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FUTURI PSICOLOGI A TEATRO di Renata Biserni

L'inconscio non è soltanto linguaggio, ma drammaturgia, vale a dire parola "recitata", azione parlata ai limiti del grido e del silenzio come scrive Starobinski in Amleto e Freud.
Non lontano dalla spiaggia di Trezene, dove il corpo del principe Ippolito fu straziato a causa della maledi­zione di suo padre, su una collina da cui s'intuisce il sen­tore del Mar Egeo, sorge il grande teatro di Epidauro.

La natura, che qui è parte integrante dello scenario, è in per­fetta armonia con l'ampia cavea e l'orchestra circolare opera di Policleto il Giovane. Lì accanto, a poche centi­naia di metri, oltre a un tempio dedicato ad Atena Cissea (cinta di edera), allo Stadio, all'Albergo per i pellegrini e a un Edificio Termale, sorgeva - oggi ne rimangono sparsi resti mentre il teatro è intatto e ben funzionante -il tempio di Asclepio, il dio della medicina. Figlio di Apollo e di una mortale, Asclepio fu affidato dal padre al Centauro Chirone che lo iniziò ai misteri dell'arte medica, nella quale divenne ben presto abilissimo. Tanto abile che - avendo ricevuto in dono da Atena il sangue colato dalle vene della Gorgone - seppe utilizzarlo per restituire la vita ai morti. Anche il giovane Ippolito - Il più splendido astro di Atene -morto prematuramente e soprattutto ingiustamente, beneficiò di questo trattamento.
Zeus, di fronte a tutte queste resurrezioni, temendo che Asclepio con i suoi poteri sconvolgesse l'ordine del mondo, lo fulminò. Per fortuna la sua arte non scomparve con lui e, partendo da Epidauro, si dif­fuse in tutta la Grecia e la Magna Grecia. Gli Asclepiadi - famoso fra tutti Ippocrate di Kos - gettarono le basi per quella che sarebbe diventata la medicina scientifica occidentale. A Epidauro sembra non esistesse dicotomia fra soma e psiche e l'uomo era preso in carico nella sua interezza: il corpo, dopo essere stato purificato con appositi lavacri, disintossicato con le erbe medicinali rac­colte nella vulcanica penisola di Methana, era affidato alle cure magico-scientifiche di Asclepio e dei suoi adep­ti; la cura della psiche, invece, era primariamente demandata al rito del teatro che, attraverso il meccani­smo della catarsi, la purgava rendendola pura al pari del corpo. I poeti tragici del V secolo, periodo in cui la drammaturgia raggiunse l'apogeo, erano artisti, non filo­sofi che scrivono opere drammatiche, anche se Euripide a volte corre il rischio di avvicinarsi a tale categoria, tanto che Nietzsche gli imputa di aver ucciso la tragedia. La mente del drammaturgo era influenzata da fatti con­creti come il patriottismo locale, i pregiudizi o gli atteg­giamenti religiosi, le problematiche legate alle guerre di conquista, le carestie e quant'altro. Sotto tutte queste influenze, l'artista rimaneggiava la storia usando imma­ginazione e creatività fino a renderla opera poetica. Il pubblico rispondeva perché si sentiva rappresentato e si riconosceva nei personaggi e nelle tematiche. Il grande teatro tragico, oltre ad avere funzione religiosa e aggre­gativa costituiva in un certo qual modo una forma di terapia di gruppo ante litteram. Era - potremmo dire con riferimento a Jung - " un’ istituzione per l'elaborazione pubbli­ca dei complessi*. Leggiamo nel saggio junghiano "I preli­minari alle fantasie di Miss Miller": 
"Il godimento procurato da una commedia o da un intreccio drammatico che si risolve feli­cemente, proviene dall'identificazione dei priori complessi con l'azione scenica; il godimento della tragedia nasce in virtù del senti­mento raccapricciante e insieme benefico di veder accadere agli altri ciò che minaccia noi stessi.'2-  Per lo zurighese, va ricordato, i complessi "sono fram­menti psichici i quali devono la loro scissione a influssi traumatici o a certe tendente incompatibili. (...) interferiscono con l'inten^io-ne della volontà e disturbano l'attività della coscienza; provocano disturbi della memoria e bloccano il processo di associazione; e ancora "affiorano e scompaiono obbedendo a una loro propria legge; ossessionano temporaneamente la coscienza oppure influen­zano in maniera inconscia la parola e l'azione".?

