"La voce era giovane e insicura ma spinta da una forza poco comune, un soffio che non finiva mai di espandersi.. ... nel vuoto di alcune note una leggera raucedine introduceva un profumo di sensualità ..... Non finiva mai". E ancora:"Il canto usciva come dettato dalla più libera ispirazione, le parole diventavano trasparenti. (. . .) Iniziò un dialogo con il pubblico, provò una voce, l'adottò dopo che un impercettibile mormorio l'ebbe accettata, la spinse fino in fondo. Gli spettatori l'acclamavano con brevi esplosioni che scoppiavano durante le pause e immediatamente si placavano. Il silenzio parlava per loro, era un'onda invisibile di cui lei si nutriva per ricaricarsi, produrre ed espellere, ancora e ancora quella voce". Umm Kalthum - a lei appartiene la voce di cui si parla - è stata la più grande cantante araba di tutti i tempi, conosciuta dal Marocco fino all'India come la stella d'Oriente. L'amò per la sua voce il poeta Ahmad Rami che ne racconta la storia e con lui l'amò tutto il mondo arabo, dal re Faruk al più umile beduino. Uomini e donne indistintamente. Fu anche attrice e la sua voce trasmessa alla radio era ascoltata, si dice, da oltre centoventi milioni di persone. Ahamad Rami, raffinato intellettuale, scriveva liriche struggenti per la sua musa e traduceva Khayyam, il grande poeta persiano che riprendendo gli antichi accenti dell'Ecclesiate e di Lucrezio, incita con i suoi versi all'ebrezza bacchica quale possibile consolazione di fronte alla finitudine umana. Ahamad Rami traduceva e scriveva versi di cui Umm Kalthum si impossessava con avidità, trasformandoli in suono puro. Letteralmente asservito al potere di quella voce, le rimase fedele per tutta la vita anche se non fu mai corrisposto. "Ti ho amata per la tua voce" è il titolo di una delle più belle canzoni che scrisse per lei. Dai lacci mortali orditi dal canto delle Sirene riuscì a salvarsi Odisseo, e riuscì a salvare l'equipaggio della sua nave, perché godeva della protezione di una grande Dea e perché Circe sovrana, Circe dalle trecce d'oro, Circe dalla voce divina, appunto, lo istruì in tempo, come recitano i versi di Omero: ''Alle Sirene prima verrai che gli uomini stregano tutti chi le avvicina. Chi ignaro approda e ascolta la voce delle Sirene, mai più la sposa e i Piccoli figli, tornato a casa, festosi l'attorniano, ma le Sirene dal canto armonioso lo stregano, sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri umani marcenti; sull'ossa le carni si disfano".
Odisseo sfuggì dunque a tale nefanda sorte grazie all'amore di una maga, ma molti naviganti prima e dopo di lui, non furono altrettanto fortunati. Anche Scheherazade, che nel tentativo di procrastinare l'ora della sua morte, affidò per "mille e una notte" alla sua voce la narrazione delle avventure di Sindbad, di Aladino, della bella Zobeide e della saggia Amina, in un certo qual modo, come una Sirena, ingannò lo sposo. Ma con quel raggiro, è storia nota, salvò se stessa e le incolpevoli fanciulle di Samarcanda da un tragico destino. Inoltre, e questo è l'aspetto che ci interessa di più, liberò, psicoterapeuta ante litteram, il Sultano suo sposo dalla nevrosi ossessiva nella quale il tradimento di un'altra donna l'aveva precipitato. Le novelle di Scheherazade, vere e proprie "storie che curano", sembrano confermare quella "base poetica della mente" in cui si va ad inscrivere il potere terapeutico della narrazione, la potenza salvifica del cosmo immaginale di cui ci dice James Hillman e dove la voce - quella di Scheherazade la immaginiamo morbida ed esotica - riveste un'importanza basilare. Perché essa, la voce, prima di essere il supporto e il canale di trasmissione delle parole attraverso il linguaggio, (le storie che curano) è imperioso grido di presenza pulsione universale e modulazione cosmica. Eco, ninfa dei boschi, vide un giorno il bel Narciso e se ne innamorò; ovviamente non corrisposta visto che lui, poverino, dimorava perennemente nella fase del narcisismo primario e non poteva amare altri che se stesso. Tale amore irrelato decretò la rovina di entrambi: Narciso venne trasformato in un bel fiore odoroso e lei, la ninfa delle sorgenti, smise di nutrirsi, si consumò, si fece sottile fino a liberarsi delle membra e diventare mera sonorità, voce quintessenziale. Eco