“La tragedia non é una lamentazione sulla caducitá dell'uomo. La messa in discussione delle frontiere fra limitato e illimitato, fra ordine e disordine, fra vita e morte, costituisce un sapere che orienta l'uomo verso una parola in grado di articolare sia la vita che la morte, la gioia come il dolore(1).
Nella tragedia tutto conta, tutto ha la stessa forza e lo stesso peso. É una soglia della possibilitá di esistere, quella dell'essere - richia-mato - alla vita, ma ció che puó vivere é sempre presente e al tempo stesso tutto é sempre presente. L'essere - perfetto é l'es-serci dell'uomo nella tragedia(2).”
Ci sono cittá della Magna Grecia, come ad esempio Siracusa, che conservano intatto il loro Théatron, testimonianza viva di un passato glorioso ma anche e soprattutto simbolo dell'insuperata ricchezza culturale di un'epoca storica. Fortunatamente per noi, tale teatro é attivo oggi quasi come doveva esserlo nel 400 a.C. quando Dionisio I, allora Tiranno della cittá, lo fece erigere.
Ogni due anni, in alcune giornate, tra la fine della primavera e l'inizio dell'estate, quando il sole mediterraneo comincia a cedere alle ombre della sera, con uno straordinario effetto di sincronizzazione della situazione drammatica con i fenomeni reali della natura, sulla skené del teatro greco di Siracusa giunge a compimento la katastrofé e lo spettatore puó sperimentare - in vivo - lakátharsis che é, al tempo stesso, finalitá e conseguenza della tragedia.
Chiunque, assistendo ad una di quelle rappresentazioni, abbia potuto immaginare Edipo nell'atto di trafig-gersi gli occhi con gli spilloni della veste della sua sposa-madre; chiunque abbia udito il Messaggero raccontare di come Medea ha ucciso per vendetta i suoi stessi figli o abbia visto le Erinni del pianto e del sangue, mugghiare atrocemente incalzando dappresso Oreste, l'assassino della madre, potrá forse testimoniare che la catarsi non é solo una parola, un'idea astratta, come pensano i piú.
É appunto il concetto di kátharsis, enunciato da Aristotele nella Poetica - il riferimento alla cittá del fiume Ciane e della mitica fonte Aretusa era in parte pretestuoso - che ci consente di accostare due termini in apparenza inconciliabili - tragedia e rinascita - e di scoprire come in realtá il secondo sia insito nel primo.
Aristotele, sempre nella Poetica, definisce la tragedia come "l’ imitazione di un'azione nobile e compiuta, avente una propria grandezza, in un linguaggio adorno distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale, per mezzo della pietá e del terrore, porta a compimento la purificazione di cosiffatte passioni(3)”. La catarsi, appunto.
Il termine tragedia, secondo l'etimo greco, significa letteralmente "canto del capro" (tragos = capro, oidé = canto). Essa, come del resto anche la commedia, "canto del villaggio" (la fonte delle informazioni in tal senso é sempre Aristotele), si ritiene nata intorno al V secolo a.C. quando, presumibilmente, dal coro ditirambico (corteo che in alcuni periodi dell'anno celebrava le gesta di Dioniso) si stacca una voce che, impersonando la divinitá, incomincia a dialogare con il coro. La natura ambivalente di Dioniso che come sottolinea Zolla(4), rappre-senta nascita, morte e rinascita, conferisce alla tragedia la sua cifra significante, quella che a noi interessa mettere in luce in questa sede.
Intorno alla mitica figura di tale divinitá sono fiorite molte leggende, in varie culture e in periodi diversi. La piú accreditata lo fa nascere figlio di Zeus e di Semele, dunque generato da un nume e da una mortale. Egli viene dato alla luce due volte: la prima dopo soli sei mesi di gestazione, quando Hera, lacerata dalla gelosia per il tradimento del suo sposo, costringe la povera Semele ad un parto prematuro; la seconda tre mesi dopo, quando Zeus "lo mette al mondo" aprendo le fibbie auree della sua coscia, entro la quale lo aveva nascosto (a mo' di incubatrice) per proteggerlo. Successivamente, ancora per difenderlo dalle grinfie di Hera che non placa la sua sete di vendetta, Zeus lo trasforma in capretto e lo affida ad Hermes.