 

Il complesso appartiene alla specificità dell'individuo e in tal senso promana dall'inconscio personale ma poi­ché s'innesta sempre su figure archetipiche, si colloca nell'inconscio collettivo. Essendo autonomi i complessi, anche il processo identificativo lo sarà. In tal senso anche se Jung non lo esplicita, possiamo ipotizzare che avesse in mente un qualche tipo di similitudine fra il lavoro analitico e il tea­tro, visto che per lui una delle funzioni dell'analisi è quel­la di collegare fra loro i complessi, e i complessi con l'Io - anche l'Io viene visto come un complesso - al fine di raggiungere la padronanza del Sé. Non c'è dubbio che anche per Freud il rapporto dello spettatore con quanto accade sulla scena sia regolato dal meccanismo dell'identificazione. L'accezione è tuttavia riferita, coerentemente con la sua teoria, alle vicissitudi­ni pulsionali. I personaggi del teatro, nell'ottica freudia­na, offrono allo spettatore un supporto e un'identità, un mezzo per dire ed essere qualcosa d'altro, una maschera che consenta ogni sorta di metamorfosi e camuffamen­to:".Lo spettatore vive troppo poco intensamente,  si sente "misero, al quale nulla di grande può accadere" da tempo ha dovuto soffo­care, o meglio rivolgere altrove, la sua ambizione di porre se stesso al centro della macchina mondiale, vuole sentire, agire, plasma­re a sua volontà: in breve essere un eroe; e gli autori e attori tea­trali glielo consentono permettendogli di identificarsi con un eroe. (...) nulla si oppone al godimento di sentirsi grandi, nulla vieta di cedere senza timore a moti repressi come il bisogno di libertà reli­giosa, politica, sodale e sessuale, e di sfogarsi in tutte le direzioni nelle varie scene grandiose di cui si compone la vita colà rappre­sentati.4 Che si tratti soltanto di ludo, è la premessa del contratto: nell'assistere a una rappresentazione teatrale, "il principio di realtà" può lecitamente risultare momen­taneamente sospeso. E' cosa nota che il padre della psicoanalisi nel formu­lare la sua teoria, abbia attinto a piene mani dagli scritti dei grandi autori tragici. Anche se la sua riconoscenza non sempre è stata esplicitata, sappiamo che li conside­rò dei veri e propri precursori che sembravano aver saputo da sempre quanto egli andava scoprendo con il nascente metodo psicanalitico, in se stesso e nei suoi pazienti. L'edipo freudiano, non va dimenticato, prima di esse­re tale è un'opera di teatro. Il suo autore, Sofocle, ate­niese della contea di Colono Hippios è stato uno dei più grandi autori tragici della storia. "La parola di Sofocle è parola divina" .s La scrittura sofoclea ci turba, ci esalta e ci commuove ma è solo grazie a Freud che nella vicenda dell'eroe tebano - l'eroe che troppo smisuratamente interpreta l'oracolo - abbiamo potuto rilevare tracce della vicenda personale di ciascuno di noi, il nucleo cen­trale di molte nevrosi e più in generale dello sviluppo psichico dell'uomo. Il metodo stesso, che in seguito avrebbe dovuto chia­marsi psicoanalisi, inizialmente venne designato come "catartico", proprio nell'accezione aristotelica. Fra gli allievi di Freud della prima ora, è il ventenne Otto Rank a riprendere il tema dell'incesto in riferimento al teatro, alla poesia e alla leggenda. Nel farlo ricalca la strada tracciata dal maestro - questi scritti prima di essere pubblicati erano oggetto di relazione ai famosi mercoledì a Bergasse, 19 - aggiungendo considerazioni sul rapporto incestuoso fra fratello e sorella e su quello con la matrigna. In questo caso il testo di riferimento è il Don Carlos di Schiller.

