ESTATE, AUTUNNO, INVERNO, PRIMAVERA... E ANCORA ESTATE di Renata Biserni
Storia di un gruppo esperienziale e di supporto psicologico per le insegnanti di L’Aquila attraverso lo psicoplay
La città che voleva volare
Vite sospese
INTRODUZIONE
Quando le colleghe Anna di Quirico, Marianna Stinà ed io siamo arrivate a L’Aquila, a fine luglio 2009, erano trascorsi più o meno cento giorni dal sisma. Se consideriamo che gli interventi nelle emergenze, secondo la Protezione Civile constano di quattro fasi – previsione, prevenzione, soccorso, ricostruzione (in tutte è previsto l’intervento degli psicologi), il nostro lavoro si andava a inscrivere nell’ultima fase, quella della ricostruzione (Di Iorio, Biondo, 2009).
A cento giorni dal sisma, giungevano dai media valanghe di notizie allarmanti su L’Aquila; quello che abbiamo trovato è risultato essere peggiore delle aspettative e il termine ricostruzione del tutto fuori luogo. Il primo impatto, almeno per me, è stato molto duro, confesso di aver pensato con Chatwin “Che ci faccio qui?”. Fra l’altro da Aprile a luglio nella città era confluita un sacco di gente (“L’Aquila è piena di estranei, ci hanno presi in ostaggio”, ho sentito dire più volte), militari, Forze Dell’Ordine, esperti di ogni settore, associazioni di volontariato. Molti per aiutare, molti altri, come dimostreranno gli eventi successivi, per mettersi in mostra o anche solo per poter dire “io c’ero”. Bontà di intenti e generosità ma anche “sciacallismo psicologico” e tanta confusione! Il che aveva fatto nascere negli aquilani una comprensibile diffidenza. “E mo queste che ce vengono a insegnà?”, mi ha confessato in seguito di aver pensato, una delle maestre. Il nostro obiettivo, nell’ambito di un progetto preciso, era quello di attuare un primo intervento pilota su due gruppi di insegnanti – uno in città e uno sulla costa abruzzese (com’è noto molti di coloro che avevano perduto la casa erano “migrati” sulla costa – turisti involontari – spesso ospitati negli alberghi). Il progetto, come poi effettivamente è avvenuto, sarebbe continuato a partire dal mese di settembre ancora con le insegnanti, ma soprattutto con i bambini e gli adolescenti una volta iniziati i corsi scolastici. Si è pensato di partire dalle insegnanti in previsione del fatto che avrebbero dovuto accogliere di lì a poco un gran numero di ragazzi traumatizzati e le loro famiglie. Offrire uno spazio di contenimento psicologico e di elaborazione del trauma a una categoria che riveste nella collettività un ruolo tanto importante, ci è sembrato un buon punto di partenza. Effettivamente lo è stato. Nei mesi successivi abbiamo osservato la scuola trasformarsi in un vero e proprio cantiere della ricostruzione psicologica!
In quella prima fase il lavoro ha coinvolto due gruppi di circa 15 elementi ciascuno (maestre di scuola materna e primaria, esclusivamente donne) 3 volte condotti da Anna di Quirico con la sua modalità e 3 volte da me, entrambe affiancate da Marianna Stinà. In seguito abbiamo lavorato da sole su gruppi diversi.
L’intervento, accolto subito positivamente (la cosa non era per niente scontata), ha dato nel tempo risultati quantificabili, soprattutto in relazione alla ricaduta del lavoro delle maestre sulle classi.
Venendo alla mia modalità operativa, in fase preliminare ho messo a fuoco tre concetti guida, perfettamente interconnessi: gruppo, gioco, narrazione. Gruppo in riferimento alla tecnica psicodrammatica che è “esperienza di gruppo, vissuta in gruppo, dal gruppo e per il gruppo”(Schützenberger, 2003, p.30); ma anche come strumento di intervento nella dimensione sociale, nell’accezione di Kurt Lewin e secondo quella di autori appartenenti al filone psicoanalitico (Bion, Jaques, Kaës) che lo identificano come spazio reale e mentale, luogo di connessione fra emozioni, affetti e storia, fra dimensioni interne ed esterne. Sul gioco si fonda ancora la tecnica inaugurata da Moreno ma sono altresì illuminanti le parole di Winnicott quando afferma che la psicoterapia si svolge nella sovrapposizione di due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta e che:
“…è soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità […]. e solo nel giocare è possibile la comunicazione (Winnicott, 1974, p.102)".
Il gioco può farsi ambito di costruzione della narrazione che, in quanto espressione precoce e ben radicata nella storia dell’umanità, costituisce un elemento basilare del processo di ricostruzione di senso. Partendo da questo assunto la narrazione si configura come potente organizzatore del mondo interno (Ammaniti, Stern, 1991). In primis l’obiettivo era quello di liberare narrazioni, far scaturire racconti dagli eventi al fine di creare uno spazio di pensiero “pensabile” su ciò che era accaduto, e attivare la “ricostruzione”. Utilizzando il gruppo e il gioco.
Trattandosi di interventi brevi e circoscritti, mi sono avvalsa, oltre che dell’ esperienza di psicoterapeuta, di quella di conduttrice di gruppi didattici e di formazione. Il modello a cui ho fatto riferimento, riveduto e corretto per l’occasione, è stato lo psicodramma a orientamento dinamico. In alcuni momenti utilizzato solo come cornice, in altri a pieno titolo, sempre e comunque nel rispetto della classica scansione in tre tempi: riscaldamento, azione, discussione/condivisione. Tenendo conto dell’ambito in cui ci si doveva muovere, il tempo dedicato all’azione vera e propria, spesso è stato ridotto a beneficio della parte verbale, narrativa. Il tutto è avvenuto con naturalezza perché, come sostiene Leutz:
“Lo psicodramma è un metodo dalle molteplici possibilità. Contiene per natura elementi che appartengono alla pedagogia, alla psicologia dell’apprendimento, alla psicologia del profondo. Queste discipline sono compatibili con lo psicodramma senza che esso perda la sua originalità come metodo (Leutz, 1999, p. 19)".
Si è trattato in tutti i casi di psicodramma in situ cioè nel luogo reale in cui le persone svolgono la loro attività. Nella fattispecie l’edificio scolastico. In ogni fase del percorso ho integrato la tecnica psicodrammatica con il modello di terapia di gruppo proposto da Irvin Yalom (vedi schede in appendice al capitolo). Sopratutto alcuni concetti che specificherò nel corso della scrittura, hanno costituito una linea guida irrinunciabile. Dove è stato necessario, e spesso lo è stato, ho fatto incursioni in altri ambiti, quello della letteratura in particolare. Partendo da una base di lavoro comune per tutti i gruppi, ho inserito di volta in volta elementi nuovi caratterizzanti le situazioni reali, in continuo divenire. Ho incontrato in totale circa 180 insegnanti – di scuola materna e primaria, insegnanti di sostegno e del pre-scuola, un unico gruppo di un istituto superiore – suddivise in piccoli gruppi di 10, massimo 20 elementi. Malgrado la necessaria parcellizzazione, a posteriori mi è sembrato di aver lavorato con un unico grande gruppo e continuo a percepire l’esperienza nella sua unitarietà. Per questo motivo potrà accadere che qualcuna di loro si riconosca all’interno di un racconto situato in tempi che non le corrispondono o affiancata a persone che non conosce. Nell’esposizione, per evitare lungaggini e ripetizioni, ho scelto di riferire una sola volta lo svolgimento cronologico del lavoro con un gruppo. Per il resto, come ho già detto, mi sono soffermata sui temi del momento, sempre e comunque partendo da ciò che proponevano le insegnanti stesse, e di quello ho scritto.
Infine, come nel film di Kim Ki-Duk, anche nella mia storia il paesaggio naturale che, con le sue mutazioni stagionali scandisce la vita dei personaggi e la loro evoluzione psicologica, ha un ruolo preciso. L’attenzione alla circolarità delle stagioni mi ha permesso di dare priorità in ogni fase del lavoro, ad interventi atti a ricostituire il senso di continuità dell’esperienza psicologica tragicamente interrotto dal sisma.
Nei racconti delle insegnanti, insieme alla paura e alla rabbia, è spesso emerso lo smarrimento per quel tempo, come direbbe Amleto, “fuori di sesto”. Guidarle nell’elaborazione del trauma ha significato anche e soprattutto aiutarle a riallineare il loro tempo interno. Qualche volta con successo. Grazie al gruppo, al gioco, alla narrazione.
Gli aquilani sono molto legati alla natura. La città è circondata dalle montagne, c’è sempre un’aria leggera e il cielo ha un colore particolare. Aria e cielo sono gli unici elementi che il terremoto non ha potuto modificare. Spesso quell’aria e quel cielo mi hanno dato l’energia per affrontare tanto dolore e distruzione.
ESTATE
A cento giorni dal terremoto.