Dopo moltissime e complicate peripezie, tra le quali é compreso un periodo trascorso sotto sembianze femminili e l'esperienza della follia, una volta diventato adulto, Dioniso scopre la vigna e ne fa dono agli uomini. Dioniso é "il capro che la seconda Georgica chiama innamorato della vigna, su cui si avventa straziando e trangugiando, ed é a sua volta assalito dalla baccante che lo fa a pezzi e lo ingoia sbavandone il sangue, ma Dioniso é tutti insieme vite, capro e baccante, graspo spremuto e vino che ne nasce, é insomma il morto che risorge e l'anno sempre risorgente"(5),. Dioniso é una divinitá che muore e tuttavia non é un uomo: é un animale e assieme un dio, assomma in sé il principio maschile e quello femminile manifestando cosí i punti terminali delle opposizioni che l'uomo porta in sé. É il sovrano dell'ebbrezza e della vita ma é anche una divinitá ctonia; a un certo punto del suo percorso, infatti, si reca da Ade,sovrano del regno dei morti, supplicandolo di "far rinascere" la madre Semele; Ade, conquistato dalla soavitá, del giovane dio, esaudisce il suo desiderio accontentandosi di ricevere in dono la pianta del mirto a lui consacrata. Dioniso é dunque colui che si muove con disinvoltura fra luce ed ombra, che puó connettere con l'aldilá e mediare il ritorno alla vita "diurna"; puó apparire trasognato e benefico - il fanciullo roseo e paffuto di certi quadri del Caravaggio - ma puó trasformarsi inaspettatamente in belva efferata e crudele. Cosí recitano versi di Euripide:
Lui é dolce quando cade tra le schiere che corrono tumultuanti,
con pelle di cerbiatto come sacra veste, assetato
del sangue di un capro ucciso, afferrando la gioia di carne viva, divorata,
affrettandosi verso i monti della Frigia, della Lidia(6).
"Dioniso affratella i contrari, il riso e il pianto. L'uni a cui introduce é vita e morte insieme(7)",. Nel dionisismo - scrive Nietzsche ne La nascita della tragedia – “il dolore risveglia la gioia e il giubilo strappa dai petti grida angosciose(8)".
É vero che Jung conferisce a Hermes l'attributo di psicopompo degli alchimisti, loro amico e consigliere, colui che li guida al traguardo della loro opera; tuttavia Dioniso, forse perché di Hermes é stato figlio adottivo puó anche essere visto come promotore di quella coniutio oppositorum - locuzione che Jung prende a prestito dalla letteratura alchemica - simboleggiante trasformazione e rinascita psichica.
Originariamente, non va dimenticato, le tragedie venivano messe in scena soltanto nelle feste dedicate a Dioniso - le grandi Dionisie urbane, che si celebravano, in primavera, le Lenee che avevano luogo alla fine di dicembre - e il teatro che le ospitava, di cui si possono visitare anche oggi i resti, fu sempre il "teatro di Dioniso",con un bel seggio di pietra per il sacerdote e un altare del dio al centro (thymele), nel luogo destinato ai movimenti del coro (orchestra). La prima compagnia di attori professionisti (tragoidot) - 277 a.C. - si chiamó “Artisti di Dioniso". Non va dimenticato che la tragedia mantenne sempre la dualitá originaria - coro e personaggi - e che le grandi opere di Eschilo, Sofocle, Euripide, ma anche quelle di Agatone, Frinico, Pratina, Tespi (il primo autore tragico, del VI secolo a.C.), nominate da Aristotele ma che purtroppo non ci sono pervenute, furono tutte sotto l'egida di Dioniso. L'eroe della tragedia, colui che va incontro al suo fato con disperazione ma a testa alta - come Edipo - o con eroico sprezzo - come Prometeo - é riconosciuto anche da Nietzsche l'eroe dionisiaco per eccellenza, l'ipostasi stessa del dio Dioniso.