 

La parte più originale di tale saggio mi sembra quella in cui l'autore accenna al "com­plesso paterno" di Shakespeare e a come il Bardo, pro­prio nel tentativo di liberarsi della sofferenza psichica da esso causata (che per altro avrebbe potuto impedire un sano lavoro del lutto), sia stato spinto alla stesura dell’Amleto: "Shakespeare scrisse I'Amleto subito dopo la morte del padre, un evento questo della massima importanza nella vita di un individuo, quindi in pieno lutto, nella reviviscenza - ci è leci­to supporre - delle sensazioni che provava per il padre. Molto pro­babilmente dopo la morte del padre, Shakespeare, come tutti colo­ro per i quali questo complesso è stato di una certa importanza nel­l'infanzia, può essersi rimproverato di non essere stato abbastan­za affettuoso con lui, di essere stato addirittura rude, di aver arre­cato torto a un padre che non meritava tale odio, fino a giungere persino a ritenere che tale odio ne avesse causato la morte. Questi dubbi circa la giustificazione del suo odio infantile sono natural­mente più che fondati in quanto la vera radice di esso era ed è inconscia".6  In una lunga nota a pie pagina dello stesso scritto, curiosamente apprendiamo che Freud nutriva un certo interesse per gli attori e per la loro particolare psicolo­gia tanto da arrivare a stabilire un nesso fra l'agorafobia e la così detta "febbre della ribalta", che designa come la tipica nevrosi dell'attore. L'unico altro esempio degli interessi di freudiani per l'argomento, ci viene fornito dalla corrispondenza (pub­blicata a Londra nel 1960) tra lui e Yvette Guilbert, la grande diseuse che nel 1931 gli chiese di esprimere la sua opinione sulla psicologia dell'attore. Freud, pur rispondendo amabilmente alle missive dell'attrice, non volle o non seppe approfondire il discorso, apportando come giustificazione "che in fin dei conti se ne sa così poco.."Peccato non abbia sentito il desiderio di saperne di più! A parte il mancato - e tuttora mancante - approfon­dimento sulla psicologia dell'attore, il riferimento all'e­sperienza teatrale e ai suoi meccanismi entra nel lin­guaggio della psicoanalisi come una delle metafore fon­danti. Il suo effetto - scrive Fausto Petrella - sta nel consenti­re di trascrivere in un linguaggio perspicuo, teorico e insieme configurativo, l'esperienza analitica, con l'intento di formulare modelli di funzionamento, che giustifichino e rendano intelligibili certi suoi aspetti specifici*'.Nel saggio del 1905 precedentemente citato, il cui eloquente titolo è "Personaggi psicopatici sulla scena", Freud indica chiaramente la finalità metapsicologica del suo interesse per il teatro, che in definitiva sarebbe quel­la di comprendere come il dramma riesca "a far scaturire fonti di piacere e di godimento dalla nostra vita affettiva, allo stes­so modo che il comico, il motto di spirito e simili, lo fanno sgorga­re dalla nostra attività intellettuale la quale, per altro verso, aveva reso inaccessibili altre fonti" ? I sostantivi teatro, palcoscenico, copione, battuta, ricorrono nei lavori di numerosi altri autori psicoanaliti­ci. Esemplare fra tutti è Joyce McDougall che sceglie primariamente il teatro come metafora della realtà psi­chica, e ne sottolinea il valore euristico. Ad esempio, per definire la possibile origine dei disturbi psichici, parla di " teatro dell'Interdetto", di "teatro dell'Impossibile" o di "teatro Transizionale". Quando si riferisce ai disturbi psicosomatici chiama in causa "Teatri del corpo" o "Sipari ermeticamente chiusi sulla scena psichica". Nel far ciò, come lei stessa scrive, prende  le mosse da Anna O. - la prima paziente della storia della psicoanali­si - che sul finire del 1800 definiva "II mio teatro privato" le libere associazioni emerse durante la sua terapia con Breuer.