si trasformò in quella parte invisibile del corpo che opera nella spazio, come sostiene Eugenio Barba scrivendo della voce; il corpo, sempre secondo Barba, può essere definito la parte visibile della voce. Un altro mito, quello della bellissima Psiche, descritta da Apuleio, racconta che per molto tempo del suo sposo (Eros), la fanciulla non vide le sembianze. Ma ne udì la voce. L'invisibile marito si annunciò a lei la prima notte di nozze e la fece sua sotto forma di dolce suono che arriva alle sue orecchie. Suono che spaventa e nel medesimo tempo seduce. Ma la voce più 'mitologica' di tutte è senza dubbio quella di Orfeo. Si dice che sapesse produrre un canto così soave che le bestie feroci lo seguivano, gli alberi e le piante si piegavano verso di lui; e sapeva mitigare il cuore degli uomini più crudeli. Nel corso della spedizione degli Argonauti a cui partecipò, durante una tempesta riuscì a placare i flutti con il suo canto. E non solo, sempre cantando accompagnato dalla lira, mentre le Sirene cercavano di sedurre gli Argonauti, li trattenne, superando in dolcezza gli accenti delle ingannevoli fanciulle/pesce. Un'altra parte della storia, la più conosciuta, racconta che Orfeo, sempre accompagnato dalla lira, questa volta sconsolata, si spinse a impetrar mercé alle tartaree porte affinché gli venisse restituita la donna amata, sua unica ragione di vita. Nei versi del Poliziano, ascoltando quella supplica, Plutone, pieno di meraviglia, dice così:
Chi è costui che con sì dolce nota muove labisso e con tornata cetra? Io veggio fissa d'Ission la rota, Sisifo assiso sopra la sua petra e le Belide star coll'urna vota, né più l'acqua di Tantalo s'arretra, e veggo Cerber con tre bocche intento e le Furie acquetar al suo lamento" .
La voce è un grimaldello che apre i cuori più chiusi, perciò ad Orfeo, la sua Euridice, la Naiade (o Driade) uccisa dal morso di un serpente, venne prontamente restituita. Ma quella stessa voce gli fu fatale quando, perduta nuovamente la sposa, per sua insipienza questa volta, la usò per lanciare una terribile invettiva contro il gentil sesso. (Alcune fonti sostengono che dopo la morte di Euridice avesse addirittura iniziato ad amare gli uomini e a lui viene attribuita l'invenzione della pederastia). "Non c'è niente, scrive Mario Luzi, come la grazia un po' ispida e l'eleganza agretta dell'ottava polizianasca che illumini e oscuri subito dopo il quadro che ci presenta, che affermi una cosa e immediatamente dopo il suo contrario. Tale il voltafaccia di Orfeo. "Che sempre è più legger che al vento foglia (il cuore femminile) e mille volte il dì vuole e disvuole: segue chi fugge, a chi la vuoi s'asconde e vanne e vien come alla riva l'onde".
Le donne di Tracia che il Poliziano nella sua Fabula di Orfeo, riecheggiando Ovidio ed Euripide, trasforma in Baccanti, odono il suo canto di dolore e di sdegno, mentre scorazzano nottetempo nei boschi del monte Olimpo. Diversamente dal consueto, la voce ammaliatrice non sortisce su di esse alcun effetto, al contrario: sentendo così vilipeso l'amore muliebre, non esitano a ucciderlo alla maniera loro: col tirso e con pietre acuminate lo smembrano pezzo a pezzo, per offrirlo poi, vittima sacrificale a Dioniso/Bacco. Nella tragica notte in cui il corpo del grande cantore subisce lo scempio, il sacro monte risuona di voci disumane inneggianti al Dio dell'ebbrezza:
Ognun segua, Bacco, te. Bacco, Bacco, eu oè!
Il mito orfico ha ispirato grandi poeti e I sonetti a Orfeo costituiscono sicuramente il vertice della poesia di Rilke. Vale qui la pena rileggere i versi che raccontano della morte di Orfeo e di come, attraverso la distruzione del corpo per smembramento, sia diventato egli stesso Dioniso-Zagreus, il dio dei mutamenti e delle metamorfosi, permettendo agli umani di sviluppare, grazie al suo sacrificio, la capacità dell'ascolto: Ma tu divino, tu fino all'ultimo ancora cantatore, quando delle spregiate menadi ti colse la furia inturbinata, con l'armonia del canto sovrasti il loro grido, tu, bello, e dalle distruttrici si levò il tuo stesso canto creatore.
Non ci fu una che a te potesse distruggere testa e lira. Eppur lottarono frenetiche, e tutte acuminate pietre che verso il tuo cuore vennero scagliate dolci si fecero, e per te capaci divennero di udire.