Nel saggio del '39 Sul rinascere Jung, premettendo che si tratta di un concetto complesso e sfaccettato, presenta alcune diverse forme di rinascita e ne descrive gli aspetti psicologici. Il tipo di rinascita che puó essere attribuito alla tragedia é quello definito dal padre della psicologia analitica come "rinascita indiretta": "Qui la trasformazione non si verifica direttamente, con il passaggio dell'uomo stesso attraverso la morte e la rinascita, ma indirettamente attraverso la partecipazione ad un processo ditrasformazione, concepito come qualcosa al di fuori dell'individuo. Si tratta della partecipazione o della presenza a un rito di trasformazione(9)",.
E ancora: "Nel dramma misterico la trascendenza della vita rispetto alle sue forme di volta in volta concrete é rappresentata soprattutto dalle esperienze di trasformazione - morte e rinascita - di un dio (Dioniso) o di un eroe divino. L'iniziato, perció, puó essere o un mero testimone del processo o prendervi parte o essere preso dal dramma divino o identificarsi col dio (o con l'eroe, nel caso della tragedia) attraverso l'atto rituale"(10).
In un altro passo sempre dello stesso scritto, Jung, parla di partecipation mystique a proposito di un gruppo che partecipi a un'esperienza di trasformazione e riferisce espressamente alla rappresentazione teatrale: "A teatro, ad esempio, tutti gli sguardi si incontrano, ognuno osserva l'altro e gli spettatori sono tutti presi nella rete invisibile di una reciproca relazione inconscia. Se questo stato si intensifica, si é addirittura trascinati un'ondata generale di identitá con gli altri"(11).
Ma torniamo al concetto di catarsi. Come abbi giá visto, Aristotele la descrive come la depurazione delle passioni, essenzialmente pietá e terrore, contemporanea alla loro stessa produzione nell'anima dello spettato che si immedesima nell'eroe tragico; la catarsi dunque,è insieme finalitá e conseguenza della tragedia, "che per mezzo di pietá e paura, porta a compimento la purificazione da cosiffatte passioni".
Nel saggio Preliminari delle fantasie di Miss Miller, quasi ricalcando la definizione aristotelica, Jung sostiene che il godimento della tragedia nasca in virtú del sentimento raccapricciante e insieme benefico di veder accadere altri ció che minaccia noi stessi.
Ma come dev'essere questo sentimento raccapricciante/benefico, come devono manifestarsi pietá e terrore perché la kátharsispossa verificarsi? Aristotele lo spiega con dovizia di particolari.
Per l'autore della Poetica, pietá si esperisce essenzialmente quando si vede qualcuno subire una sventura immeritata; il terrore lo proviamo solo quando tale sventura colpisce chi ci appare simile. Perció, affinché questo avvenga, l'eroe tragico non deve apparire completamente integro e nemmeno totalmente malvagio, deve possedere una connotazione: morale intermedia tanto da poter essere giudicato dallo spettatore alla propria portata. Moralmente accettabile ma capace di commettere degli errori: uno quasi come noi, preferibilmente un po' migliore di noi e non meritevole di tanta sventura (nella commedia invece le persone imitate devono essere peggiori di quelle esistenti). L'elemento di mediazione che temperi pietá e terrore, spiega Aristotele, é costituito dal fatto che il personaggio deve cadere nella sventura per errore, anzi per un grave errore. La vicenda tragica non é mai una storia di colpa e punizione o di colpa e redenzione, é una storia di errore e di sfortuna (o fortuna). É proprio lo sbaglio soggettivo, di cui il personaggio ha piena responsabilitá, o la sfortuna che si accanisce contro di lui - circostanza di una sorte eroica, cosí la definisce Teofrasto - a permettere allo spettatore la distanza necessaria che lo salvaguarda e gli impedisce di essere trascinato nella rovina insieme all'eroe. Se abbiamo interpretato correttamente le parole di Aristotele, é dunque la colpa (o la sfortuna) di cui si macchia il protagonista della tragedia (colpa che ovviamente noi non commetteremo, né da tanta sfortuna saremo perseguitati) e la rovina che ne consegue che, riscattandolo da essa, rende possibile la purificazione da cosiffatte passioni. L'altro elemento essenziale che permette la purificazione aristotelica, é che sulla scena non viene rappresentata la vita reale ma piuttosto un'imitazione di essa (mimesis).
