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GIOCO E PET THERAPY di Ottavio Rosati

«Sentire per la prima volta un pappagallo parlare nel linguaggio umano è un’esperienza inquietante. Ricordo che, entrata una volta in una locanda, ebbi un sussulto quando il pappagallo urlò di colpo dal suo trespolo "un piatto di minestra per il signore!" come aveva sentito fare dal cameriere. Rimasi esterrefatta. È davvero strano che una creatura muta, che quasi non si suppone possa aprire il becco, improvvisamente pronunci in un linguaggio umano parole comprensibili. Inoltre, viene in mente un’altra osservazione: gli occhi di un uccello sono di solito conformati in modo tale da poter vedere a distanza e, dal momento che si trovano ai lati della testa, non possono convergere. Di conseguenza un uccello guarda reclinando la testa di lato e non di fronte, come la maggior parte degli animali, il che crea un certo disagio nell’osservatore. Se si cerca di guardare un uccello negli occhi, si incontra uno sguardo stranamente fisso come se guardasse attraverso o sopra di voi e non davanti: esso guarda lontano. Inoltre, poiché vive e vola nell’aria, l’uccello è assunto a simbolo di un essere dotato di anima o di pensiero, di una realtà spirituale (...) 
Il pappagallo ben si presta alla proiezione di voce dell’inconscio».
MARIE-LOUISE VON FRANZ, L’individuazione nella fiaba, Boringhieri, pag. 76

Introduzione

Qual è oggi lo statuto scientifico della pet therapy e in che misura la psicoanalisi potrebbe contribuire allo sviluppo di una psicoterapia che, al dialogo tra due persone, preferisce il rapporto uomo-animale?
La prima parte di questo lavoro indaga alcuni aspetti della pratica di psicoanalisi e psicodramma in un setting atipico, che prevede la presenza di alcuni animali d’affezione residenti nello studio dell’autore. Sulla base di questa esperienza, proporrò a colleghi e veterinari alcuni interrogativi che meriterebbero, se non una risposta, una riflessione. Nella seconda parte vengono presentati un caso clinico con una complessa interazione tra uomini e pappagalli, analizzandolo nei termini della teoria delle relazioni oggettuali, con particolare riferimento al pensiero di Donald Winnicott e Thomas H. Ogden.
 
