QUALE MORENO? di Zerka Toeman Moreno
Penso che dovrò presentarvi Moreno. Ma quale Moreno, lo psicologo sociale, il drammaturgo, lo psichiatra, il ricercatore, il teologo? Ho deciso di concentrarmi sull'aspetto drammatico.
Moreno si occupava di diversi approcci al dramma. Innanzitutto quello del creatore, del drammaturgo, del poeta sostenendo che la creazione in sé è il prodotto finale di un processo creativo che resta invisibile. Poi si interessò al teatro dal punto di vista dell'attore, il cui compito è di trasmutarsi in uno strumento per recepire la creazione del poeta e trasmetterla. Moreno infine si occupò del rapporto del pubblico con questo processo.
Non c'è alcun dubbio che per i Greci anticamente andare a teatro fosse una necessità religiosa, un rituale prima che divenisse una forma d'arte. Se pensiamo a come Aristotele considerava il processo di catarsi, occorre ricordare che egli parlava della tragedia come di una cosa che non era soltanto declamata, ma anche rappresentata dagli attori con delle ampie dimensioni e che aveva particolari rapporti con emozioni come la compassione e la paura che si risvegliano nel pubblico. La parola catarsi significa purificazione, sollievo.
Per Moreno però è importante ricordare che le persone che in qualità di attori stanno rappresentando un'opera, non sono le vere persone evocate dall'opera. Cosa succede alla psiche dell'attore che deve prendere dentro di sé tutta questa materia drammaturgica estranea che in origine non gli appartiene, che non è di sua personale creazione?
Più tardi Moreno ebbe occasione di curare molti attori per una particolare malattia nevrotica che chiamò "nevrosi istrionica".
Cos'è questa nevrosi? È una malattia professionale degli attori la cui personale creatività deve essere contenuta e sottoposta alle esigenze dello spettacolo perché al primo posto viene sempre messa la creazione del drammaturgo. È una malattia emotiva, una nevrosi laterale che tende ad emergere non in teatro ma nella loro vita privata.
Per curarla Moreno cercò di permettere a questi attori di rappresentare sulla scena i loro ruoli personali che durante il lavoro erano repressi.
Un giorno mi raccontò dell'incontro con Eleonora Duse. Non so se sapete che Eleonora Duse recitava tenendo sotto il palcoscenico da quattro a sei suggeritori, perché si rifiutava di imparare a memoria le battute del copione. Ebbene Moreno mi disse di aver discusso con lei della "nevrosi istrionica". Quando le chiese perché dovesse avere tanti suggeritori intorno a sé, lei gli rispose: "Io detesto gli autori che rappresento. Loro pretendono di farmi dire tutto quello che devo dire, sentire e esprimere e rappresentare. Ma io mi rifiuto, io non voglio sapere a memoria le loro parole, io vorrei conoscere solo i sentimenti dei personaggi".
Così la Duse riusciva a essere sempre molto spontanea perché recitando si allontanava dal copione.
Passiamo a considerare il rapporto dell'attore con lo scrittore, con la sua produzione, col ruolo da rappresentare, con la sua personalità imprigionata nel ruolo, con gli altri ruoli che si devono affrontare nell'opera, con le persone che stanno rappresentando questi ruoli. I disturbi possono verificarsi a tutti questi livelli.
Una storia ormai classica è quella di una giovane attrice viennese che al di fuori del Teatro della Spontaneità faceva il ruolo della Vergine Maria nelle opere della Passione o il ruolo della giovane innocente in varie opere teatrali.
Questa donna di nome Barbara si sposò con un poeta che dopo qualche settimana di matrimonio in preda alla disperazione andò a cercare Moreno e gli disse: "Non so più cosa fare con mia moglie. Quell'essere angelico che tutti vedete sul palcoscenico, a casa diventa una completa strega. Usa un linguaggio da strada, triviale e mi respinge violentemente quando cerco un contatto con lei. Pensa che potrebbe fare qualcosa col Teatro della Spontaneità?".
La cosa accadeva qualche settimana dopo che Moreno aveva lasciato il Teatro della Spontaneità ed aveva cominciato "Il giornale vivente". Infatti nel Teatro della Spontaneità, se tutto andava bene, la gente non credeva che la cosa fosse autentica, dicevano che la spontaneità non poteva realmente funzionare fino a quel punto. E quindi, per poter dimostrare che niente era stato preparato e che gli attori e le attrici lavoravano con spontaneità, Moreno aveva pensato di inscenare i fatti del momento, quelli di cui si parlava per le strade o gli avvenimenti quotidiani della cronaca di Vienna.
