soprattutto da pazienti di altri psicodrammatisti e in qualche caso la protesta prese toni irritati, irritatissimi. Lo sdegno era illogico ma psicologicamente comprensibile: Da storia nasce storia violava la dimensione ermetica della psicoanalisi. La trasmissione televisiva aveva operato nell'archetipo di Ermes-Mercurio una torsione verso quanto è legato allo scambio, al furto e alla comunicazione. A scapito di quanto è legato al segreto e all'ermetismo. Un paio di persone che non conoscevo mi scrissero come se avessi messo in piazza i segreti del loro gruppo e mi trattarono da psicomascalzone. A Torino una splendida ragazza molto intelligente, che si era permessa di prendere parte al programma, fu messa al bando da un cenacolo di para-junghiani vagamente mistici che da anni si riunivano per disquisire sulle sorti dello spirito occidentale.

Naturalmente, tra i pazienti come tra gli spettatori, ognuno reagì a suo modo. Tra le reazioni a scoppio ritardato citerò quella del mio giovane paziente, Gian Maria, avvenuta mentre correggevo le bozze di questo libro.

Dal ciambellone al pene di pane

Gian Maria è un bravo, anzi bravissimo ragazzo di buona famiglia che, per sentirsi benvoluto, ha imparato a nascondere sin da bambino molti bisogni e desideri, soprattutto di tipo sentimentale e sessuale. È quel che si dice un angelo, un pezzo di pane. La madre, una preside cattolica più esigente che affettuosa, è morta da molti anni. E Gian Maria è rimasto solo in casa accanto al padre, un assicuratore in pensione, che non si è risposato ma da anni ha una relazione con una donna più giovane di lui. Tutti gli altri figli sono andati a vivere per conto loro, anche all'estero. Finalmente, nel corso dell'analisi, Gian Maria sente che sarebbe arrivato il suo momento. Sarebbe una svolta decisiva anche per i suoi rapporti con le donne. Ma lo frena la fantasia inconscia di non poter abbandonare il padre, di doverlo proteggere. Quasi prendendo il posto di una madre/moglie.

L'analisi rivela che in un misto di onnipotenza e vittimismo, Gian Maria si illude che la sua uscita da casa avrebbe conseguenze letali su quel pover uomo pieno di acciacchi. Vorrebbe sentirsi rassicurato dal padre e incoraggiato a partire. Lo pretende. Quasi che gli spettasse una liquidazione di riconoscenza e una grande festa da pensionamento con tanto di ben servito, spumante e orologio d'oro. Il che, notoriamente, in casi del genere non accade mai: suo padre gli dice "Vai pure, figlio mio" ma subito dopo si dimentica di prendere le medicine.

Così, dilaniato tra desiderio di libertà, senso di colpa e rabbia, Gian Maria non si decide ad affittare un appartamento. Però diventa sempre più irritabile e scontroso, in casa e in ufficio. È un nuovo ricco della cattiveria, incapace di spendere bene i suoi no, se prima il padre non gli dice sì. Subito dopo uno psicodramma, in cui il gruppo si rifiuta di colludere col suo vittimismo di figlio genitorializzato, fa questo sogno:

Sono in una televisione. C'è un gioco con molti spettatori dove una persona può rappresentare qualcosa di se stesso.

Arriva un giocatore che tiene in mano un pezzetto di pongo e dice al conduttore: "Io voglio rappresentare qualcosa di molto particolare".

"Di che si tratta? Me lo dica all'orecchio".

"Un organo genitale maschile. Il pene umano."

"In televisione? Non mi sembra il caso. Ci guardano tutti."

"Senta: lo voglio fare a tutti i costi."

Il conduttore sembra perplesso ma il giocatore agisce lo stesso. Il pene umano è grandissimo. È in erezione e nero, come del pane integrale o di avena. Io intanto giro intorno a quei due, spiandoli da dietro. Guardo la scena e penso tra me e me: "Certo che questa immagine è proprio forte. Però alla fine il suo pene glielo hanno fatto fare!".