Psicologia del profondo e pet therapy

La pet therapy è uno di quei campi di ricerca in cui si assiste ad una proliferazione di esperienze, talora coraggiose e interessanti, ma spesso isolate, frammentarie e prive di riferimenti a modelli della psiche umana e animale. Ed è sorprendente che (ad eccezione di alcuni libri di area junghiana sul significato simbolico degli animali nei miti e nei sogni) si cercherebbero invano, nella letteratura psicoanalitica, studi sul rapporto uomo-animale sul piano cosciente e inconscio.
Eppure il materiale clinico non manca: a ben vedere, qualunque persona ami e protegga un animale d’affezione (compreso Freud, che ospitava nel suo studio due chow-chow) realizza una qualche forma di pet therapy. Questa indifferenza della psicoanalisi costituisce, a sua volta, un fenomeno di negazione degno di analisi e contribuisce a lasciare la pet therapy in condizioni irrelate e precarie. La mia tesi è che, per quanto preziosi, alcuni sodalizi uomo-animale non sempre bastano a raggiungere quel tanto di pace mentale cui tutti aspiriamo. In casi particolarmente problematici, al di là del superamento di alcuni sintomi ansiosi o depressivi, una trasformazione strutturale nel paziente richiede che il transfert da lui operato sul suo pervenga anche analizzato sul piano verbale da un supervisore che chiarisca il significato profondo dell’interazione. Questa tesi Implica anche un nuovo modo di concepire la professione di veterinario: colui che cura un animale d’affezione potrebbe considerarsi, sempre e comunque, anche terapeuta della persona che onora la sua parcella. Un esempio di questa nuova sensibilità è nella prassi, inaugurata dai veterinari anglosassoni, di inviare un biglietto di condoglianze al cliente che ha appena subito la morte del suo pet. È evidente che qui è in gioco non solo una nuova tecnica, ma una nuova etica: che senso avrebbe altrimenti spendere molto per operare un cucciolo costato poco? In quest’ottica il veterinario cessa di essere un meccanico-medico che aggiusta macchine viventi di ogni forma e colore e si configura, piuttosto, come supervisore della relazione terapeutica padrone-animale in atto sul piano inconscio. Tale passaggio porterebbe ad un giro virtuoso, a vantaggio di tutti: cliente, animale e terapeuta. Queste considerazioni derivano da un’esperienza ancora in atto. Per qualche anno, in seguito alla vicenda narrata nella seconda parte del mio scritto, ho provato a mettere a disposizione dei pazienti la presenza di un paio di scoiattoli (Calosciuri prevosti), due conigliesse d’angora e alcuni pappagalli (1): si tratta di una coppia di krameris, un eclectus femmina, un amazzone a testa azzurra e del capocomico di questa compagnia, un Cacatua alba di nome Bobo-Totò, il quale è stato al centro per due anni di un seminario sulla pet therapy tenuto presso la Cattedra di Teoria della Personalità del professor Aldo Carotenuto, presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Roma. Queste presenze, nonostante il sarcasmo di alcuni miei colleghi, non hanno ipersemplificato né banalizzato la tensione dei miei sforzi analitici. Hanno solo permesso di convogliare la tensione intellettuale dell’analisi in un’area d’incontro ludico e affettivo. I pappagalli aiutano a trasformare lo studio in uno spazio transizionale modulabile sul piano della mente bicamerale e su codici paralinguistici. È noto che nell’ambito della psichiatria infantile, Spitz definisce come "telepatica" la primissima comunicazione tra madre e bambino: un’intesa "cenestesica" e viscerale in cui gli stimoli della madre, piuttosto che "percepiti", sono "ricevuti" dal bambino e registrati in forma di emozioni. Per descrivere alcuni aspetti di ciò che ho visto passare tra il mio pappagallo Totò ed alcuni pazienti, valgono le parole con cui Donald Winnicott descrive lo speciale stato di ricettività della madre ideale di un neonato:
« Non credo che sia possibile comprendere la funzione della madre all’inizio della vita del bambino senza ammettere che essa deve essere capace di raggiungere questo stato di elevata sensibilità, quasi una malattia, e di guarirne [...]. Soltanto se la madre è sensibilizzata nel modo descritto può sentire se stessa al posto del bambino, riuscendo così ad andare incontro alle sue necessità» (2).

Purtroppo non tutte le madri sono in grado di sviluppare una sensibilità simile ad una malattia e poi di guarirne. Lo stesso è vero per i terapeuti. Come mostra l’opera rivoluzionaria di Sandor Ferenczi (l’allievo più geniale ed eretico di Freud), una carenza di base del bambino deprivato di tale sensibilità rischia di ripetersi anche in esperienze psicoanalitiche irrigidite difensivamente nel classico setting dialogico. Sono pochi gli analisti in grado di sintonizzarsi su livelli preverbali dell’ apparato psichico e di modularli, senza per questo compromettere la correttezza del setting. Proprio in quest’area la presenza del pappagallo e la sua partecipazione possono vivacizzare la classica interazione analista-paziente, attraverso piccoli voli, giochi di contatto, saluti e altri rituali di riconoscimento. A livello inconscio è molto importante anche la dinamizzazione olfattiva e cromatica dello studio, dove i pazienti devono poter caricare le loro fantasmatiche di morte e stagnazione, senza restarne prigionieri. Diventa così più facile offrire al paziente un’esperienza di contenimento non solo sul piano mentale, ma anche su quello concreto dell’ambiente. Naturalmente la sconcertante presenza dei volatili nel setting non è accettata da tutti i clienti (3), ma consente di mantenere inalterata la classica regola freudiana dell’astinenza, che proibisce contatti fisici, anche minimi, tra analista e paziente. Bobo-Totò permette di costituire un’area intermedia di scambio in cui è possibile attivare ed elaborare esperienze correttive sul piano del gioco e del far finta terapeutico da convogliare poi in analisi.
Un esempio è quello di Mario, un paziente colpito da un grave lutto e così depresso da non poter parlare. Nel timore che potesse disturbare la seduta, avevo chiuso Totò nella sua gabbia. Il cacatua però infilò una zampa attraverso le sbarre e protese le dita verso Mario in modo disperato. Era un richiamo istintivo più forte della morte che, nella sua semplicità, aveva qualcosa d’irresistibile. Quando finalmente lo feci uscire, Totò andò verso il paziente, si arrampicò sui pantaloni, gli posò la testa sul petto e per vari minuti modulò una specie di gorgoglio consolatorio. Mario scoppiò a piangere. Inutile dire che l’interazione giovò allo stato d’animo del paziente e favorì la sua comunicazione verbale con l’analista.
Disgraziatamente Totò è stato ucciso da un cane penetrato nella sua gabbia. Con lui è scomparso un esemplare di eccezionale interesse clinico e sperimentale. Totò poteva dire «Ciao, come stai?» ai pazienti da lui preferiti e correre incontro a qualcuno per arrampicarsi sui suoi vestiti e accucciarsi in grembo, ottenendo carezze. Se il soggetto era molto amato, al suo arrivo Totò faceva anche la cresta o cinguettava oppure fremeva di gioia. Se era allontanato da una persona che gli stava a cuore, Totò viveva dolorosamente la separazione e ne reclamava la vicinanza. Se era stato chiuso in un’altra stanza, anche lontana, Totò avvertiva comunque l’arrivo di un paziente che gli piaceva e faceva urla di richiamo. Quando era il paziente a mettere le distanze, Totò non insisteva. Davanti a chi non lo voleva vicino, il cacatua restava sempre nel suo spazio, girando dignitosamente le spalle, sbadigliando o coprendosi il becco sotto le piumette a baffo, per evidenziare il bisogno reciproco di privacy e distanza. Totò non cercava chi non lo cercava.