In città
Il lavoro a L’Aquila è iniziato per me il 23 luglio nell’Aula Magna dell’ITIS, un edificio scolastico progettato da Paolo Portoghesi negli anni ’70, con reali criteri antisismici visto che non ha riportato danni. Strutturato in una serie di moduli cubici di cemento, sovrapposti, dagli angoli smussati, è ubicato nella parte più alta della città da cui si intravede lo sfacelo sottostante. Quella prima mattina mi è sembrato bruttissimo, con il tempo l’ho trovato originale se non addirittura elegante. Malgrado la cattiva impressione, la sua solidità mi ha evocato qualcosa di positivo e pertinente alla situazione: la resilienza. Termine derivato dalla metallurgia, indica la capacità di un metallo di resistere alle forze che vi vengono applicate. Per un metallo la resilienza rappresenta il contrario della fragilità (Trabucchi, 2007). È così anche in campo psicologico, la persona resiliente è l’opposto di quella vulnerabile. Subito mi sono chiesta quanta resilienza avessero le insegnanti e che in ogni caso avrei desiderato lavorare con loro per potenziarla. Avrei potuto per esempio incominciare prendendo a prestito le belle parole di Seneca “Le difficoltà rafforzano la mente così come il lavoro irrobustisce il corpo”; oppure affermare che gli esseri umani sono “progettati” per affrontare con successo difficoltà e stress e che la norma è la resilienza, non la fragilità. Ovviamente non l’ho fatto ma l’idea mi ha permesso di spostare il focus sulla mia personale resilienza. A questo punto dovrei, secondo la prassi, presentare l’ intervento attraverso la cronistoria di quei primissimi giorni (il lavoro è stato fatto, come da copione) ma poiché dalla mia mente emergono più che altro immagini un po’ caotiche – il terremoto, neanche a dirlo, è generatore di caos – preferisco concentrarmi su quelle, partire da quel caos. Il resoconto “ordinato” sul lavoro lo farò in seguito. Per cominciare, una condivisione: quel primo giorno ho sentito la mia resilienza, che ritenevo ben salda e strutturata, vacillare. Sono arrivata a L’Aquila spavalda: “Io so lavorare con i gruppi, ho una buona esperienza, questo sarà come tutti gli altri, non sarà difficile”. E invece lo è stato. Ho capito subito che non sarebbero bastati l’ascolto empatico, il rispecchiamento, i giochi psicodrammatici (utili in altre circostanze, qui mi sono sembrati risibili) ma che occorreva qualcosa in più. Sono arrivata spavalda, consapevole sì del fatto che quelle persone avevano subito un trauma ma idealizzando il mio ruolo di “guaritrice”; senza calcolare che le insegnanti erano in tante, si conoscevano fra di loro, erano arrabbiate con la natura e arrabbiatissime con gli uomini ma che prima di tutto avevano un estremo bisogno di entrare in contatto con le loro emozioni negative, per poterle elaborare. Nei miei confronti avevano aspettative altissime in questo senso. Con l’aiuto di Marianna ho cercato di non deluderle. Per come mi sono sentita alla fine della prima giornata, loro devono essersi sentite molto meglio. L’aver potuto analizzare in corso d’opera la reale difficoltà del compito mi ha permesso di correggere il tiro ridimensionando il mio ruolo e acquisendo la necessaria distanza; nel prosieguo del lavoro ne ho sempre tenuto conto. Di quelle prime giornate così complesse, mi limiterò a ricordare un piccolo atto psicodrammatico che a un certo punto ha permesso a tutte di prendere un po’ di respiro. Visto che si stava creando un campo in cui, attraverso i racconti i contenuti negativi rischiavano di sommergere il gruppo, ho proposto un’azione. Abbiamo preso un sacchetto di carta dove ognuna di loro, a turno, avrebbe potuto “gettare” a mo’ di pattumiera, le emozioni più distruttive. Tutte lo hanno fatto con serietà e convinzione, motivando la scelta dell’affetto negativo da lasciar andare. Nel sacchetto è stato messo:
“Il senso di colpa nei confronti dei miei figli perché subito dopo la scossa ho detto loro di scendere senza pensare che le scale avrebbero potuto non esserci più; la rabbia verso mio marito che si è fatto prendere dal panico e non riusciva a muoversi; l’odio verso quelli che ci hanno detto che non c’era pericolo, che la grande scossa non ci sarebbe stata; senso di colpa perché la mia casa è integra e quella di tanti altri è andata distrutta; senso di colpa verso mia figlia che aveva paura e voleva uscire, io l’ho rassicurata e lei è andata a coricarsi, avrebbe potuto non esserci più, come i figli di Giustino Parisse".
Ancora senso di colpa perché la notte del terremoto non ero a L’Aquila e non ho potuto condividere l’esperienza con gli altri; la disperazione per tutti quei giovani che sono morti. E tanto altro ancora. Il sacchetto, pesantissimo, è stato chiuso ermeticamente e Marianna che la sera stessa sarebbe andata a Roma è stata incaricata di svuotarlo nel Tevere. Nella fase di sharing tutte hanno affermato di sentirsi più leggere ma soprattutto più intime. Quel semplice atto simbolico è stato molto potente, averlo fatto insieme le ha avvicinate più delle parole. Il sacchetto è stato effettivamente svuotato nel fiume da Marianna, con l’aiuto del suo fidanzato visto che, data la pesantezza, da sola non ce la faceva. Nell’incontro successivo ne ha riferito al gruppo che, divertito, ha voluto conoscere i dettagli dell’operazione.Di quelle prime giornate vorrei ricordare anche alcuni frammenti di storie, ad esempio quelle che riguardano gli anziani. Racconta una maestra:
“…per loro il trauma è più grande che per noi perché la casa è la somma della loro vita. Perderla è perdere la vita stessa. Alcuni muoiono perché non ce la fanno a superare la perdita, soprattutto quelli che sono nati, cresciuti e invecchiati qui. Questa città è il cuore pulsante di un vasto territorio, è stata scelta, e ora è come se quel cuore si fosse spezzato”.
Dunque gli anziani muoiono, spesso di infarto, non per la paura come si potrebbe pensare, ma per il dolore. “Di crepacuore”, si dice dalle mie parti. Muoiono per la perdita della casa:
“…perchè quelli come mio padre hanno impiegato una vita per costruirla, affinchè restasse ai figli, ai nipoti. Il pensiero che non resterà niente, che tutto è andato perduto è troppo doloroso per loro”.
Muoiono per la perdita della città:
“…tutti i giorni faceva la passeggiata sotto i portici, due chiacchiere al bar con gli amici, estate e inverno e ora non ha più un posto dove andare e sa che non lo avrà mai più. Mio padre non ha parlato per un mese e mezzo”.
Scrive Elena Liotta:
“Introducendo l’idea della misura psicologica dello spazio […] si potrà osservare in ciascun individuo il suo modo di strutturarlo concretamente […].Possiamo immaginare quanto sia destabilizzante, sul piano psicologico, dover rinunciare, a volte anche all’improvviso, al proprio assetto di vita, al senso di protettiva familiarità che si crea con le abitudini ai luoghi, ai loro suoni e colori (Liotta, 2005, p.108)".
Di fronte al tema degli anziani si attiva in me, per un momento, l’archetipo del guaritore eroico: vorrei aiutarli, loro più di altri avrebbero bisogno di uno spazio di ascolto e condivisione. So che non sarà possibile. Nel gruppo si parla poi delle famiglie. Alcune si sono dovute riunire, per necessità: i figli sono tornati nella casa dei genitori, i genitori sono andati a vivere con i figli. Il terremoto in molte circostanze ha ricostituito la famiglia patriarcale. Dire che è una cosa buona non tiene conto del fatto che i ruoli nel tempo sono cambiati e che tra le vecchie e le nuove generazioni c’è un divario troppo grande. In pochissimi casi questo riunirsi ha avuto effetti positivi; in tutti gli altri è vissuto come una delle conseguenze nefaste del terremoto. A un certo punto tra il problema anziani e quello delle forzate riunificazioni familiari, qualcuno ricorda Stefano e Francesca alunni di prima e seconda elementare, 6 e 7 anni, rimasti sotto le macerie. Restiamo tutti in silenzio, a lungo fino a che una di loro dice che per venire lì quella mattina ha indossato dopo tanto tempo un vestito a fiori. Un’altra per associazione racconta che la sua casa non ha riportato danni ed è potuta rientrare subito, ma che non ha avuto il coraggio di piantare neanche un fiore in giardino. Le sarebbe sembrato offensivo nei confronti di coloro che la casa non ce l’avevano più. Una delle maestre che in quei terribili cento giorni non era mai riuscita a piangere, nell’andar via piangendo a dirotto e insieme sorridendo, dice di aver sentito in questo gruppo una vicinanza particolare fra tutte, conduttrici comprese, che ha definito “sorellanza”. Un’altra ancora ci fa ridere di cuore quando racconta che uscendo in fretta e furia dopo la scossa, a piedi scalzi, ha chiesto al figlio di prenderle un paio di scarpe e che lui, fra le tante, le ha preso le uniche con il tacco alto.
“Potete immaginare, con quei tacchi a fuggire fra le macerie…”.
“Foulkes, pioniere britannico della terapia di gruppo, affermò sessant’anni fa che il terapeuta […] era uno che poteva sinceramente dire a un gruppo: “eccoci qui insieme ad affrontare la realtà e i problemi fondamentali dell’esistenza umana. Io sono uno di voi, né più, né meno”. (Yalom, 2005, p. 244).
Dopo essermi presentata spiego che cos’è lo psicodramma e ciò che vorrei fare nei tre giorni in cui staremo insieme. Per merito della datura, della confidenza, dell’aria fresca che entra dalle porte finestra, siamo tutti più rilassati. Può incominciare l’autopresentazione del gruppo. In questa prima fase prevedo dall’esperienza dei giorni precedenti, che ognuna presenterà, piuttosto che se stessa, il proprio terremoto.
Inizia P. (per ovvie ragioni di riservatezza, d’ora in poi indicherò il nome delle persone con la sola iniziale), è una donna bella e solare, quando parla illumina lo spazio intorno a lei. Suona un telefono, poi un altro. Quello dei cellulari è un argomento delicato ma che non può essere eluso. Nel lavoro in città spessissimo siamo state disturbate dagli squilli. Verbalizzo il fatto ma nessuna ancora se la sente di concedersi “tre ore tutte per sé”. È comprensibile, l’ansia terremoto permane, tanto più che le scosse anche se di lieve entità, continuano a farsi sentire. Qualche volta le abbiamo avvertite anche in diretta.
