Seminario del prof. Sadi Marhaba (UniPadova) sulla Storia della Psicologia in Italia - 2015
Sadi Marhaba, Università di Padova
Clicca qui per l'elenco dei libri suggeriti da Marhaba
Clicca qui per gli allegati alla lezione del prof. Marhaba
N. d. R.
Caro Sadi, per ricordare il tuo intervento alla scuola Ipod ho preferito mettere sul sito la tua mail "catartica" anziché il tuo ricchissimo testo sulla storia della psicologia in Italia. Non c'è bisogno di spiegare il perché. E mi sono permesso di inserire alcune delle foto di tuo figlio Nader di cui parli nella lettera: un ragazzo che sembra nato per il ruolo e i ruoli di attore e invece vuol fare il fabbro. Un affettuoso "bricconaggio", col permesso di Nader, che crea uno curioso contrasto bicamerale tra immagine e concetto. Strano ma vitalizzante come cerchiamo di ottenerlo nel nostro psicodramma. Spero che ti divertirai anche tu come mi sono divertito io. Abrazos, Ottavio
Amico mio Ottavio,
questo re-incontro fra noi alla tua scuola di formazione in psicoterapia sento che è importante. Per me, lo è sul piano affettivo, perché tu esprimi e dai vita e voglia di vivere e ispiri la convivialità, che è il sale della vita, e sul piano intellettuale, creativo, operativo per progetti non di stupido narcisismo ma di significato e utilità per le persone, ovunque esse siano. Sono felice anche dell'incontro di Nader con te. E ti ringrazio tanto. Inutile dire che Nader è entusiasta della tua scuola, dei tuoi amici, di Julia, dice che trasmetti tranquillità, rilassatezza, ironia... e mi ha parlato anche dei nove cuccioli di cocker.
Poi c'è Roma, dove sono nato nel 1947 e dove sono successe le prime cose importanti della mia vita. A Roma il mio primo amore, a Trastevere andavo sempre in Vespa dall'editore Armando Armando, che mi voleva far sposare la figlia, da Armando conobbi e divenni amico fraterno del teologo della "morte di Dio" Sergio Quinzio, e la mia casa era vicino a Piazzale degli Eroi, come la mia scuola elementare. Fino alla quarta, poi andai a vivere nel Libano fino a 17 anni, e infine tornai a Roma, dove mi laureai in Filosofia nel 1968. Poi Urbino, Trieste, e ormai da tantissimi anni questa spenta Padova, dove spero di non morire... Vorrei morire, ma lo dico allegramente, a Roma dove sono nato o in Palestina dove si tocca con mano il rapporto di continuità fra vita e morte. E dove abbiamo un pezzetto di terra, vicino a Betlemme, su cui vorrei costruire qualcosa di utile per la gente e di simbolico per la pace fra gli uomini.
Ormai a Roma non ho più nessuno di allora, a parte colleghi dell'università cui non mi sento molto affine. Quindi ormai tu per me sei anche Roma, quella parte buona di Roma che ho dentro di me, pur conoscendo bene anche le sue parti non buone. Vecchie e nuove. Mio figlio Nader al quale un tuo allievo fotografo che fa parte della scuola ha fatto un book di fotografie vuole vivere a Roma. Gli diono spesso che, nonostante la sua introversion, dovrebbe fare l'attore. Lui dice di sì e continua a fare il fabbro. Ma se verrà a Roma io forse lo seguirò. Visto che ci siete voi, ho un forte motivo in più.
Il Piombo e l'Oro del Perdono. Da 36 anni seguo da vicino le vicende palestinesi, senza però alcun impegno politico. Mia moglie Karima e la sua famiglia, che è anche la mia famiglia, nove fratelli e sorelle con tanti figli, sono di un ex-campo profughi vicino a Betlemme. Il nonno era agricoltore e proprietario di terra vicino a Haifa, vennero gli ebrei in quel lontano ma sempre presente 1948, uccisero, impiccarono col filo di ferro spinato, applicando la "strategia del terrore" ben appresa in Europa, presero le terre e le case ai superstiti fuggitivi, e il nonno di Karima con la famiglia visse nelle montagne per mesi prima di trovare rifugio nel campo profughi vicino a Betlemme, che allora era in Giordania. Poi, nel 1967, anche quella parte - la Cisgiordania - venne occupata da Israele. La nonna, oggi morta ma che conobbi 35 anni fa, aveva ancora la grossa chiave di ferro arrugginito della loro casa vicino a Haifa. Sperava di tornarci.
Puoi immaginare le storie che ho visto e che mi hanno raccontato. Massacri, torture, ragazzi imprigionati per vent'anni per aver tirato una pietra o anche senza averla tirata, famiglie spezzate, la ragazza di Betlemme vestita da sposa che mentre c'è la cerimonia nuziale viene centrata dal cecchino nella testa, i calvari burocratici di mesi o anni per avere un semplice permesso di uscita dal campo, e mille altre cose. L'incredibile maschera quotidiana degli arabi israeliani, tutta un'altra realtà rispetto alla famiglia di mia moglie che è dei "Territori Occupati", e che vivono in Israele come cittadini di seconda o terza classe e parlando ebraico. E con un incredibile odio inespresso e inesprimibile, anche a se stessi.