Area della percezione di alcuni meccanismi di difesa arcaici

Sia nella psicoterapia duale di tipo dialogico sia nella psicoterapia di gruppo, i pazienti si esprimono non solo a parole, ma attraverso modalità paralinguistiche o attraverso impenetrabili silenzi, indice di resistenze o vuoto mentale. In certi casi, più che parlarne, i pazienti sembrano essere alle prese con fantasie e vissuti il cui spessore emotivo, minaccioso e destabilizzante per l’Io, è stato negato o scisso attraverso meccanismi di difesa, quali isolamento, la negazione o la scissione. Spetta appunto all’analista comprendere questa manovra inconscia e segnalarla attraverso un’interpretazione strutturante integrativa (4). L’obiettivo è quello di aiutare il soggetto a recuperare il vissuto messo da parte, o l’affetto scisso, fino a raggiungere una visione di se stesso più integrata. Prima di vedere come Totò sapeva contribuire a questa funzione nel setting analitico e psicodrammatico, farò un accenno ad alcuni meccanismi di difesa (5).

• Nell’isolamento il soggetto perde contatto con i sentimenti associati ad un episodio sgradevole o ad un trauma, ma resta in grado di descriverlo e parlarne dal punto di vista dei fatti. Il racconto di un torto subito (per esempio, un offesa sul piano del lavoro) è cosciente e chiaro al soggetto, mentre l’emozione rabbiosa, collegata a quel torto, è minimizzata o del tutto inaccessibile alla coscienza. È il contrario di quanto accade nel meccanismo di rimozione, dove il soggetto soffre di una certa emozione, ma non ricorda gli eventi che l’hanno causata.

• Nella negazione, sia l’affetto sia la sua causa storica sono tagliati via dal campo della coscienza di chi parla, pur essendo evidenti a chiunque lo ascolti. Un esempio può essere quello di chi, esprimendo in concreto l’invidia per un collega o un amico, attraverso una serie di svalutazioni, omissioni o assenze evidenti nella trama del rapporto, nega nel modo più assoluto di nutrire il benché minimo sentimento di invidia.