Come libera associazione, Gian Maria dice di aver visto la puntata di Da storia nasce storia dedicata alle grandi e piccole madri. Ricorda il momento in cui Giorgio (il nostro incontenibile cameraman) aveva rivendicato, davanti a una giovane donna esaltata dalla sua maternità, il diritto di sentirsi, oltre che padre, anche madre. Una madre molto più valida ed equilibrata di lei. Gian Maria ricorda che alla fine della puntata il gruppo aveva fatto una specie di votazione, dando ragione a Giorgio in un'apoteosi di applausi e risate. Mi resi conto che si era verificata una comunicazione televisiva da inconscio a inconscio: Gian Maria non poteva saperlo ma anche il nostro Giorgio, dopo la morte tragica di sua moglie, era rimasto solo in casa con Andrea, il bambino di cui ho già parlato in questo libro.

La seconda associazione di Gian Maria sul sogno riguarda "il pene umano". In un primo momento gli viene in mente l'immagine di un ciambellone dolce e subito dopo l'immagine fallica di un pane molto cotto, quasi bruciacchiato. Balza agli occhi, per forma, sostanza e cottura il passaggio da un cibo yin a uno yang. Lo sfilatino anzi era anche troppo yanghizzato, come direbbe un cuoco macrobiotico, dalla cottura eccessiva. Il passaggio simbolico, dal dolce al salato, parlava della ricerca di un'identità maschile autonoma a partire da un'identità spuria di tipo femminile e recettivo: il ciambellone. In altre parole Gian Maria si muoveva dalla fusione materna verso il rispecchiamento "omosessuale" da parte di un'immagine guida paterna. Il sognatore per mostrare la sua opera al mondo ha prima bisogno di conquistarsi la complicità e il sostegno del presentatore che fa da specchio al giocatore ma lo fortifica con una certa dose di opposizione e resistenza. In ogni caso il pane non poteva più restare chiuso dentro il forno. È legge del Tao che un eccesso di yang si capovolga in yin e viceversa: una crosta bruciata finisce per sgretolarsi in polvere.

Fin qui il sogno e il suo riferimento al programma. Spero che la sua analisi abbia aiutato Gian Maria a gestire il suo problema non meno di quanto il sogno abbia aiutato me a capire alcune implicazioni generali e - come abbiamo visto - personali di Da storia nasce storia. Subito dopo la seduta ritrovai in una giacca la fotocopia accartocciata dell'articolo di Saviane sul "ragazzo-madro": l'avevo portata al mio maestro perché era stato lui a insegnarmi che l'Anima. è ciò di cui gli altri ridono ma s'era persa in una tasca interna.

Nel sogno di Gian Maria è in ballo il bisogno di rappresentare in pubblico qualcosa di molto particolare, qualcosa che va fatto a tutti i costi. Il giocatore col pongo tra le mani mette in mostra i bisogni vitali della psiche accanto ad altri linguaggi approdati da tempo in televisione, da quello politico a quello sportivo, da quello della medicina a quello del cabaret. Il suo non è un videoquiz, né un videogame: è un videoplay. Lo scandalo è che la dimensione terapeutica e recettiva dello psicodramma, e di ogni altro lavoro sulla psiche, a questo punto esce dal forno ermetico della psicoterapia, prende aria e mostra il suo aspetto polemico e fallico in cerca di riconoscimento e incidenza. Il giocatore reclama l'attenzione del pubblico nella speranza che a questo gioco sia riconosciuta la duplice qualità di un pene di pane. Anche se a qualcuno questa speranza sembrerà puerile e a qualcun altro troppo impegnativa per quella fascia oraria.

Resta il fatto che nell'era del grande Blob, dove gli psichiatri che leggono Bion hanno poche speranze di curare chi si ammala di quiz, un'indecenza televisiva come questa sia diventata, tutto sommato, possibile al giocatore. Qualcuno ha prestato orecchio e alla fine lo ha fatto fare.


Un sogno all'ozono

Patrick Casement ha scritto un bellissimo libro sul modo in cui un analista può imparare dal suo paziente a conoscere se stesso. In omaggio alla sua teoria, concluderò con un mio sogno fatto in negli stessi giorni in cui Gian Maria fece il suo.