P. racconta della sua vita felice e infelice, dei suoi rapporti familiari, della pesantezza di questo momento. Il terremoto ha creato vicinanze forzate, convivenze difficilmente sostenibili, l’ha costretta a confrontarsi. Il tema della convivenza obbligata già emerso nel primo gruppo, tornerà in molti racconti come uno dei problemi più scottanti.
All’apparenza P. parla poco del terremoto, parla della sua vita di prima, della sua attitudine a prendersi cura di tutti; il suo leitmotiv è “Come faccio?”. Spesso chiede alla collega e amica A. (il lupo in gabbia dell’inizio) “ Come faccio?”. A., facendole da specchio, dice al gruppo che P. è capace in tutte le situazioni di prendere il nero e trasformarlo in bianco. P. si rende conto che forse il suo problema è quello di non riuscire a passare per il grigio. Amplifico il tema dei colori facendo riferimento al processo alchemico. Continua A. raccontando anche lei, con ironia e distacco solo apparente, delle sue relazioni familiari, dell’incoscienza di alcuni parenti rispetto alla casa che potrebbe crollare. Il terremoto, cartina di tornasole dei rapporti ha liberato i non detti, le ipocrisie familiari, ha evidenziato alleanze e dipendenze; ciò che si “teneva” per convenienza e per convenzione, non si tiene più (dopo il sisma ci sono state effettivamente molte separazioni ma anche qualche riavvicinamento). Alcuni membri del gruppo evidenziano che l’abbandono delle ipocrisie può essere il lato positivo del terremoto. È il turno di due sorelle, una più grande e una più giovane. La più grande è sopraffatta dall’emozione e non riesce a parlare. Propongo che la più giovane parli per lei, in veste di doppio. Fantastico! Questa donna, senza troppe spiegazioni capisce di che si tratta e dice, attivando istintivamente il tele, ciò che l’altra vorrebbe dire (per il concetto di tele, vedere scheda). Il racconto si amplia fino a focalizzarsi su una lite fra le due per un posto a tavola. Decidiamo di metterla in scena. Anche se il gruppo non ha terminato l’autopresentazione è sufficientemente maturo da poterselo permettere (non va dimenticato che quasi tutte hanno già lavorato con Anna nei giorni precedenti). La sorella giovane diventata automaticamente la protagonista e distribuisce i ruoli. Ognuna ha il proprio e lo interpreterà a meraviglia. Le piccole sedie e i piccoli tavoli dell’Asilo Nido sembrano fatti apposta per ricostruire in miniatura questa tavola della discordia. L’azione che segue è teatro puro, teatro estremo, direbbe Moreno; attraverso di essa si evidenziano inaspettati invischiamenti e confusione di ruoli. Nella discussione finale Marianna sottolinea la necessità della separazione dai figli che si è esplicitata nella messa in scena e fa notare a C. (la protagonista) che non ne era cosciente, il suo bisogno, oggi che fuori c’è Il serpente con la lunga coda (l’espressione riferita al terremoto era venuta fuori nella presentazione), di rafforzare l’alleanza con il marito. Per questo motivo a tavola ha bisogno di averlo davanti, di guardarlo negli occhi per sentirsi sicura. G. R. la più grande (di 9 anni), appare piccola e bisognosa, non separata dai figli, vorrebbe che il marito fosse dolce, accudente, presente. Le faccio notare, suffragata dal gruppo, che forse il marito “reale” lei non lo vede, concentrata com’è sui suoi bisogni. Qualcuno condividendo una situazione analoga suggerisce che sarebbe meglio smetterla di chiedere, “di parlare, parlare…” l’evento terremoto potrebbe essere l’occasione per guardare le cose con nuovi occhi. G. R. ha un vero e proprio insight , mette a fuoco fra l’altro di avere da tempo problemi con la voce… “ forse dovrei smettere di parlare e ascoltare di più…”. Seguono altre condivisioni tutte in riferimento alla possibilità di trasformare il trauma in elemento di crescita. In questo caso andiamo oltre l’attivazione della resilienza. Ci troviamo di fronte a quella che alcuni studiosi, soprattutto degli ultimi anni definiscono come Adversity-Activated Development (Sviluppo Attivato dall’Avversità) (Papadopoulos, 2004, 2006). L’AAD si riferisce a sviluppi positivi che sono un risultato diretto dell’essere stati esposti a situazioni difficili. Nella letteratura specializzata si parla di crescita legata allo stress, di crescita positiva in seguito al trauma, di trasformazione positiva del dolore, di crescita post-traumatica. Qui a L’Aquila ho potuto osservare il fenomeno in molte situazioni.
Al secondo incontro il gruppo si presenta quasi al completo; grazie all’esperienza positiva del giorno precedente, sembra molto motivato. Sono in 13, un bel numero. Per me è il numero della fortuna, delle cose importanti. Ancora una volta spostiamo il setting come vuole A.; si ripropone il solito cerimoniale, va bene, lo considero come la fase di riscaldamento. Fra continue interruzioni dovute allo squillare dei telefoni, concludiamo l’ autopresentazione. Torno sul tema del cellulare acceso-spento che collima con quello del prima-dopo (terremoto), con quello dell’ansia, del tentativo di controllore il serpente dalla lunga coda. Alcune mettono a fuoco che il portatile ha sostituito del tutto il fisso che, non essendoci più la casa, non ha una sua collocazione. Ammettono di avere una patologica dipendenza da esso ma di “disintossicarsi” per adesso non se ne parla. Capisco che la situazione non può essere forzata. Nei gruppi della primavera i cellulari, salvo eccezioni motivate, verranno regolarmente spenti all’inizio del lavoro. Dal telefono si passa per associazione alla casa e alla città che non c’è più. Si snodano racconti di palazzi nobiliari sgretolati dal sisma, di persone care morte in quegli edifici, di come si sia scampate per un pelo alla stessa sorte. C’è chi fa progetti e chi per farli aspetta che la terra abbia smesso di muoversi, che abbia “finito”; qualcuna va su Internet per confrontare i dati del terremoto del 1703 con quello di oggi. C’è chi dice che la terra merita rispetto “noi la dimentichiamo, la violentiamo e lei ci ricorda che esiste”. Qualcuna si chiede che senso abbia tornare “in un posto che non ti vuole”. Suggerisco di concentrarsi, qui e ora, su due cose: un problema e un sogno. Quasi per tutte il problema è tenere unita la famiglia; il sogno è una cosa concreta, la più concreta di tutte: avere una casa antisismica. Il gruppo oscilla fra pessimismo e ottimismo.
Concludiamo il tempo a nostra disposizione con il “gesto condiviso” (da ora in poi tutti i gruppi da me condotti termineranno in questo modo). Consiste, iniziando da destra verso sinistra, nel fare un gesto, di qualunque tipo – l’importante è che sia autentico – alla persona che ci sta accanto. Questa lo accoglie e ne fa a sua volta uno alla persona vicina, fino alla fine del giro. Il gioco pertiene la sfera del saper dare e del saper ricevere. È importante che tutto si svolga senza l’utilizzo del canale verbale. Per il gesto condiviso avviciniamo al massimo le sedie, restringendo il cerchio. È un momento speciale per tutti.
Il terzo incontro lo dedichiamo principalmente a un lavoro di scrittura partendo dalla scelta di un animale e di uno stato d’animo che a esso si possa associare. Descriverò il gioco più avanti.
Terminiamo questi intensi tre giorni a Montesilvano con una “scultura di gruppo” finalizzata a mostrare in forma tridimensionale l’assetto interno dei partecipanti (la tecnica della scultura si usa in psicodramma anche per rappresentare le relazioni fra i diversi componenti di un gruppo). Dovrebbe rappresentare un po’ la summa di ciò che è stato fatto. Le insegnati, prendendo il loro tempo, si dispongono in semicerchio unite una all’altra attraverso le mani e le braccia; guardano tutte nella stessa direzione, la testa alta, lo sguardo franco. L’atteggiamento evoca solidità e allo stesso tempo dinamicità. Coloro che nel lavoro sono apparse più incerte e vulnerabili, stanno in mezzo al gruppo sostenute dalle più determinate. Il titolo della scultura è “Equilibrio+Appoggio=Forza”. Quel femminile archetipico di cui parlavamo sopra qui si manifesta in tutta la sua potenza.
Prima di separarci, come ultimo atto di condivisione ma anche per puro piacere, ascoltiamo insieme “Domani”, il brano inciso per L’Aquila da un gruppo di cantanti italiani:
“Città di ieri ferita una notte di aprile, per un attimo torna a volare…”.
AUTUNNO
Perchè la gente ha continuato a vivere in questa terra dove i terremoti ci sono sempre stati? Quello del 1703, grado X della Scala Mercalli aveva praticamente raso al suolo la città e causato 6000 vittime! Perché dunque restare, ricostruire, rischiare ancora? Perché un particolare genius loci conferisce a questa terra bellezza e armonia? O piuttosto perché qui dal 1295, ogni anno si apre una porta e passando attraverso di essa tutti, laici e credenti, vengono perdonati? Questi due motivi sarebbero sufficienti a spiegare il fenomeno, nel corso del tempo ne scoprirò altri.
Il verde cupo delle latifoglie si alterna a quello delle robinie che già vira, in un lieve sentore di autunno, verso il giallo. Dobbiamo portare la nostra professionalità e il nostro cuore! È questo il leitmotiv che da giorni mi risuona. Ai lati della carreggiata i consueti cartelli “Attenzione, attraversamento animali selvatici” si alternano ad altri, di colore rosso, anomali, con strane sigle e numeri e che si fanno più numerosi in vicinanza della città. C’è scritto “COM”, “ DICOMAC” e altro. Non riesco a capirne il senso. Presto mi sarà chiaro. Nel fondo valle scorre un ruscello tanto perfetto da sembrare disegnato. Quando tutto questo sarà finito voglio andarci in quel fondo valle, ascoltare il suono dell’acqua e immergervi le mani.