• Infine, nell’identificazione proiettiva un nucleo dell’inconscio, come rabbia, paura o depressione, viene messo o dislocato letteralmente dentro la psiche di qualcuno con cui si è in contatto: coniuge, collega di lavoro, ma pure analista o compagno del gruppo terapeutico. Chiunque conosce persone la cui presenza finisce per ammorbare l’aria (6).
Detto brevemente, si tratta di fenomeni, più o meno netti, di scissione, vale a dire di allontanamento dal campo della coscienza di alcune parti del Sé, che risultano intollerabili e incompatibili con altre parti vicine alla coscienza. Un veterinario moderno dovrebbe valutare il rapporto padrone-animale anche alla luce di queste categorie cliniche. Ma torniamo alla clinica. Quando questi meccanismi di difesa avevano luogo in presenza del pappagallo, Totò aveva imparato ad intercettare al volo la presenza di un affetto scisso e tagliato fuori del campo di rappresentazione simbolica e lo amplificava, cominciando ad urlare e ad agitarsi. In casi simili l’analista si pone come interfaccia e può far notare al paziente che forse sulla questione di cui si sta parlando c’è qualcosa di inconscio da integrare. Non appena il paziente lo capisce e ne parla, il cacatua torna tranquillo.
Cesare è un giovane studente di psicologia che vive ancora in casa della madre vedova. Dopo un lungo silenzio comunica al gruppo di psicodramma che non riesce più a superare un esame. L’analista parla di inibizione nevrotica e il gruppo fa notare a Cesare che, una volta presa la laurea, sarebbe per lui il momento di andare a vivere con la ragazza, lasciando la madre.
A questo punto l’analista invita il ragazzo a rappresentare in forma di psicodramma il momento in cui sarà finalmente laureato. Nel gioco il ragazzo è invitato a fare un inversione di ruolo e a mettersi nei panni della madre. Quando gli si domanda cosa prova, Cesare dice di non sentire nessuna emozione. In quel preciso momento il cacatua inizia a battere le ali e a gridare tra le risate del gruppo. Totò si calma solo nel momento in cui Cesare ha un insight e comincia ad entrare in contatto con la sua angoscia legata all’idea di lasciare sola la madre.
Fenomeni di questo genere sembrano comprovare anche nella realtà clinica le funzioni che Marie-Louise von Franz sottolinea nel suo libro L’individuazione nella fiaba, analizzando la favola persiana Tuti-Nameh:

«II pappagallo rappresenta un fenomeno di soglia, perché esprime nel suo linguaggio i meravigliosi pensieri dell’inconscio. Forse proprio il fatto paradossale di essere un uccello che parla nel linguaggio umano lo rende un simbolo molto appropriato. Tale simbolo esprime il fatto che l’inconscio è qualcosa di non umano, che tuttavia può talvolta parlare in un linguaggio comprensibile agli uomini»(7).
 
L’analogia tra la valenza metafisica del pappagallo nell’antica fiaba e la funzione psicologica di Totò nello psicodramma era provata, a volte in maniera impressionante, da una serie di situazioni cliniche, come quella di Cesare, alcune delle quali sono state videoregistrate.


Area di investimento narcisizzante

Rispetto a soggetti depressi, una delle funzioni svolte dal pet è quella di contribuire all’investimento positivo del terapeuta da parte del paziente, con la conseguente costituzione di un oggetto Sé rassicurante e affettuoso. Sempre più spesso noto che il pappagallo entra nei sogni dei pazienti, con significati simbolici di rinascita e sviluppo.
La Von Franz indica nella figura archetipica del pappagallo, così come si presenta nei miti, nelle fiabe e nei sogni, una valenza d’enorme importanza: quella di simbolo del Sé. Di là dalla tradizione iconografica e religiosa, la cosa è comprensibile non solo per la grande simpatia e bellezza di questi uccelli gioiosi e giocosi, ma anche per la loro ineffabile capacità di parlare, stando vicini agli esseri umani, per poi alzarsi in volo verso il cielo.
Sia per questa ragione, sia per il grande affetto che ci legava, Totò favoriva in alcuni miei pazienti un processo d’identificazione nel ruolo terapeutico, che mi consentiva di mantenermi sullo sfondo, come testimone del fenomeno. Poteva accadere che una seduta con la partecipazione giocosa di Totò prendesse, almeno in parte, le caratteristiche del sogno da svegli guidato. In altri casi, il pappagallo era sognato da solo o al fianco dell’analista, segnalando così varie sfaccettature del transfert. Da questo punto di vista l’affiliazione al pappagallo può simbolizzare, soprattutto per i maschi, qualcosa di paragonabile ai processi di narcisizzazione ottimale, che Fransoise Dolto cercava di attivare nelle sue piccole pazienti col metodo della bambola-fiore. In quest’ambito diventa centrale la funzione di raccordo dell’analista. Spetta a lui chiarire i simbolismi in atto e analizzare il ruolo svolto dal pappagallo nelle fantasie consce e inconsce del paziente.
Ricordo un giovane paziente che ha cercato presso un allevatore un pappagallo imprintato (del tipo love-bird, detto anche inseparabile) e ha cominciato a portarlo con sé sotto la giacca (8). Questo gli ha permesso di superare la sua timidezza e di fare un incontro che è poi sfociato in un amore. Tuttavia, l’acquisizione di un pet da parte del paziente è rara e va seguita con attenzione. Non tutti i casi hanno l’andamento ideale di questa vignetta clinica quasi incredibile.
A più di un anno dalla morte del marito, Anna, una giovane giornalista, è così depressa da non poter lavorare. Dietro insistenza del medico, va da uno psichiatra a chiedere degli psicofarmaci ma l’infermiera la informa che il dottore tarderà mezz’ora. Nell’attesa Anna esce a prendere un caffè.
Vede un negozio di animali ed entra. Un pappagallo in gabbia le fa un fischio. Il negoziante dice ad Anna di stare lontana. Quel cenerino è terribile e aggredisce tutti; per dargli da mangiare bisogna mettere i guanti. Un vero guaio. Anna si avvicina e lo gratta. Il cenerino ci sta e non la becca, anzi cinguetta. Anna se lo porta a casa, gratis, senza nemmeno tornare dallo psichiatra. Oggi lei e Cocò sono inseparabili. La depressione è finita.