Ti lacerarono infine, esse, da vendetta inseguite, mentre il tuo suono ancora indugiava in mezzo a leoni, a rocce, ad alberi, e ad uccelli. E lì tu canti ancora.
O tu, perduto Iddio! Tu, traccia interminata! Solo perché alla fine ti smembrò lacerante inimicizia siamo ora in grado d'ascoltare, siamo una bocca di natura.
Sempre il Poliziano, come l'Orfeo della sua fabula, esalta in un primo tempo la donna amata e subito dopo la maledice. In particolare, guarda caso, se la prende con il potere subdolo, invischiante della voce femminile e contro di essa scaglia i suoi versi: O canto di Serena maledetto che fra sì dubbi scogli m'hai tirato! (il richiamo alle Sirene omeriche è evidente) Sie maledetto il giorno e l'ora e 'l punto che mi condussi della morte al rischio. O sciagurat'a me, che ben fu' giunto al dolce canto, come 'l tordo al fischiai Miser'a me, che 'n 'si tenace vischio sanza rimedio alcun sono impaniato.
Nell'ottava che segue, il riferimento a Omero è ancora più esplicito:
Solevon già col canto le Sirene far annegar nel mare e naviganti; ma Ippolita mia cantando tiene sempre nel foca e miserelli amanti. Sol un rimedio truovo alle mie pene: chun'altra volta Ippolita ricanti. Col canto m'ha ferito e poi sanato, col canto morto e poi risuscitato.
Ben diversi sono i moti dell'anima suscitati dalla donna angelicata di Guido Cavalcanti. L'epoca e lo stile di dantesca denominazione, novo e soprattutto dolce, imponevano sublimità di sentimenti. In quella concezione dell'amore di tipo platonico, che conferiva alla donna sembianza d'angelo e funzione di tramite fra l'uomo e Dio, la voce diviene segno e attributo di spiritualità: Là dove quella donna appare s'ode una voce che le ven davanti e par che d'umiltà il su' nome canti sì dolcemente, che s'i 'l vo' contare, sento che 'l su' valor mi fa tremare; Nei versi di Michelangelo, al di là degli accenti stilnovistici, possiamo scorgere il vacillare dell'uomo di fronte all'inevitabile violenza di quel temibile uscire da sé, a cui espone (inevitabilmente) il rapimento amoroso e la paura che cedere al potere di Eros, possa incrinare e spazzar via tutti i precedenti punti di riferimento. Anche in questo caso il medium é la voce:
Un uomo in una donna, anzi un dio per la sua bocca parla, ond'io per ascoltarla son fatto tal che ma' più sarò mio.
"Amore e poesia ogni giorno", recita il verso posto all'inizio di Eternidades, la raccolta che Jiménez - uno dei grandi poeti spagnoli del novecento - dedica alla moglie. In Eternidades, vero e proprio libro dell'amore coniugale, le rime esprimono amore profondo ma anche serenità interiore. Qui il ricordo della voce della persona amata è un balsamo, un lenimento, non suscita tempestose passioni ma nostalgia e infinita dolcezza: La tua voce! La sentivo prima, pura, come quella fonte al vento, nel fresco del mattino. La tua voce! La sento adesso nel tramonto d'oro del mio sogno vivo, stella nell'ultima luce del sole. La tua voce! Pace del giorno nuovo al mio risveglio; soave notturno azzurro per il riposo ... La tua voce!
Abbiamo visitato immagini e figure della letteratura, del mito e della poesia in cui il suono emesso dalle corde vocali sembra coniugarsi irresistibilmente con Eros. E di conseguenza con il suo opposto. In tal senso scrive Carotenuto nel famoso Eros e Pathos. Margini dell'amore e della sofferenza":
"Laddove è presente un sentimento, prende vita e consistenza anche il suo contrario. Gli opposti, che con il loro interagire lacerano l'individuo, costituiscono il dinamismo segreto della vita. L'amore richiama dunque, anzi esige, la compresenza dell'odio".
Attraverso e per mezzo della voce, insieme alla passione amorosa, possono essere dunque veicolati il dolore, l'inganno e soprattutto Phobos, la paura, che per Jung rappresenta l'antitesi di Eros. La natura della voce incarna gli opposti, ha relazione con la vita e con la morte. Dal punto di vista della fisiologia è, secondo la suggestiva definizione di Eugenio Barba, prolungamento del corpo che con essa viene proiettato nello spazio e, in ugual misura appartiene alla psiche e da essa promana.
"Anche se la dovrai spesso piegare alle esigenze del personaggio, la tua voce deve conservare il proprio carattere. Dovrà esteriorizzare i moti della tua anima.