 

Per la McDougall l'analista deve comprendere che è un teatro, quello che i suoi pazienti vogliono divi­dere con lui, un teatro in cui è invitato a impersonare parti diverse. Egli tuttavia, a differenza di Breuer, teoriz­zato dalla parte assegnatagli da Anna O., deve tentare di osservare il proprio teatro interiore e di interpretarlo nel migliore dei modi prima di essere in grado di interpreta­re quello dei pazienti.10 Se gli analisti spesso hanno parlato del teatro, il teatro, da sempre, ha parlato di problematiche psicologiche, in particolare della follia; l'ha messa in scena accogliendola nelle sue manifestazioni più eclatanti, in un tentativo di elaborazione pubblica che le conferisse senso e dignità. L'antichità classica fornisce i moduli del vendicatore reso folle dalla coscienza e dal rimorso - il matricida Oreste perseguitato dalle Erinni - o dell'eroe poderoso vinto da una furia incontrollabile (un complesso auto­nomo?) che momentaneamente ottenebra ogni virtù e valore come accade a Eracle che fa strage dei suoi cari dopo averli salvati, o quello dell'eroe privato del senno dalla divinità, ridotto ad una gaia e irresponsabile inco­scienza, come l'Aiace sofocleo. Anche nel Medioevo e nel Rinascimento, il tema della follia trova la sua ragion d'essere nelle rappresentazioni. In Francia, ad esempio, si celebravano sotto l'egida di questa o quella chiesa le così dette "Fetes des fous", vere e proprie drammatizzazioni nelle quali veniva esaltata una sorta di pazzia "buona" considerata dono divino e quin­di auspicabile, distinta da una "cattiva", vista come malattia e perdizione; da quest'ultima si dovevano pren­dere le distanze ricorrendo magari all'esorcismo o al fuoco purificatore del rogo. Il tutto rappresentato scenicamente con un certo realismo. Gli stessi temi si ritro­vano nelle feste secolari: in particolare era famosa quel­la parigina detta degli "Eftants sans soucì"dove dei veri attori professionisti recitavano vestendo i panni di Princes des sots o, in travestimento femminile, di Mére-folle La recita della follia continua nel grande teatro ingle­se dell'età di Shakespeare. Tra tutti i personaggi che ne risultavano affetti va sicuramente ricordato \\fool, il buf­fone, il matto, praticamente ubiquitario nei palcoscenici dell'epoca. Figura composita e complessa, era catalogato come creatura dal cervello menomato o balzano - non si saper quale accidente - o che comunque, come tale doveva comportarsi per contratto.Individuo paradossale, "il fool viene costantemente definito per via di ossimori"nscrive Vanna Gentili - giacché la sua furbizia-arguzia-malizia o addirittura saggezza, contra­stano con quell'irrinunciabile dato di partenza. Più o meno nella stessa epoca i folli facevano bella mostra di sé anche sui palcoscenici della Commedia dell'Arte. Era all'incirca il 1589 quando Isabella Andreini fece magistralmente della pazzia il suo cavallo di batta­glia. Il suo monologo dell'insania - un po' scritto da lei stessa un po' improvvisato secondo i canoni del genere - era aperto a infinite variazioni a seconda dei luoghi e del pubblico e certamente potremmo aggiungere, dell'u­more dell'attrice stessa. "Parla in modo esagerato - testimo­nia Flaminio Scala, vero e proprio cronista dell'epoca -contro amore e fortuna, via via perde ogni referente e, come Ofelia nel suo lutto, dissennatamente elenca brani di realtà caoticamente accostate, vocalizzando e, sempre come Ofelia, cantando e forse anche dannando" .Sul versante maschile Francesco, marito di Isabella, simmetricamente, inventa e mette in scena un'altra paz­zia, centrata non più sulla passione amorosa ma sulla vanagloria, quel carattere spagnoleggiante tipico dell'e­poca che si connotava con ogni sorta di vanterie ed eccessiva considerazione delle proprie doti.