Per una veterinaria psicosomatica

A partire da questa esemplificazione, quali spunti di riflessione si pongono al veterinario che voglia dare importanza al rapporto tra il cliente e il suo animale d’affezione? Mi limiterò ad ipotizzare alcune costellazioni cliniche, tra le più consuete, e ad offrire alcune ipotesi su cui interrogarsi. È evidente che in alcuni dei casi seguenti non sarebbe opportuno verbalizzare al cliente l’interpretazione. Sarebbe però utile averla chiara in mente.

- L’umano vezzeggia il pet come un figlio
- Esiste forse un senso di colpa all’idea di poter avere un figlio vero?
- il pet infantasma (sta al posto di) un bambino morto o mai nato?
- Se il pet è un figlio immaginario, di chi è figlio sul piano dell’inconscio: del coniuge, del secondo partner o di un genitore con cui s’ intrattiene un legame incestuoso preconscio  o inconscio?
- II pet è aggressivo e ineducabile
- il pet sta al posto di una parte infantile del padrone, che non accetta le castrazioni simbologene che lo fanno crescere e lo umanizzano?
- Tutto questo avviene forse per negare il passaggio del tempo ed evitare il progressivo distacco di un figlio reale, o un’incapacità di pensare al futuro?
- La manipolazione suddetta è forse appaltata ad un solo membro della famiglia che è autorizzato a far trasgredire dal pet le regole ribadite da tutti gli altri?
- Il pet serve forse ad evitare il rapporto con altri esseri umani?
- Il  pet è utilizzato inconsciamente da una coppia insoddisfatta che lo mette in mezzo, come si fa anche con i bambini, per evitare contatti affettivi e sessuali?
- II pet ha perso l’appetito o la sua vivacità
- il padrone ha disinvestito emotivamente il legame col pet dopo la nascita di un bambino o di un amore?
- Se i sintomi fisici e psichici del pet sono stati ignorati a lungo, esiste ora il rischio che siano ignorate le prescrizioni terapeutiche ?
- Il pet è trattato come una bambola o un pupazzo che deve rinunziare del tutto alla sua natura animale?
- L’ umano tiranneggia o maltratta il pet
- L’umano sposta forse sul pet il rancore per un torto subito, o il rifiuto inconscio nei confronti di un figlio tossicodipendente o gravemente problematico (9).
- Il pet rappresenta forse il genitore dell’umano con cui realizzare la ripetizione del rapporto genitore-figlio, anche a ruoli alternati?
- II pet è continuamente malato nonostante le cure del veterinario?
- Il pet vive in una famiglia carica di conflitti e tensioni e finisce per farsene carico somaticamente come un parafulmine vivente?
- In questo caso il veterinario è in grado di formulare l’ipotesi e suggerire alla famiglia una terapia sistemico-relazionale?
- La famiglia è in grado di dare significato a questa ipotesi?

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