Così 'consigliava' Dullin ad un giovane aspirante comedién, nella sua pedagogia dell'attore. Dunque la voce è un processo psico-fisiologico. La potremmo perciò, a ragione, collocare in quello stadio per il quale Bion ha coniato il termine di protomentale; termine con il quale l'autore individua e descrive una particolare modalità di funzionamento della psiche presente e predominante nelle primissime fasi di sviluppo: "Io rappresento il sistema protomentale come qualcosa in cui il fisico e lo psicologico o mentale si trovano in uno stato indifferenziato". In sostanza, quello di Bion, è uno spazio totipotenziale in cui gli elementi fisici e psichici sono mescolati. Possiamo pensare che la voce permanga perennemente in quello stadio. Corrado Bologna, in un fantastico libro che sulla voce e della voce dice quasi tutto, la definisce prius biologico- ontologico:
"Prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per trasmettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da sempre origine, c'è come potenzialità di significazione, e vibra quale indistinto flusso di vitalità.
Seguendo questa direzione siamo portati a pensare che proprio attraverso la voce il bambino stabilisca il primo contatto con il mondo e che per mezzo di essa si formi il precursore del legame di attaccamento vero e proprio. Numerosi studi degli ultimi anni hanno stabilito che il sistema uditivo del bambino (a differenza di quello visivo che difetta rispetto alla coordinazione e l'accomodamento) è perfettamente funzionante fin dalla nascita. Il neonato è in grado di orientarsi verso la sorgente di una stimolazione sonora e si mostra sensibile all'intensità, all'altezza e alla complessità dei suoni. In particolare i suoni a bassa frequenza che somigliano strutturalmente alla voce umana elicitano un'attivazione massima. Questa sensibilità differenziale potrebbe giocare un ruolo importante nello sviluppo del legame affettivo tra il bambino e la madre. Tanto più che il bambino sembra essere attrezzato a percepire la voce già in fase prenatale. L'imprinting, per cucciolo d'uomo, data la sua inettitudine, sembra essere essenzialmente di natura vocale. A differenza dei piccoli di altre specie animali che fin dalla nascita sono in grado, oltre che di ascoltare ed emettere suoni, anche di muoversi autonomamente. Andando dalla psicologia comparata alla psicoanalisi possiamo pensare che la prima chatexis, il neonato la operi proprio nei confronti della voce della materna e perciò, su quel primo investimento libidico saranno modellarsi tutti i successivi. Attraverso le voci dei genitori, (è corretto includere anche il padre) il bambino interiorizza i loro incoraggiamenti, le loro minacce, dunque contemporaneamente l'idea di amore/passione e il principio di autorità. Anche se non viene annoverata tra le parafilie più comuni, quella della voce può farne parte. Infatti, come testimonia un certo "voyerismo telefonico" piuttosto diffuso nella vita quotidiana, può essere usata come oggetto parziale, utile a provocare eccitazione e soddisfazione erotica. Per chiarire il concetto, ancora una volta attingiamo dalla letteratura. Nel romanzo "Uccellini", scrive Anaïs Nin:
Le telefonava a tutte le ore per sentirla. Era come una canzone che lo attirava fuori da se stesso e fuori dalla sua vita. Tutte le altre donne erano cancellate dalla voce di lei.
Il protagonista del romanzo usa la voce della donna amata come un vero e proprio feticcio. L'ultima annotazione è sul significato e l'importanza che la voce riveste nel lavoro analitico. Nella psicoanalisi tradizionale, l'eloquio è spesso l'unico canale di contatto tra paziente e analista e soprattutto, come asserisce Lacan, il simbolico passa per la voce. Quell'holding restitutivo e ristrutturante che l'analista compie nei confronti del paziente è di natura prevalentemente vocale. La 'cura delle parole', definizione data della psicoanalisi da una delle prime pazienti di Freud, cerca di ricomporre trame spezzate, di apportare un senso, là dove è andato perduto o dove non sembra esserci mai stato. L'enfasi sulla voce è ancora più grande se a parlare è un ipnoterapeuta come il grande Milton Erikson:
"E voglio che tu scelga un momento nel passato in cui eri una bambina piccola piccola. E la mia voce ti accompagnerà. E la mia voce si muterà in quella dei tuoi genitori, dei tuoi vicini, dei tuoi amici, dei tuoi compagni di scuola e di giochi, dei tuoi maestri. E voglio che ti ritrovi seduta in classe, bambina Piccola che si sente felice di qualcosa, qualcosa avvenuto tanto tempo fa, qualcosa tanto tempo fa dimenticato".
Anche questa è una questione d'amore.
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