Sotto la grande tenda bianca
Ancora all’ITIS. Guardo la costruzione e questa volta ne apprezzo le ampie finestre con gli infissi di legno chiaro, le superfici convesse e concave che conferiscono leggerezza, i volumi equilibrati: penso che sia proprio una bella scuola. È sempre interessante constatare quanto lo stato d’animo condizioni la percezione delle cose. Sono qui per iniziare un lavoro con le insegnanti che durerà fino a primavera inoltrata. Quello di luglio che ne ha gettato le basi, può essere considerato il prologo dell’esperienza. Da esso ho imparato molte cose, oggi non mi sento troppo spavalda ma neppure preoccupata. Emozionata sì, quel tanto che basta.
Nello spazio prospiciente il piazzale c’è una grande tenda bianca, per un po’ lavoreremo lì sotto. Ne sono lieta. La tenda mi evoca un antico viaggio in Tunisia, Lawrence d’Arabia, ma anche il terremoto, più di qualunque altro luogo. Fra poco permetterà al gruppo di sintonizzarsi sul tema “perdita della casa”. In questo lavoro mi affianca Francesca Karen, un’altra giovane psicoterapeuta dell’infanzia. È il primo giorno sotto la tenda, il gruppo è molto vivace, salvo poche eccezioni tutte sembrano parecchio avanti nell’elaborazione di lutto e trauma. Le autopresentazioni, i racconti, si snodano con naturalezza ed occupano quasi tutto il tempo a disposizione. Emerge fra le tante, una questione già affiorata a Montesilvano: quella del sentimento di rabbia che alcune nutrono nei confronti di coloro che hanno abbandonato la città per rifugiarsi sulla costa e il senso di colpa di quest’ultime per averlo fatto. Usando la tecnica dell’inversione di ruolo possiamo elaborare il tema e osservarne da vicino i risvolti. Dopo qualche scambio di informazione, ciascuna nel proprio ruolo, la maestra (G.) che è “scappata” viene invitata a immedesimarsi nella parte di colei che è rimasta (C.) e viceversa.
G. : “La mia casa è stata classificata E, sono andata con la mia famiglia a vivere nella tendopoli, piuttosto che abbandonare L’Aquila avrei dormito anche per strada”. G. si interrompe perché le vengono le lacrime agli occhi. La incito a continuare, a non aver paura.
G. : “nella tendopoli c’era tanto da fare, dovevamo rispettare i turni per andare al bagno… a volte dovevamo andare addirittura nei campi…” G. non riesce ad andare avanti. Suggerisco a l’altra di fare la sua parte.
C. : “Sarei tanto voluta restare ma non è stato possibile, i bambini sono piccoli, la casa al mare c’era, e poi avevo tanta paura. Ma lontano da L’Aquila sono stata malissimo, ci pensavo continuamente, appena potevo prendevo la macchina e tornavo in città ma dopo mi sentivo anche peggio”.
Entrambe le insegnanti sono commosse, lo è anche il gruppo.
Scambiandosi i ruoli l’una ha potuto sentire il dolore dell’altra, così simile al proprio. Rabbia e senso di colpa vengono lasciati andare, almeno un poco. Stimolate dal gioco altre vogliono parlare dell’esperienza nelle tendopoli ma soprattutto esprimere il sentimento legato alla perdita della casa.
“Casa” scrive Papadopoulos, è una delle idee fondamentali dell’umanità. Tutti gli esseri umani, trascurando la sua forma o il suo stile, hanno un senso della “casa”che spesso evoca, che siano positivi o negativi, sentimenti fortissimi. La casa costituisce una delle realtà centrali che gli uomini condividono con gli animali. L’intera dinamica della territorialità è collegata direttamente alla localizzazione della casa e al suo senso (Papadopoulos, 2006 p. 34).
La casa non è soltanto un luogo ma un fascio di sentimenti collegato a esso. Costituisce una realtà fisica che protegge in concreto ma è anche un involucro di sostegno e contenimento psichico. Si tratta di un costrutto chiave che mette in rapporto tre campi che parzialmente si sovrappongono: quello intrapsichico, quello interpersonale e quello socio-politico.
“Una volta persa la casa, scrive ancora Papadopoulos, tutte le funzioni organizzative e contenitrici si frammentano e c’è la possibilità di una disintegrazione a tre livelli: quella individuale-personale, quella familiare-coniugale e quella socio-economico/culturale-politico (p. 49). Senza entrare nel merito (lo fa molto bene il film della Guzzanti “Draquila”) sembra che i politici, costruendo in tutta fretta le famose casette abbiano fatto leva proprio su questi costrutti".
Quasi tutte raccontano, passando attraverso una vasta gamma di sentimenti, della loro casa rovinata, disastrata, perduta. Qualcuna manifesta il suo senso di colpa perché la casa non è importante come le vite umane “Non dovremmo parlare delle pietre, delle cose, ma delle persone che non ci sono più”. Questa affermazione dà una sferzata al gruppo. Nel rito finale (il gesto condiviso), propongo di portare il nostro pensiero sulle persone che nel terremoto hanno perso la vita. Tutte esperiscono una piccola catarsi di integrazione.
Alla fine dell’incontro una delle insegnanti nell’accompagnarmi alla corriera mi ha portata a vedere la sua casa; ha voluto farmi “toccare con mano” le crepe dei muri, l’intonaco caduto, i vetri rotti. E lì mi ha raccontato ancora il suo terremoto.
Dopo l’episodio della farfalla il gruppo si sente coeso e incomincia a percepirsi come possibile risorsa. Decido di andare in quella direzione. Metto sul tavolo il tema della fiducia, del saper chiedere, del sapersi fidare e affidare. Invece della parola questa volta useremo il corpo e l’azione. La tenda bianca per le ampie dimensioni e per le caratteristiche inconsuete è perfetta. Illustro le mie intenzioni: “Adesso facciamo un gioco in cui dovete dividervi in coppie, una si benda e l’altra resta “ vedente”.
Tiro fuori dalla mia borsa stile Mary Poppins, il giusto numero di fazzoletti che servono per l’operazione di bendaggio, lavati e stirati. “Quella che vede guiderà l’altra attraverso tutto lo spazio della tenda senza dare indicazioni verbali, utilizzando esclusivamente le mani e il corpo. La guida avrà il duplice compito di infondere sicurezza nella compagna bendata ed sarà responsabile della sua incolumità. Ma non basta, oltre che rassicurare deve essere anche in grado di rendere interessante l’esplorazione. Per esempio facendole toccare con le mani superfici diverse, cambiando velocità, direzione, modificando la postura. Colei che è “cieca” deve affidarsi alla guida, cercando di apprezzare l’ambiente, affinando il tatto, l’olfatto, l’ udito. Il gioco può durare da un minimo di 5 minuti fino a un massimo di15. Trascorso questo tempo, vi scambierete i ruoli. Chi è stato condotto diventerà il conducente. Alla fine ci si siede e si commentano i vissuti. In particolare dovrete dire come vi siete sentite in un ruolo e nell’altro”. Prima di proporre l’azione mi ero chiesta se non fosse azzardata in questo contesto. Il buio del bendaggio avrebbe potuto sollecitare sensazioni sgradevoli, da notte del 6 aprile, se non addirittura attacchi d’ansia. Ho verbalizzato la mia paura e tutte hanno risposto che andava bene, che si sentivano in grado di farlo. Hanno posto come unica condizione che mi bendassi anch’io: non mi sono potuta rifiutare.
Dopo il gioco, durato abbastanza a lungo (la durata è già una prima indicazione positiva), segue lo scambio di vissuti:
"All’inizio ho avuto paura, non c’erano punti di riferimento, mi sembrava di galleggiare. Volevo togliermi la benda. Poi mi sono concentrata sul calore delle mani della mia guida, sul suo respiro calmo e sono andata avanti. Nell’altro ruolo è stato più facile, ho cercato di restituire la serenità che avevo ricevuto, non so se ci sono riuscita”.
La compagna conferma di aver avuto più o meno le stesse sensazioni e che il fatto di essere stata in grado di dare fiducia l’ha indotta a fidarsi. Un altra:
“Mi sono divertita a farle fare delle azioni spericolate, e lei dopo si è vendicata…”.
Un’altra ancora:
“Sinceramente non vedevo l’ora che finisse, la mia compagna l’ha capito è mi ha tolto quasi subito la benda. Guidare è stato semplice, e lei si è fidata di più di me. Lo so di avere dei problemi… e il terremoto li ha amplificati…”.
E ancora:
“Il cuore mi batteva forte, pensavo fosse come giocare a mosca cieca da bambini, invece era diverso. In effetti mi è venuto in mente il buio della notte del terremoto ma qui per fortuna c’era qualcuno che mi guidava. Nel condurre ho cercato di infondere sicurezza il più possibile, con tutto il corpo”.
Ho replicato “Il cieco e la guida” in altre situazioni e in altri momenti. In tutte è venuto fuori, qualora ci fossero stati dei dubbi, che è molto più facile guidare che essere guidati. In particolare per le insegnanti che il ruolo di guida lo hanno scelto come mestiere. Qui hanno fatto un’ esperienza nuova, in qualche modo correttiva. In riferimento al modello di Yalom questo gioco psicodrammatico può essere visto, oltre che come tecnica di socializzazione, come una modalità per sviluppare l’altruismo, l’apprendimento interpersonale, la coesione del gruppo.
Esercizi di resilenza
Ritorna il termine resilienza, lo ripeto, ho sempre pensato che in questo contesto uno dei miei compiti fosse quello di attivarla.