Quando gli attori tornavano in teatro si creava, di giorno in giorno, la struttura dell'informazione da trasmettere. Così quel giorno era arrivata la storia di una prostituta nel quartiere delle luci rosse di Vienna che per soldi era stata uccisa dal suo protettore. Appena Barbara, la purissima giovane attrice, arrivò in teatro, Moreno le disse: "Sa, penso che Lei stia diventando ripetitiva, che il Suo repertorio non sia più fresco ma stantio. Credo che abbia bisogno di un rinnovamento. Le piacerebbe fare la prostituta questa sera?". E Barbara rispose: "Anch'io ho pensato la stessa cosa e sono d'accordo. Però questo ruolo di prostituta è così diverso dagli altri ruoli che ho sempre fatto! Lei pensa che potrei farcela?". E Moreno rispose: "Mi fido di Lei". Fu così che Barbara fece un lavoro stupendo. Fu capace di utilizzare tutta la ribellione interiore che a teatro era stata sempre coperta dall'immagine esteriore di femminilità angelica e pura. Fu finalmente capace di utilizzare, di convogliare l'aggressività brutale che era esplosa nella sua vita di coppia, in maniera creativa, nel ruolo teatrale.
Il ruolo del protettore venne interpretato da Peter Lorre. Moreno lo aveva scoperto molto prima che lui diventasse un celebre attore e che facesse il famoso film "M". Non so se ricordate la strana espressione facciale che Peter Lorre era capace di fare. Anche questa fu imparata a Vienna al Teatro della Spontaneità, facendo il ruolo dell'assassino magnaccia.
Da allora Barbara cominciò a fare questi personaggi dei bassifondi, e li faceva bene. Ma cosa succedeva nella sua vita privata?
Successe che smise di utilizzare le sue espressioni più volgari, il suo linguaggio brutale col marito. La cosa non avvenne di colpo, però Barbara cominciò gradatamente a sviluppare un certo humor e quando a casa si scopriva di nuovo nel ruolo della donna volgare, smetteva immediatamente, dicendosi: "No, questo non devo farlo, l'ho fatto ieri a teatro". Cominciava cioè a correggere se stessa, a poter prendere distanza dai suoi attacchi distruttivi.
Quello che Moreno scoprì è dunque che il ruolo in se stesso può diventare una costrizione e che dobbiamo imparare più ruoli e diverse variazioni dello stesso ruolo.
Lo aveva osservato la prima volta lavorando con i bambini nei giardini di Vienna. Lì s'era accorto che quando improvvisava con loro i racconti di fate, la prima volta i racconti erano splendidi, ma quando erano ripetuti con frequenza diventavano sempre più stereotipati. Succedeva che si cominciavano a ripetere le migliori soluzioni espressive, le migliori parole, anche per risparmiare energia. Il prodotto finale di questo tipo di creatività, Moreno amava chiamarlo "conserve culturali": opere, musiche, sculture, creazioni artistiche in generale. Diceva di rispettare molto i classici prodotti di questi processi di creatività ma che, a suo parere, si dava poca importanza ai processi stessi.
Moreno voleva sottolineare più che il suo prodotto finale, la creatività come processo naturale di energia che scorre. In un certo senso Moreno amava, quello che era imperfetto. In un certo senso una delle ragioni per cui iniziò a lavorare con dei pazienti mentali era che a loro è consentito di essere così imperfetti, pazzi come sono. In ogni caso questi individui non possono essere fermati. Li si può non accettare, ma non li si può fermare, Moreno diceva che la loro poteva essere creatività patologica, ma che restava comunque creatività. E che se si poteva studiare la forma patologica della creatività, allora forse si poteva trovare qualcosa che riguardasse anche la forma naturale, sana della creatività.
"Se è patologica, è mio compito di psichiatra - diceva - farla diventare integrata".
C'è stato un avvertimento in particolare di Moreno che egli annunciò molti anni fa e che oggi è stato accettato: di considerare seriamente il pericolo della macchina, di non permettere che la macchina diventi troppo forte, che il suo funzionamento prenda il posto della creatività umana.
Una delle sue affermazioni era: "L'essere umano ama i figli della sua mente molto di più che i figli del suo corpo" e direi che aveva descritto bene il pericolo con cui il mondo deve fronteggiarsi oggi".