Nell'animo del nostro ipotetico spettatore del teatro greco di Siracusa, in quelle sere d'inizio d'estate, la catarsi avviene dunque a partire da un particolare processo di identificazione, come del resto aveva giá suggerito anche Freud che ai tragici greci deve alcune delle sue piú grandi intuizioni.
Il tema é complesso e merita di essere approfondito. Karl Jaspers, il grande filosofo esistenzialista, nonché eminente psichiatra, al tragico ha dedicato un saggio nel quale isola proprio tale elemento in rapporto alla redenzione. Assumendo l'analisi della tragedia fatta da Aristotele ma immettendovi elementi nuovi, nati da piú moderni interrogativi filosofici, egli ne amplia la portata. Secondo Aristotele, nella tragedia si rispecchia la vita umana in tutta la sua estensione, ma in una prospettiva che non é quella etica che guarda all'interno, bensí quella esterna del risultato. Perció il poeta tragico non dovrá rappresentare azioni in funzione di caratteri, ma al contrario, caratteri in funzione di azioni. La conferma si ha nel fatto giá ricordato che allo schema interpretativo: colpa/punizione o redenzione, si sostituisca l'altro: errore/sfortuna o fortuna. Per Jaspers tale interpretazione non é sufficiente. Egli infatti scrive:
La tragedia vuole di piú: la catarsi dell'anima. Va detto che neppure in Aristotele risulta chiaro cosa precisamente sia questa catarsi. Ma é comunque un evento che riguarda la piú intima personalitá umana. É un aprirsi del nostro spirito all'essere, nato non solo dall'esperienza della contemplazione esterna, ma da una nostra diretta partecipazione interiore, un'assimilazione del vero grazie alla purificazione da tutto ció che fa velo, che intorbida, che impaccia la nostra angusta e accecante visione del mondo(12).
Nell'ottica jaspersiana la visione del tragico, un evento che mostra tutto l'orrore dell’ ésistenza umana avvolta nelle spire della sua natura, introducendo la possibilitá della sua trascendenza, comporta anche una liberazione, una redenzione che sembra essere piú profonda della catarsi aristotelica. Jaspers piú precisamente parla di liberazione nel tragico o di liberazione dal tragico. Nel primo caso l'eroe si affranca sopportando la tragedia che si abbatte su di lui e trasformandosi in essa. Lo spettatore, attraverso l'opera di poesia (secondo noi non basta leggerla, é indispensabile vederla rappresentata e in questo dissentiamo da Aristotele il quale afferma che l'efficacia della tragedia si conserva anche senza la rappresentazione e senza gli attori(12)), prende coscienza di ció che puó salvarlo. Nel personaggio tragico, che si comporta eroicamente, nella sua capacitá di trascendere il proprio interesse personale per ripristinare un ordine superiore (Antigone in tal senso é un esempio insuperabile ma lo sono anche Oreste ed Elettra nel momento in cui sfidano le Erinni per vendicare l'assassinio del padre), lo spettatore non vede solo se stesso; egli contempla la grandezza dell'uomo e anche il suo lato oscuro, la sua dignitá anche nel male. Delitto e castigo diventano perció categorie anguste concettualmente non utilizzabili (Medea, Fedra, Clitemnestra).