Pietro Trabucchi, psicologo di scuola cognitivista che lavora da anni nel mondo dello sport sostiene che la resilienza, pur essendo una dotazione primaria degli esseri umani, può essere ulteriormente appresa e migliorata nel corso del ciclo di vita. Alla base di ciò, sta in primo luogo la valutazione cognitiva che diamo degli eventi. È la valutazione cognitiva che determina la risposta comportamentale, emozionale e fisiologica a ciò che ci accade. Tutti conoscono la storia del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno: è il punto di vista a fare la differenza. Per Boris Cyrulnik, psichiatra, psicoanalista e presidente dell’osservatorio sulla resilienza che ha sede a Parigi:
“il resiliente apre gli occhi e conserva nella memoria – e spesso anche nell’ ipermemoria – il ricordo del proprio trauma. Tale ferita inscritta nella sua storia, costituisce la sua identità narrativa: io sono quello che ha conosciuto…la perdita della casa, la perdita del lavoro, la perdita di persone care a causa del terremoto…È il racconto intimo della sua ferita passata, che è ancora oggi costitutivo della sua identità. (Cyrulnik, 2005, p.22)
Il ricordo del trauma, il riviverlo attraverso narrazione di gruppo, può contribuire ad innescare potenti meccanismi di resilienza individuale e collettiva. Con l’intento di stimolare e accogliere narrazioni, partendo dall’assunto che ciò che passa per l’azione si inscrive nella memoria emotiva in maniera più duratura, propongo un gioco che è a cavallo fra un test di resilienza e un gioco di attivazione della stessa. Ancora una volta è lo spazio della grande tenda bianca a prestarsi .
“Immaginate di essere disposte in fila lungo la riva di un fiume e che è indispensabile guadarlo per poter raggiungere l’altra sponda. La situazione in qualche modo assomiglia a ciò che state vivendo in questo momento. Non c’è scelta, è necessario compiere un passaggio. Il fiume non è tanto tranquillo, ci sono delle rapide, può essere infestato da coccodrilli, può essere, non è sicuro che lo sia ma bisogna essere vigili. L’acqua è fredda, torbida, c’è della melma scivolosa sul fondo. Potete attraversarlo nel modo che volete, usando ciò che trovate sulla riva – purtroppo barche non ce ne sono e non c’è neanche Caronte. Pensate che sull’altra sponda c’è la salvezza. E che se riuscite ad arrivare dall’altra parte, la vostra vita cambierà in meglio”.
Alla fine del gioco si esplora per ogni soggetto la durata della traversata, il grado di difficoltà incontrato, la volontà di attraversare il fiume, le soluzioni creative escogitate. Tutte, eccetto una, entrano nella dinamica della rappresentazione. Sembrano seriamente preoccupate. Anche in questo caso l’uso del canale verbale deve essere ridotto al minimo. Solo il conduttore può illustrare la situazione mentre si svolge, come un cronista.
Sembrano seriamente preoccupate tanto che nessuna se la senta di incominciare. Le sollecito dicendo che devono sbrigarsi perché fra poco sarà notte e con il buio (lo sanno bene!), sarà tutto più difficile. A queste parole, una giovane maestra si fa coraggio. Inizia con aria circospetta, togliendosi le scarpe e tirando su fino al ginocchio i pantaloni. Immerge prima un piede poi l’altro, saggia la temperatura dell’acqua, si ritrae perché è molto fredda. Si concentra, forse dice fra sé una preghiera, fa un respiro profondo e alla fine si lancia in un attraversamento veloce e deciso, da centometrista. Giunta sull’altra sponda sprizza gioia e sollievo. La seconda incoraggiata dal buon esito della prima, si accinge a passare, ma con precauzione. Individua delle pietre che si trovano nell’acqua e attraversa saltando su di esse, prendendosi i suoi tempi. Nel gruppo ci sono due sorelle, compiono l’impresa tenendosi per mano. Sono tranquille perché sono in due e sanno che dove non può una potrà l’altra. Il loro atteggiamento parla di un rapporto intimo, di grande solidarietà. Costituiscono un esempio per tutte.
Un'altra ha un’intuizione creativa, prende un’ipotetica corda o liana, la lancia a quelle che sono già dall’altra parte e attraversa il fiume sorreggendosi a essa. Una inizia il passaggio ma arrivata al centro del guado non ce la fa ad andare avanti e si ferma in preda all’ansia. Le due sorelle dall’altra riva se ne accorgono e senza esitare la vanno a prendere. Un’altra ancora nell’attraversare scivola e cade ma le viene lanciato un bastone e appoggiandosi a esso si rialza e prosegue. Tutte, in un modo o nell’altro, arrivano sull’altra sponda.
Nella condivisione finale molte dicono di sentirsi un po’ stanche (attraversare un guado non è cosa da poco) ma anche realmente sollevate e soprattutto più forti.
INVERNO
Cerchiamo il nostro luz
In questo tempo destrutturato, l’esigenza di raccontare la propria esperienza del terremoto lascia il posto alla necessità di trovare appigli per ricostruire almeno la propria casa interna. Un aiuto inaspettato ci viene dal romanzo “Che tu sia per me il coltello”dello scrittore israeliano David Grossman. Non posso non notare quanto tale lettura casualmente da me fatta in quei giorni, sia sincronica. Nel libro l’autore a un certo punto racconta un’antica leggenda della sua cultura: è la chiave che darà senso a tutto il romanzo e penso che anche per noi potrà esserlo. Prima di spiegare le mie intenzioni leggo il brano ad alta voce, lentamente, nel desiderio di comunicare, oltre al significato dello scritto, anche il suo valore letterario:
… ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità della spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati". (Grossman, 2009, pp. 14/15).
La storia sembra scritta ad hoc. Spiego con poche parole ciò che dovrebbero fare: “Senza aspettare la resurrezione, provate a trovare fra le macerie della vostra vita qualcosa da cui partire per ricreare almeno la vostra casa interna visto che per quella di fuori ci sarà bisogno di tempo. Può essere qualunque cosa: un frammento di esperienza, un oggetto, un luogo, un sogno, una passione, una parola, una persona…Se oggi non vi viene in mente niente, potete continuare a pensarci e comunicarlo nei prossimi incontri. O magari potrà venirvi in mente fra qualche mese”.
Anche questo lavoro è stato proposto in altri gruppi, in tempi diversi. In tutti ha avuto un forte impatto emotivo. Si può idealmente collocare in quella modalità gruppale che Yalom definisce “infusione della speranza”. Riducendo i commenti al minimo, riporto sotto alcuni racconti di chi il proprio luz, lo ha trovato.
“Il mio luz è una piccola finestra dalla quale posso vedere il cielo e più giù la valle con le luci che si accendono dopo il tramonto. Ieri notte c’era anche la luna e in quel piccolo spazio ho provato un po’ di serenità. Sono single, ho divorziato da mio marito molti anni fa, dopo il terremoto ho dovuto far venire a vivere con me i miei genitori, mio padre e mia madre malata, nella mia piccola casa che rappresentava per me l’ autonomia. Spesso mi sento ansiosa e aggressiva e subito dopo sono assalita dai sensi di colpa.
P. è una persona molto riservata, racconta come da mesi si senta risucchiata nell’uroboros materno. L’aver individuato il proprio luz, un piccolo punto da cui ripartire e poterlo condividere con il gruppo, le procura gioia e commozione.
Il luz di S. sembra essere L’Aquila stessa alla quale è tornata dopo un soggiorno di molti mesi nel paese dei genitori. Anche lei si sente, a causa del terremoto regredita “…alla fase del cordone ombelicale, la regressione forzata al ruolo di figlia mi aveva indebolita. Mi sono sentita più insicura rispetto a quello di madre, ma soprattutto di moglie. L’essere tornata mi fa stare meglio. Il mio luz è L’Aquila. La guardo e anche le case diroccate, anche i luoghi ridotti a un cumulo di macerie, mi suscitano amore”.
Per un’altra maestra il luz è la comunità, il condominio, gli abitanti del palazzo ( è tra le fortunate che sono potute rientrare nella propria casa). “ Prima del terremoto a mala pena ci salutavamo, adesso ci cerchiamo, ci sentiamo fratelli, c’è molta solidarietà reciproca. Questo modo nuovo di stare in relazione ci fa sentire anche più protetti perchè quando ci sono le scosse ci ritroviamo tutti insieme”.
Poi c’è il luz di M. “ È la mia macchina da scrivere arancione che ho tirato fuori dopo tanto tempo. Questo vuol dire che riprenderò a scrivere”. Ci racconta come da giovanissima avrebbe voluto essere come Fernanda Pivano, di averle scritto una lettera e di averla incontrata. Racconta dell’amore per i libri, per la scrittura. M. “si ricostruisce” partendo da lì, da quella grande passione dimenticata. “Scrivere ma anche disegnare, suonare la fisarmonica”.
La scrittura si riconferma essere il luz anche di P. che della sua città sa scrivere in maniera molto poetica.
Un grande divano all’interno di un MAP (Modulo Abitativo Provvisorio), in sostanza una delle famose “casette”, è il Luz di A. “Sul divano tutte le sere viene a sedersi M. un professore di logica, così per il puro piacere di farlo, per stare in compagnia, la casa è aperta a tutti, dal divano si può ripartire per ricostruire il tessuto sociale di questa città, anche in un MAP. E dal logos, anche qui avverto con un brivido la sincronicità.
Per altre ci sono la cucina, il pianoforte; per altre ancora l’orto, il giardino. Per una di loro il ricamo (sulla via di Penelope, forse per sciogliere anche qualche nodo). “Quando la mente è bloccata e il cuore gelato, ci possono aiutare le mani che in silenzio, tessono e disfano il filo della nostra vita”.
In uno degli ultimi gruppi una maestra ha trovato, piuttosto che il suo personale luz, quello Roio, il suo paese, uno dei più danneggiati dal sisma. Anzi, ne ha trovati ben tre. Racconta: “Al tempo della mietitura a Roio, si celebra la festa del pane. Per l’occasione si addobba con fasci di grano un vecchio carro, uno di quelli che un tempo nelle campagne venivano trainati dai buoi. Si fanno salire sul carro due belle ragazze (Demetra e Persefone?) e alcuni giovani, sostituendosi ai buoi, lo portano per le vie del paese, in mezzo alla gente venuta anche dai paesi vicini.