 

Con il suo Capitano Spavento, Francesco Andreini non esita a porre in ridicolo quel tipo di distorta psicologia che oggi potremmo far rientrare nella categoria dei "disturbi narcisistici di personalità" messi in evidenza da Kohut. Dunque pazzia d'amore di Isabella versus pazzia del prestigio mondano di Francesco; femminile la prima, maschile la seconda, secondo lo stereotipo dell'epoca. La rappresentazione della follia non si esaurisce certo qui, la troviamo a seguire nel teatro di ogni epoca. La lista dei "folli" che hanno calcato con successo e mae­stria le scene, è interminabile. Tra tanti, non si possono non ricordare il Ciampa del Berretto a Sonagli l’Enrico IV del nostro Pirandello o La Folle de Chaillot eLes Bonnes del teatro francese. Cesare Musatti, uno dei padri fondatori della psicoa­nalisi italiana nella sua raccolta di saggi "Psicanalisti e pazienti a teatro, a teatro", di cui abbiamo parafrasato il titolo, racconta di essere stato folgorato dall'idea di scri­vere un libro che rintracciasse tutti i possibili canali di scambio, punti di contatto fra la psicologia e il teatro ma che dopo un primo entusiasmo gli sembrò un'impresa veramente ardua, tanto che desistette dal progetto; e infatti scrive: " Una vita ci vuole, una vita! Per rintracciare tutti i canali che sì possono stabilire, di scambi e di comunicazioni fra teatro e psicoanalisi” Musatti purtroppo non ha scritto quel saggio ma ci ha lasciato molte interessanti considerazioni. Iniziato pre­cocemente all'arte scenica dal padre musicista e dallo zio ,grande conoscitore e studioso di Goldoni, in tutta la sua lunga vita ha subito la fascinazione del teatro e pur aven­do scelto professionalmente la via della psicoanalisi, con il teatro ha continuato a flirtare in vari modi. E' stato amico di scenografi, attori e commediografi e lui stesso si è cimentato, con interessanti risultati, nella dramma­turgia. Sempre in prima fila in occasioni in cui i due ambiti venivano momentaneamente accostati, sosteneva - con veemenza - che c'è un aspetto teatrale nel lavoro psicoa­nalitico e addirittura che fra analista e attore, fra regista e analista, si possono riscontrare insospettabili punti di contatto. Secondo Musatti l'analista all'interno del setting l'affinità con il luogo e lo spazio del teatro è evidente - recita dentro di sé, improvvisando ogni volta che assu­me la connotazione psicologica che il paziente trasferisce su  di lui. "L'analista", scrive Musatti, (dicendo esplicitamente quello che la McDougall accenna soltanto) "fa l'attore con un copione obbligato che gli è dato dalla situazione dell'analisi, dal modo in cui l’analisi procede. Però fa anche l'attore che improvvi­sa, che deve immaginare la situazione vissuta dal paziente e deve impersonare il personaggio che corrisponde alla vita del paziente''.14 Tale capacità mimetica - Aristotele è stato il primo a descriverla - che per gli attori dovrebbe essere la conditio sine qua non del mestiere, non è poi così ovvia rispetto al lavoro dell'analista. Appare tanto più sorprendente se a invocarla, come nel nostro caso, è un analista rimasto sempre nell'ortodossia freudiana: altro che schermo neutro! L'operatore della psiche descritto da Musatti, per la sua capacità di adeguarsi alle esigenze mutevoli di un mutevole e multiforme pubblico, potrebbe appartenere a pieni titoli alla genia dei grandi comédien e dei Comici dell'Arte. Il condizionale non è usato a caso. Vero men­tore per Musatti è stato sicuramente Pirandello e nei suoi scritti vi fa spesso riferimento. È Pirandello che dice, attraverso i suoi personaggi,"noi non siamo uno, siamo tanti” è sempre Pirandello che nei panni di Vitangelo Moscarda (Uno, nessuno e centomila), arriva a una con­vinzione che lo sconvolge: l'uomo possiede un'identità che vorrebbe unitaria ma è condannato a vivere le infi­nite personalità che gli altri gli attribuiscono.