La sua colpa si converte in necessitá determinata dal carattere dell'eroe stesso, che quindi é incolpevole, e la sua sconfitta si converte in riparazione(14).
In quella che Jaspers definisce liberazione dal tragico é la tragedia stessa che facendo del suo centro di forza un'intuizione o la conoscenza di una realtá superiore, rende possibile la rinascita. Un'opera esemplare in tal senso é l'Orestea (trilogia di Eschilo composta da Agamennone, Coefore, Eumenidi). In essa, dopo le varie peripezie e i fatti orrendi che portano all'uccisione di Agamennone da parte della moglie Clitemnestra a sua volta assassinata dal figlio Oreste che per tale delitto viene perseguitato dalle Erinni, si ha la riconciliazione fra divinitá e demoni: Athena, la dea della sapienza, la figlia scaturita dalla testa di Zeus, con il fascino delle parole convince le Furie (che da quel momento in poi si chiameranno Eumenidi, le benefiche) ad accettare di diventare oggetto di culto nella cittá di Atene. Da tale riconciliazione nasce l'ordinamento dell'umanitá associata nella polis:
Alla tragica etá degli eroi subentra l'etá del diritto e dell'ordine dell'attivitá colma di fede in seno alla polis, non disgiunta dal culto degli dei.
Quello che, in un'oscura notte, fu sostanza tragica, diviene ora il terreno di una vita luminosa(15).
Coro delle Eumenidi: Godete, godete felicitá, due volte ve l'auguro,
popolo della cittá uomini e potenze divine. Vi é dato abitare
la rocca di Pallade! Offrite culto a me e la vita per voi sará solo sorriso".
Noi godiamo dei versi di Eschilo e siamo convinti che la contemplazione della tragedia possa far nascere quel senso "tragico" della vita, quell'equilibrio fra apollineo e dionisiaco che per Nietzsche é il modello di esistenza piú pieno e piú ricco. L'uomo che conquista coscienza tragica, apre gli occhi sul mondo; diventa capace di perseguire le sue illusioni e nello stesso tempo di rinunciarvi accettando i limiti inevitabili della condizione umana. L'uomo tragico considera la sua vita come un'opera d'arte, che viene concepita, plasmata, levigata, per poi inevitabilmente dissolversi. Nel sacrificio di Antigone, nella disgrazia di Ippolito, nella morte di Edipo a Colono lo spettatore puó contemplare il trionfo della vita stessa che si conserva eterna e pura, malgrado il fato,i demoni, le debolezze degli dei e degli uomini.
NOTE
1.Rella, E (1804), "Introduzione a E Hólderlin", in Edipo il tiranno, Feltrinelli, Milano 1991, p. 9.
2.Lukás, G., in AA. W, Igreci, vol. I, Einaudi, Torino 1996, p. 503.
112.Renata Biserni
3.Aristotele, Poetica, Rusconi, Milano 1995, p. 67.
4.Zolla, E., II dio de1febbreZZa, Einaudi, Torino 1998.
5.Ibidem, p. XI.
6.Euripide, Baccanti, Garzanti, Milano 1987, p. 125-
7.Zolla, E., op. cit., p. XIX.
8.Nietzsche, F (1872), La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1977, p. 25.
9.Jung, C.G. (1940/50), "Sul rinascere", in Opere, voi. 9*, Boringhieri, Torino 1980, p.
10 Ibidem, p. 115.
11.Ibidem, p. 124.
12 Jaspers, K. (1952), Del tragico, SE, Milano 2000, p. 22.
13 Aristotele, op. cit., p. 71.
14 Jaspers, K., op. cit., p. 61.
15. Ibidem, p. 62.
16 .Eschilo, Le Eumenidi, Garzanti, Milano 1989, p. 263.