La stalla dov’era custodito il carro è crollata ma esso non ha riportato neanche un graffio, quando l’ho visto non ci potevo credere! Vuol dire che anche quest’anno si potrà fare la festa della mietitura”.
L’altro luz di Roio è ancora più clamoroso: la fontana di una piazzetta del paese (Lo Largu), intatta fra le macerie continua ad erogare la sua fresca acqua che viene dalla Montagna! Così come è clamoroso quel cortile pieno di piante fiorite, fresche come in una serra, in mezzo alla polvere dei palazzi crollati.
Ovviamente, poiché non siamo a Disneyland, non tutte hanno trovato il proprio luz. In alcuni casi (pochissimi) non è stato afferrato il senso della storia, in altri pur avendolo compreso non si è riusciti ad andare oltre. Forse è troppo presto, forse è necessario compiere dei passaggi intermedi. Ogni persona ha i suoi tempi. Nel gruppo c’è spazio per tutti, la speranza può nascere anche ascoltando le storie degli altri. Parlando di questo tema è venuto fuori che il dolore del terremoto, in alcuni casi si era sovrapposto ad altri, più antichi e personali, difficili da sciogliere. In uno in particolare la persona in questione che sentiva lontana, (con sincero dispiacere) la consapevolezza acquisita dalle altre, ha messo a fuoco di essere entrata in menopausa proprio in concomitanza con l’evento sisma. Il tono depresso, l’incapacità di fare progetti (anche di trovare il luz,) probabilmente dipendeva anche da quello. Nel gruppo tutto al femminile il tema ha avuto grande risonanza. Un’altra ha parlato della grave malattia di un figlio e dal momento in cui è riuscita a farlo, ha pianto, anche per il terremoto. E infine P. ha raccontato di aver sempre vissuto il suo personale e segreto terremoto nella malattia del marito. L’aver trovato “le parole per dirlo” , le aiuterà a scoprire il proprio luz.
Una curiosità: in uno dei gruppi sul luz eravamo così concentrate che non ci siamo accorte della neve che scendendo “ a larghe falde e piane”, stava bloccando le uscite della scuola.
P.S.
Anch’io ho trovato il mio Luz, ma non dirò cos’è.
Riprendiamoci la città
Siamo nel pieno dell’inverno e a L’Aquila sta accadendo qualcosa di nuovo. La gente stanca di promesse disattese, stanca di non poter accedere alla città, decide di occuparla pacificamente e di iniziare a rimuovere le macerie che, a quasi un anno dal sisma ancora invadono strade, vicoli e piazze con tutto ciò che questo comporta. Nasce quello che viene definito “ il popolo delle carriole”: ogni domenica donne, uomini, vecchi e bambini, protetti da elmetti e mascherine, armati di pale, secchi e appunto di carriole, cercano di sgomberare non solo simbolicamente la città dai detriti. Ovviamente le insegnanti ne parlano, anzi in questa fase è l’argomento principale. Nei gruppi si crea la possibilità di confronto fra coloro che aderiscono all’iniziativa e coloro che per vari motivi, ne restano fuori o che addirittura sono contrarie. Visto che non posso andare in piazza, anche se sarei tentata di farlo, decido di dare anch’io un contributo che non sia solo simbolico. Propongo, stimolata dai racconti, un lavoro che tutte insieme intitoliamo “Riprendiamoci la città”. Sottotitolo “L’Aquila non è l’Aquilone” (L’Aquilone è il grande centro commerciale sorto vicino alle new city, dove ormai si svolge la vita sociale degli aquilani. In particolare per i giovani è il nuovo punto di ritrovo). “Per potersi riprendere L’Aquila, è necessario ricominciare a frequentarla, prima nei pensieri e nel cuore e poi in concreto cercando di rientrare almeno nei luoghi accessibili”. Dico questo perché nei gruppi è spesso venuta fuori la difficoltà di alcune di avvicinarsi alla città, a volte anche solo di pensarla. Lo impediscono dolore, paura e angoscia di morte ancora molto presenti. Suggerisco, nello spirito dello psicodramma di iniziare con un gioco di ruolo vero e proprio: “Scegliete un luogo significativo della città che vi faccia tornare alla mente qualcosa di speciale della vostra vita ante terremoto e presentatelo come se non foste voi a parlare ma il luogo stesso, in prima persona”.
Dopo le prime perplessità c’è una bella adesione. Forse non tutte riescono a immedesimarsi nel ruolo ma certamente tutte raccontano di un posto particolare, pieno di significati:
“Sono la Fontana delle 99 cannelle con i miei “conci” bianchi e rosati e i miei bei mascheroni; mi usano come sfondo per le foto dei matrimoni,o per la rassegna la rassegna musicale “Blues sotto le stelle”. Ora sono messa parecchio male ma sembra che il FAI mi voglia far tornare come nuova, io ci spero perché abituata come sono alla gente, da sola mi sento tristissima e non vedo l’ora che tolgano quelle transenne”.
Qualcuna a proposito della fontana ricorda
“le beate estati dell’infanzia insieme ai miei cugini. La fontana era un punto di riferimento, un luogo di pace, tra il silenzio e l’acqua”.
Si indugia nel raccontare la storia di questo monumento simbolo della città, si aggiungono particolari. E poi si evocano tanti altri luoghi. “Piazza Duomo, le bancarelle, il mercato”. Quanto mancano a tutti quelle bancarelle, quel mercato!
“Via Venti Settembre, lo struscio dei giorni di festa. Costa Masciarelli percorsa ogni giorno per andare a scuola. I portici di S. Bernardino che riparano dalla pioggia, dalla neve e dal vento, Costa Picenze con i suoi gatti acciambellati al sole. La chiesa delle Anime Sante sotto la neve, i concerti sulla scalinata di S. Bernardino, Piazza S. Pietro, Via Roio, i vicoli verso Costa Masciarelli con i panni stesi ai balconi, Piazza Palazzo, Corso della Fontana Luminosa, i giardini del Castello con il Presepe a grandezza naturale. Le Cancelle ovvero le antiche botteghe medioevali. La casa di Tullio (Tullio è il nome del papà di una delle maestre, è la casa dell’infanzia che è andata distrutta)".
Quasi tutti questi posti si trovano nella “zona rossa”e hanno subito gravissimi danni. La perdita dei luoghi al pari di quella della casa è vissuta come perdita dell’identità. Il dolore a essa associato è così profondo e vivo che in questi gruppi più che in altri circolano i fazzoletti. Qualcuna confessa il rimpianto di non aver apprezzato a pieno le bellezze della città quando era possibile. Io stessa mi rammarico averla guardata con poca attenzione in passato.
Fermiamoci qui, questo non vuole essere il “gioco” della nostalgia e del rimpianto, ma piuttosto un momento di contatto emotivo con la città, con l’anima del luogo. Prima di passare alla fase operativa. La città muore non solo perché è stata chiusa, barricata, messa sotto sequestro, ma anche perché la gente, a parte il “popolo delle carriole” che ha rotto le transenne per entrare, non ce la fa neanche ad avvicinarsi. Faccio notare che alcuni dei posti nominati – il Corso della Fontana Luminosa, i Giardini del Castello, Piazza S. Bernardino, una piccola parte di Piazza Duomo, sono pienamente accessibili. La consegna è di tornare a frequentare la città, là dove è possibile, partendo dai luoghi individuati nel nostro gioco. Dove non sarà possibile accedere ci si potrà almeno avvicinare cercando di scorgerli attraverso gli sbarramenti. La maggior parte delle maestre è entusiasta dell’idea. Una minoranza che è decisamente contraria, adduce a giustificazione la paura dei crolli. Il gruppo si confronta accogliendo le ragioni di tutte. Ovviamente nessuno deve sentirsi obbligato nel compito. Nell’incontro successivo si racconta come è andata.
“Io ce l’ho fatta ad avvicinarmi e sono stata così bene che cercherò, nei limiti del possibile di ripetere l’esperienza tutti i giorni; io invece mi sono avvicinata ma sono stata male, le transenne erano così alte, non riuscivo a vedere niente e poi c’era uno strano odore…
C’è poi chi non ce l’ha fatta, chi ha rimosso il compito, chi per potercela fare c’è andata in compagnia.
“Io ho chiesto alle mie figlie di accompagnarmi, mi dispiacerebbe se si allontanassero dalla loro città. Sono state contente di venir e ci siamo anche divertite”.
Una delle maestre ha chiesto ai poliziotti di guardia il permesso di dare una sbirciatina; l’hanno lasciata passare e lei ha anche scattato delle foto che ha portato al gruppo. Sono molto belle, ce le passiamo con avidità. Un’altra, eludendo la sorveglianza, ha passeggiato a lungo nella Zona Rossa dove si trova la sua casa. Ha aperto con le sue chiavi il suo portone, è entrata, ha fatto un giro per le stanze e ha preso qualcosa che le serviva.