Nel sogno avverto un grande odore di ozono.. Seduta dietro il bancone del suo ristorante vegetariano in cui segretamente si mangiano anche polpette di pollo, vedo la proprietaria. È una bella donna di quaranta anni, un incrocio tra Raquel Welch, Jane Fonda e via degradando verso le varie Marine di casa nostra: produttiva, estroversa. Americaneggiante dunque provinciale. Il tipo di donna che non ha mai letto Freud ma potrebbe benissimo possedere un cavallo. Un peu lesbienne, un peu les deux, direbbe la Dolto. Anche un po' cafona. Molto sexy ma fallica, sicura del fatto suo. Baciata in fronte dall'ignoranza e dalla presunzione. C'è in lei qualcosa di antieuropeo. È strano ma nel sogno la figura rimanda subito al suo contrario: è l'ombra di personaggi straordinari come Karen Blixen, Marguerite Yourcenaire o Rita Levi Montalcini o di grandi professioniste che apprezzo molto, come la Selvini Palazzoli, la Pivano, la von Franz... Buon Dio, che stronza!

Nel suo ristorante, arredato alla californiana con piante di plastica, fa tutto lei, efficiente e presuntuosetta. Questa sua autonomia mi irrita e mi attira. C'è davanti a noi il suo cameriere, un povero studente con gli occhi spalancati e le dita bruciate dalla varechina. Non sopporto il modo umiliante in cui questa capessa lo tratta. Devo fare qualcosa per darle una lezione. Allora la sfido. La scimmiotto mettendola in caricatura, ripeto le sue espressioni in modo satirico. Il ragazzo sbianca ma sorride, felice che qualcuno finalmente faccia giustizia. Io stesso mi meraviglio del mio coraggio e vado avanti a provocarla. Non ho mica paura di lei.

La donna getta la sigaretta e caracolla incazzatissima verso di me, dicendo merda in inglese. Vorrebbe prendermi a schiaffi. Potrebbe anche graffiarmi con le lunghe unghie laccate come una parrucchiera del Beverly Hills di Torvaianica. C'è da stare attenti perché, mangiando sedani, carote e polpette, potrebbe anche essersi fatta un whiskey.

Come previsto, alza le mani. Lottando per bloccarle le braccia, cadiamo per terra tra sedie e tavolini. È proprio banale: non solo graffia ma usa pure le unghie dei piedi. Di colpo la camicia le si apre e lei resta a seno scoperto come un'amazzone. È un incidente in corso di zuffa o lo ha fatto apposta? Ci resto male. Non vorrei che qualcuno pensasse che voglio violentarla: già mi vedo gli articoli della Cambria. Intanto quel povero ragazzo denutrito ne approfitta: è scappato bramoso in cucina e si sta ingozzando di germogli di soia. Che strano, l'ignobile ristoratrice mi pareva bionda e ora mi accorgo che è bruna. Comunque devo ammettere che per la sua età non è mica male.

Improvvisamente è quasi nuda e profuma. Poi in calzamaglia nera e svapora sudore. In modo intermittente come un neon pubblicitario, compare e scompare un minuscolo reggiseno sul petto abbronzato. Perdo la testa. È come se qualcuno le facesse lo zapping. "Sciocca!", sibilo nello sforzo del braccio di ferro, "Sciocca. Io sono uno psicologo. Sono anche iscritto all'albo. Con me questi trucchi non funzionano. Dai. Piegati alla cultura. Obbedisci!". Lei sospira languida. Intravedo una smagliatura rassicurante ma subito dopo mi sgomenta la comparsa di un sederino davvero in forma. Perché mi ride in faccia? Mi batte il cuore. Aumenta l'odore di ozono. Prendo fiato. Devo dire però che gli occhi non sono brutti. È calda. Sono caldo anch'io. Se lei non fosse lei, potrebbe anche piacermi. Quasi quasi glielo dico. Anzi no. Potrebbe equivocare. Ma cosa stiamo facendo avvinghiati su quel divano? "Stai buona.", dico, "Buona. Sennò ti stacco la spina. A proposito, ti andrebbe un bacio?". Per tutta risposta le spunta fuori l'antenna incorporata. E adesso?

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