 

Con parole di Winnicott potremmo tradurre "che l'individuo è intrappolato in una serie di falsi Sé". Come Musatti, anche Donald Winnicott affermò di essere un attore mancato. Nella sua biografia leggiamo che da giovane si dilettava a intrattenere i compagni di college con letture drammatizzate e vere e proprie messe in scena e che, se non avesse scelto la psicoanalisi, gli sarebbe piaciuto fare l'attore comico in un teatro di varietà. "Spesso gli riusciva difficile" - scrive il suo biografo Adam Phillips -"non utilizzare il linguaggio dello spettacolo - sincronia, ruolo, scenario e così via - nei suoi discorsi teorici, e la figura dell'attore saltava fuori costantemente come una presenza inopportuna" . Winnicott non fece l'attore ma certamen­te qualcosa della sua primitiva passione la mantenne imperniando sul gioco la sua teoria della psiche. Vale qui la pena ricordare che nella lingua inglese i termini "gio­care" e "recitare", sono sinonimi; il nostro termine "atto­re" si traduce con actor e anche con player. Il sostantivo radicale play significa prioritariamente "gioco", il verbo to play "giocare" e quindi player e anzitutto "colui che gioca, il giocatore". L'area semantica del verbo e dei sostantivi comprende anche i significati di "suonare e suonatore". Winnicott, forse a differenza di ogni altro analista, escludendo J. L. Moreno ma in quell'ambito il discorso è diverso, sembra aver usato il teatro non solo come meta­fora ma anche come vero e proprio strumento operati­vo. Lo ha certamente fatto nel lavoro con i bambini e in qualche misura anche in quello con gli adulti. In più di un'occasione ebbe a dire e a scrivere che la psicoterapia è primariamente educazione o rieducazione al gioco: "La psicoterapia ha luogo dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del parente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il parente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace".16 Dati tanti illustri predecessori, per i futuri psicologi prendere contatto e familiarità con il linguaggio del tea­tro, può costituire un'occasione per cogliere in vivo la complessità della psiche. Usando questa chiave, la soffe­renza psichica può essere letta non solo come risultato di patologie ma anche come espressione di complessità e molteplicità. "Abbiamo un teatrino interno. E se riusciamo a superare il preconcetto di una persistente unità dell'Io e a vedere effettivamen­te tutto quello che avviene in noi stessi, siamo, e restiamo perpe­tuamente a teatro".

 

1)     Euripide, Ippolito, Rizzoli, Milano, 2000, p. 119.
2)   Jung C.G., "Preliminari delle fantasie di Miss Miller", in Simboli della trasformazione (1912/1952), in Opere, vol. V, Boringhieri, Torino 1992, p. 48.
3)    Jung C.G., Determinanti psicologiche del comportamento umano (1937), in Opere, cit., 1976, vol VIII, pp. 139-140.
4)  Freud S., Personaggi psicopatici sulla scena (1905), in Opere, vol. V, Boringhieri, Torino, 1989, p. 232.
5)   Schlegel S., in Sofocle, Edipo Re, intr. di F. Rella, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 22.
6)     Rank O., Il tema dell'incesto (1912), Sugarco Edizioni, Varese, 1989, p. 146
7)   
 Gombrich E.H., Freud e la psicologia dell'arte (1967), Einaudi, Torino, 1992, p. 36.
8) Petrella E. 
La mente come teatro, Centro Scientifico Torinese, Torino, 1985. p. 25. Per un approfondimento dei nessi fra metapsicologia freudiana e teatro, si rimanda alla lettura del saggio sopra indicato.
9)  Freud, S. op. cit., p. 231.
10)  McDougall, 
Teatri del corpo (1989), Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990.
11) Gentili, V., La recita della follia, Einaudi, Torino, 1978, p. 48.
12) Scala E, in Franca Angelini, 
Storia del teatro moderno e contemporanea,
 Einaudi, Torino, 2000, p.      219.
13)  Musatti, C., Psìcoanalisti e pazienti a teatro, a teatro!, Mondadori, Milano, 1988, p. 9.
14)  Ibidem, p. 7.
15
)   Philipps, A., Winnicott, biografia intellettuale (1988), Armando Editore, Roma, 1995, p. 40.
16)  Winnicott, D., Gioco e realtà (1971), Armando Editore, Roma, 1996, p. 79.
17)  Musatti, C., op. cit., p. 15.

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