PRIMAVERA
Sindrome da anniversario
Tra poco sarà di nuovo il 6 aprile e sarà passato un anno dall’evento che ha spezzato la vita di alcuni, cambiato radicalmente quella di molti. Nei gruppi serpeggia lo spettro di quella data. La psicologia conosce il fenomeno come “Sindrome da Anniversario”. In forma ridotta gli aquilani la vivono ogni 6 del mese; il 6 che sta per arrivare è quello cruciale e bisognerebbe essere pronti. Il termine Sindrome fu introdotto da Ippocrate per indicare un complesso di sintomi, ciascuno dei quali non esprime un particolare significato, ma unitamente agli altri, rinvia a un quadro clinico riconoscibile. Il termine ricorre con frequenza e rilevanza soprattutto in ambito psicologico (Galimberti, 1992). Di Sindrome da Anniversario si è occupata in particolare la psicoanalista francese Anne Ancelin Schützenberger, allieva di Moreno, del gruppo-analista Foulkes e co-fondatrice lei stessa dell’Associazione Internazionale di psicoterapia di gruppo. “L’inconscio ha una buona memoria, scrive Schützenberger, ama i legami e sottolinea gli avvenimenti importanti del ciclo di vita attraverso la ripetizione di date (Schützenberger, 2004, p.79). Secondo l’autrice, alcune coincidenze familiari o storiche potrebbero essere comprese meglio se considerate come reazioni ad anniversari. Certe persone possono essere depresse o angosciate in alcuni periodi dell’anno, avere dei sintomi gravi e inspiegabili (spesso spariscono una volta superata la data fatidica) e che in realtà sono legati ad avvenimenti precisi: una perdita, un lutto, un grave incidente. Nei gruppi aquilani suggerisco di affrontare l’argomento, di rendere palese la possibilità di regressioni, del riacutizzarsi di alcuni stati patologici. Stranamente c’è un po’ di resistenza, faccio qualche indagine e comprendo che parlarne significherebbe ammettere il timore che gli eventi del 6 aprile si possano ripetere. A differenza del quadro sintomatico di cui parla Schützenberger dove gli avvenimenti, del tutto inconsci, possono rivelersi e essere curati attraverso nella terapia Transgenerazionale, per gli aquilani, data la vicinanza con l’evento c’è piena coscienza del problema. Il che non li preserva da quella che viene definita “fragilità del periodo d’anniversario”. Mi viene chiesto esplicitamente di incontrarci subito dopo e di parlarne. Per fortuna la ricorrenza viene affrontata con un rito collettivo: una fiaccolata attraverso la città dalle 24 del 5 aprile alle 3,10 del 6; in quella sede tutti hanno avuto la possibilità di esperire una vera catarsi di gruppo. Passato l’evento, ancora una volta le insegnanti hanno bisogno che io accolga le loro narrazioni:
“ È stata un’esperienza indescrivibile a parole, la fontana dopo tanto tempo era illuminata, c’erano solo le fiaccole e il silenzio… “Il momento più intenso c’è stato quando le campane hanno battuto 308 rintocchi, uno per ogni persona che è morta, non finivano più, è stata come una veglia funebre”; “io ho incominciato a piangere senza potermi trattenere quando Giustino Parisse ha letto la lettera ai figli”; con quella cerimonia mi è sembrato di essere finalmente uscita dal Limbo…”; “ io non ho potuto assistere, sono andata a fare un viaggio, ad Assisi…”; anch’io non ce l’ho fatta, mi è anche venuta la febbre…; “ io ho provato tanta tristezza mista ad ansia e disperazione…”; per partecipare alla fiaccolata mi sono portata due zaini, uno per la gioia e uno per il dolore”…
Una maestra racconta di essere piombata in uno stato depressivo (fortunatamente momentaneo) simile a quello esperito dopo il sisma:
“Mi sono spaventata moltissimo, mi sentivo uno straccio; pensate che chiedevo a tutti quelli che mi stavano vicino di confermarmi che dopo un po’ ero stata bene, che ero ritornata quella di prima!”.
Animali d’Abruzzo e altri ancora
Ripensando al lavoro con i pupazzetti di animali, mi tornano in mente quelli veri de L’Aquila. Se si passa per i giardini del Castello si notano quattro o cinque cani randagi, tristissimi. Probabilmente hanno perduto i padroni. Alcuni gatti invece sono stati visti accucciati davanti alla loro casa diroccata, come in attesa. Anche loro hanno subito il terremoto ma nessuno ne parla.
Il gioco con gli animaletti consiste in questo: il conduttore prende un foglio per ogni componente del gruppo e invita i partecipanti a concentrarsi sullo stato d’animo di quel preciso momento. Subito dopo chiede di verbalizzarlo con una sola parola (felice, ansioso, tranquillo, inquieto ecc.). Se qualcuno ha difficoltà e mettere a fuoco ciò che prova, il conduttore può aiutarlo. Poi annota la parola scelta sul foglio di quella persona (a questo punto in genere io dispongo i pupazzetti al centro del setting). Subito dopo invita ognuno a pensare a un animale che possa rappresentare lo stato d’animo dichiarato. Scrive il nome dell’animale vicino all’aggettivo e quello sarà il titolo di una storia che i componenti del gruppo dovranno scrivere, ognuno con la modalità che preferisce. Successivamente si leggono le produzioni letterarie a voce alta, si scambiano considerazioni e condivisioni. I brani scritti possono anche suscitare altri giochi psicodrammatici.
Per la sua caratteristica di coniugare vari elementi, uso spesso questo esercizio. Qui a L’Aquila l’ho proposto, con delle varianti, in tutti i gruppi. La possibilità di identificarsi con un animale, con la sua forza istintuale, risulta ripartiva rispetto a certi sentimenti di fragilità e di perdita di controllo. Permette inoltre di parlare di se, di farsi conoscere. Associata agli animali, la scrittura, intesa come elemento ordinatore là dove le parole rischiavano di essere ripetitive e “allaganti”
“ Se esiste un parlare, perché scrivere?[…] Parliamo perché qualcosa ci sollecita dall’esterno, grazie alla parola ci rendiamo liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. […]Nello scrivere si trattengono le parole, le si fanno proprie, soggette a ritmo, contrassegnate dal dominio umano di chi in questo modo le maneggia”(Zambrano, 1966, p.24).
Nel proporre questo gioco tengo conto del pensiero di Maria Zambrano sulla funzione dello scrivere.
Gli scritti sono stati moltissimi, alcune insegnanti hanno preferito tenerseli, altre me li hanno affidati. Queste semplici storie hanno rappresentato per i gruppi aquilani un momento di elaborazione tra i più significativi. Ne trascrivo qualcuno, senza commenti.
Leonessa positiva
Regina della foresta, che cosa ti resta?
Il tuo cuore che batte forte e va incontro a una nuova sorte…
Sarà + bella, sarà + brutta, sarà+ ricca, sarà+povera…chissà!
Sicuramente sarà un’altra realtà.
E tu leonessa che farai?
Io lo so…tu correrai!
Avrai la forza di scuotere la tua criniera al vento
E ti libererai di ogni terribile momento.
Guardati intorno…la foresta è verde e rigogliosa,
non tenebrosa!
Tu, papà leone e i leoncini
Troverete la vostra tana…
E lì di nuovo ti sentirai una regina.
Pantera inquieta
C’era una volta una pantera nera come la notte che cercava disperatamente una tana per i suoi cuccioli e per il suo compagno. Vagava per la foresta dall’alba al tramonto incontrando spesso animali feroci che cercavano di attaccarla. Lei la sera, stanca morta tornava dai suoi cuccioli per portare cibo e conforto. Dopo tanto girovagare un giorno trovò un posto che le sembrò adatto alla sua famiglia: era una piccola voragine scavata nella roccia con un ingresso molto stretto. Era perfetta. Chiamò i cuccioli e il compagno e vissero lì per tanti anni felici e contenti.
Lupo energico
Un certo lupo (buono) che vagava per le montagne a passo svelto, pieno di energia, si era avvicinato un giorno a una città e aveva visto uomini e donne che se la passavano male: avevano assolutamente bisogno del suo aiuto. Era andato allora alla CRI e aveva donato un bel po’ del suo sangue lupesco affinché tutte quelle persone ne avessero una stilla. Questa generosa azione lo aveva fatto star bene lì per lì ma il suo potente intuito gli faceva capire che non bastava. Calò la notte e lui si mise ad annusare il vento. Sentì che dal mare giungeva altro dolore. Non esitò un attimo anche se sapeva di correre qualche pericolo: che ci fanno i lupi sulla spiaggia?Arrivò al mare seguendo il suo fiuto, cercò domandò e finalmente arrivò a un luogo dove alcune persone lo stavano aspettando perchè le guidasse verso la salvezza. Il lupo aveva paura ma si fece coraggio, entrò nel cerchio e come per magia le persone incominciarono a seguirlo. Il cammino era lungo e pieno di rischi ma le persone avevano fiducia, sentivano il suo coraggio e la sua forza di capo branco.
Cavallo tranquillo
Verdi colline da esplorare
Con un amico fedele per compagnia
E senza per forza dover parlare
Abbandonarsi a una sottile malinconia
Sognando la casa dove tornare
Trovando la casa per ricominciare
Oh Dio del cielo
Padrone del mondo
Tu che governi tutto l’universo
Io da parte mia mi rendo conto
Che pascer l’umanità non è uno scherzo.
Orso compenetrato
L’orso compenetrato
da solo si è trovato in un posto poco amato.
La sua tana lo ha scacciato e ai dintorni lo ha consegnato.
Posti nuovi, luoghi strani
senza storia e assai lontani
ma cercando in questo altrove
ha affrontato le sue prove.
Prove dure ed agghiaccianti
che lo hanno unito ai suoi migranti
da cui prende assaggia e prova
la paura, l’angoscia, la gioia.
Farfalla libera
C’era una volta una povera farfalla che volava sola e aveva paura di tutto ciò che la circondava. Non andava da nessuna parte e quando vedeva le altre farfalle si tirava in disparte, le altre la chiamavano a volare e a giocare con loro ma lei era tanto triste. Un giorno però arrivò una farfalla tanto bella e tanto buona che la baciò e le disse: “basta di essere così triste, sei meravigliosa, apri più che puoi le tue ali, fai vedere a tutti quanto sei bella e brava. Vola in alto, posati sui fiori e parla con loro.
Questa storia un commento lo merita. M., la maestra che l’ha scritta nei primi incontri del gruppo non riusciva a parlare, era solo dolorosamente inquieta. Dopo aver scritto questa piccola storia, è uscita dal suo guscio di sofferenza autistica e ha compiuto, sul piano di realtà, dei passi importanti. Per esempio, vincendo la paura, è riuscita ad andare a vivere da sola nella sua mansarda al quarto piano, abbandonando la casa del figlio e il letto del nipote nel quale si era rifugiata. La farfalla è volata in alto.
La vita che rifiorisce
Siamo alle battute finali, lo si capisce, oltre che dalle date, dal particolare stato emotivo che aleggia nei gruppi (in questo momento sono quattro). L’argomento terremoto è presente ma si situa sullo sfondo. Si affrontano e si condividono temi più intimi, più personali. Ad esempio la malattia di una madre con la quale si ha un rapporto simbiotico; la morte di un fratello avvenuta da pochi giorni; la solitudine del non avere un compagno vicino; la preoccupazione per la propria salute; l’organizzazione del matrimonio di un figlio; la gioia di diventare nonna. La vita ha ripreso il suo corso. Dedichiamo questi ultimi incontri all’idea della separazione imminente e al feedback sul lavoro svolto.
“Il gruppo mi ha fatto bene, attraverso le altre ho capito il terremoto”; “ho imparato a comunicare con le altre ma soprattutto con me stessa”; “mi sento una persona migliore di quella che ero prima”; ora so che c’è qualcuno che parla anche per me”.
Si fanno doni simbolici, si raccontano storie che non riguardano più soltanto la notte del 6 aprile. Ne ricordo una fra le tante:
“dopo l’incontro in cui a causa della neve abbiamo rischiato di rimanere bloccate nella scuola, scendendo piano, piano con la macchina verso la città mi è venuta davanti agli occhi un’immagine: quella di una bambina con un bel vestito rosa, con i calzini corti, bianchi che percorre quella stessa strada. La bambina è seria, pensosa, è preoccupata per il suo futuro…Ho iniziato a piangere così forte che quasi non vedevo la strada e ho continuato anche a casa e nei giorni successivi facendo preoccupare tutti”.
Questa donna matura che si rivede bambina, che sente le sensazioni di allora, l’incertezza per il futuro così simile a quella di oggi, che piange a lungo e che attraverso le lacrime, come un personaggio di Miller “si toglie i sassi dal cuore”, è una grande restituzione per il nostro lavoro. Piangendo per quella bambina dal vestito rosa la maestra può lasciar andare il dolore di adesso, inconsapevolmente trattenuto e condividendolo lo trasforma in un dono. Per se stessa e per tutte noi. Un’ insegnante racconta un sogno:
“Mi trovavo per la strada, c’era un camioncino di quelli che vendono la frutta. Mi avvicino per comprare qualcosa e vedo che ha tante cassette piene di carciofi bianchi, candidi. Chiedo al venditore da dove vengono perché non li ho mai visti, lui mi dice che dovrei saperlo. Poi mi sono svegliata”.
Propongo alle altre di aiutarla a capire di più connettendosi non sul pensiero ma piuttosto sulla sensazione suscitata in loro dal sogno. Tutte si concentrano sul colore bianco e su ciò che evoca: Purezza, luce, speranza, pulizia, bellezza, nozze, zucchero, dolcezza. I carciofi notoriamente sono scuri, amari, hanno le spine; sognare dei carciofi bianchi denota che la vita interna di questa persona sta rifiorendo. I carciofi bianchi vengono dal profondo della sua anima. La sognatrice è d’accordo.
In un’altra scuola, sempre in questa fase chiedo alle insegnanti di concentrarsi sullo stato d’animo che le caratterizza nel momento presente e di comunicarlo attraverso un soliloquio, un po’ come il monologo interiore di Joyce o “L’essere o non essere” di Amleto. Per vincere l’imbarazzo c’è la possibilità di girare la propria sedia dando le spalle al gruppo e rivolgendosi a un immaginario pubblico. Ecco alcuni dei soliloqui che ho trascritto; il titolo rappresenta lo stato d’animo.
Addolorata
Mi sento addolorata perché ho la consapevolezza di non aver detto tutte le cose che volevo dire e che non potrò dire mai. Mi sento addolorata perché questo gruppo non ci sarà più e non potrò più condividere le mie emozioni, non potrò più attingere la forza per andare avanti. Mi sento addolorata perché la mia anima è a brandelli come le mura della mia città e della mia casa. Mi sento addolorata perché non posso condividere con mio marito i miei dolori perché devo essere forte anche per lui.
Tranquilla
Mi sento più in grado di affrontare alcuni temi con i bambini (terremoto, morte). Sono stata contenta del gruppo così ristretto perché mi ha permesso di esprimermi. Ho avvertito una grande condivisione e partecipazione di tutte.
Angosciata per gli altri
Mi sento tanto angosciata nell’ascoltare le situazioni problematiche delle persone che mi sono vicine. Però nello stesso tempo mi fa bene perché vedo che non sono solo io ad avere quei problemi e anzi, i miei mi sembrano meno pesanti, meno importanti…
Riconoscente
Mi sento riconoscente verso tutte, lavoriamo da tanti anni insieme e non ci conoscevamo. Ero diffidente, chiusa, quando c’è stato il terremoto mi sono chiusa ancora di più. Mi sono attaccata morbosamente alla mia famiglia. Attraverso questo lavoro ho capito che non era giusto, noi possiamo essere una risorsa per gli altri e gli altri per noi.
Tranquilla
In contrapposizione ai tanti stati d’animo vissuti in questi mesi durante i quali mi è sembrato impossibile trovare una dimensione di vitalità. Oggi sento possibile, nonostante le difficoltà quotidiane, conservare il ricordo di ciò che è accaduto senza esserne sopraffatta. Il tempo trascorso mi ha indotto a pensare che è possibile ricominciare è relegata in un angolo che si restringe sempre di più. All’inizio prevaleva su tutto, togliendo lucidità e oscurando i sogni. Oggi mi sento più tranquilla perché mi sento più forte, ho imparato che nulla è per sempre e che bisogna guardare avanti. Riesco anche a pensare al tempo futuro e questo mi sorprende. Per mesi lo pensavo solo al presente o al passato come se non fossi più capace di coniugare le azioni al futuro.
Fiduciosa
La fiducia mi viene dal confronto con gli altri, attraverso il loro dolore riscopro il mio essere più fortunata. La fiducia mi viene dallo sguardo di mio figlio e dall’intraprendenza di mio marito che sta ricostruendo, giorno dopo giorno, il lavoro che ha perduto. La fiducia mi viene dalla consapevolezza che i tre punti fermi della mia vita ci sono e che da lì si può ripartire. Grazie.
Grazie sembra anche a me la parola giusta per la mia restituzione.
…E ANCORA ESTATE
Questa nuova stagione che ricomporrebbe la circolarità del titolo, non è stata vissuta nel lavoro concreto. L’esperienza aquilana si è conclusa in coincidenza con il termine dei corsi scolastici, giusto alla fine della primavera. Alla fine della primavera in una serie di incontri molto toccanti, ho salutato le “mie” maestre. Tuttavia in questi due mesi estivi durante i quali ho fatto il percorso a ritroso al fine di poterne scrivere, ho avuto la sensazione che il lavoro non si fosse mai interrotto. Un filo rosso, ben saldo mi lega a quelle persone e a quei luoghi e seguo, con dispiacere le notizie sulla situazione de L’Aquila. Nel rileggere quello che ho scritto sono riaffiorate tante altre storie e mi sono resa conto che avrei potuto dire di più, almeno in termini di restituzione verso le insegnanti. Ma nello stesso tempo ho pensato che forse la scelta di raccontare solo l’essenziale mi è stata dettata proprio dal loro stile. Il forte animus che le caratterizza, junghianamente parlando, la loro dignità e asciuttezza, mi hanno stimolata nel compito e sufficientemente preservata dalla retorica. L’ironia, onnipresente accanto ai racconti del dolore, è l’altra loro caratteristica che mi ha catturata e guidata. Il senso dell’umorismo, ci insegna Cirulnik, è uno dei principali attivatori di resilienza. Come dimenticare “le mutande della Caritas”, “il quadro della Madonna di Roio”, “le scarpe con il tacco alto in mezzo alle macerie”; la “vignetta” di quel marito che nel pieno del sisma doveva vestirsi di tutto punto per poter uscire, o di quell’altro che in mezzo ai vetri rotti invitava la moglie a verificare che il rubinetto del gas fosse chiuso. E ancora, tutti i racconti tragi/comici della situazione “bagni” nelle tendopoli…. Uno dei ricordi più dolci - in questo caso non posso evitare un po’ di retorica - è legato alla canzone stornellante che mi è stata dedicata e cantata, con tanto di accompagnamento di chitarra, l’ultimo giorno, dall’ultimo gruppo. Confesso che in quell’occasione mi sono commossa.
Il lavoro con le maestre è ufficialmente concluso ma, fuori dall’ufficialità, per me e per loro, ne resta un pezzetto incompiuto. È importante perchè costella la condivisione, uno dei temi centrali dell’esperienza. Mi è stato chiesto di partecipare a un rito. Si tratta di un rito antico che ha significati profondi per la gente di quella terra. Si celebra nella notte fra il 28 e 29 agosto nella Basilica di Collemaggio (parzialmente preservata dal terremoto e parzialmente restaurata) ed è conosciuto come “Perdonanza Celestiniana”. Considero l’invito, oltre che un privilegio, come l’opportunità per chiudere al meglio il lavoro con loro, e certamente non mancherò.
Roma, 31 luglio 2010
La versione integrale dell'articolo è pubblicata nel libro "Le 398 meravigliose maestre di L'Aquila" a cura di Federico Bianchi di Castelbianco e Magda di Renzo, ed. Magi, Roma, 2010.
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