Ho anche fatto amicizia con ebrei del posto, israeliani. Ricordo a Gerusalemme una famiglia di intellettuali emigrata in Israele dagli USA, che era affascinata dai miei racconti sul campo profughi dove andavo tutti i giorni a trovare la mia fidanzata Karima, e dove loro non potevano andare. Volevano sapere da me se i palestinesi erano esseri umani come loro.
Ricordo l'imbarazzo sul volto della giovane poliziotta israeliana, quando le dissi che trattare così i palestinesi era disumano e le sue parole sussurrate "Sì, non dovremmo fare così".
Ho anche visto da vicino la spaccatura etnica e culturale fra le due principali comunità ebraiche, quella dominante di origine est-europea, e quella proveniente dai paesi arabi (Marocco, ecc.), spesso assimilabile ai "kapò" nei rapporti con i palestinesi. I fantasmi nelle loro teste, come quando l'impiegata delle poste israeliana, ebrea di origine marocchina, mi disse in estasi: "Tu sì che hai la faccia del vero ebreo, come vorrei essere come te". Cose di cui nessuno parla.
Ho toccato con mano la solitudine dei palestinesi - che oggi è, molto di più, quella dei popoli dell'Africa nera, in cui muoiono milioni senza che nessuno lo sappia, e anche se si sa è come non saperlo. Come la bambina del campo, che disse al mio amico giornalista italiano: "Se non parlate di noi, noi non esistiamo". Come il ricco saudita che accompagnai nel suo giro di shopping a Milano, con mio cugino libanese, il quale mi disse: "Non parlargli della sofferenza dei palestinesi, perché non vuole sentire queste cose, soprattutto mentre mangia". Come il giovane filosofo e teologo cattolico che disse a casa mia - davanti a mia moglie che ancora non capiva l'italiano - che i palestinesi sterminati dagli ebrei erano fortunati, perché venivano sterminati dal popolo eletto da Dio. Lo cacciai di casa, mia moglie non capiva perché, poi mi telefonò chiedendomi scusa. Non credo di averlo perdonato, perché chiedeva perdono senza capire perché doveva chiederlo.
La "questione palestinese" è, ancora oggi, una sorta di metafora molto concreta sull'odio e sull'impossibilità - sembra - della pace, della concordia. Anche se, proprio nelle notizie di oggi, sembra che la Svezia riconoscerà lo Stato di Palestina, e forse altri Paesi europei seguiranno. E alcuni fra i più importanti intellettuali israeliani, Grossman e altri, hanno firmato un appello affinché l'Unione Europea riconosca lo Stato di Palestina.
Ma ormai non mi fido, ho imparato in tanti anni a non fidarmi. Ricordi i tempi di Rabin e Arafat che si abbracciavano? Il funzionario della Questura di Padova, cui facevo presenti le difficoltà burocratiche di un fratello di mia moglie, in quei giorni mi disse quasi con astio: "Va bene, ma ormai avrete quello che volete, c'è la pace".La "questione palestinese", anche a causa del passato ebraico, e anche per il contesto umanamente e spiritualmente dilatato e forse escatologico della "Terra Santa", riguarda aspetti archetipici e insondabili della natura umana. Lì il Bene e il Male si affrontano a viso scoperto, e lì più che altrove si esercita la continua beffa del Male sul Bene, che però sempre risorge. Il Bene e il Male sono dentro di noi, di noi tutti, non è che gli ebrei sono il Male e i palestinesi sono il Bene. E' tutto molto più complesso e interiore. Per questo, per cercare di esprimere queste cose sono necessari gli strumenti concettuali che tu sai usare. Forse, solo questi strumenti, portati all'estremo. Quando i palestinesi, sterminati e cacciati dalla Giordania, nel 1970, entrarono nel Libano, molti libanesi li percepirono come oppressori, e i palestinesi nel Libano fecero molti soprusi. Quando dicevo ai miei familiari libanesi che mia moglie era una profuga palestinese, musulmana come loro, si irrigidivano come se avessi detto che era un'israeliana... Certo, si può ribattere che all'origine di tutto c'è il grande sopruso israeliano, ma questo non cambia la sostanza delle cose, cioè che tutti gli uomini sono esposti al Bene e al Male. Anche i tibetani sono stati persecutori, e anche altri popoli buddisti. I palestinesi hanno la grazia di non poter essere persecutori, grazia non concessa agli ebrei che da perseguitati sono diventati persecutori. Secondo un classico detto di uno dei padri fondatori di Israele, ripreso e ripetuto migliaia di volte: "Questa volta tocca ad altri subire l'ingiustizia, non più a noi". Come se l'unico modo concesso agli uomini, per uscire dalla loro sofferenza, fosse quello di arrecare sofferenza ad altri uomini.
Per inciso, sappiamo che "Shoah" in ebraico significa "Catastrofe", non "Olocausto", come l'hanno cristianizzato gli occidentali. Nella Bibbia, "Vecchio Testamento" come si diceva, non c'è il concetto della redenzione. E neppure quello del PERDONO.... Ma questo non lo praticano neppure i cristiani, che pur ce lo hanno, eccome, nel Vangelo. In realtà, non lo pratica quasi nessuno sulla Terra. Pochi mesi fa il papa andò in Terra Santa, ricordi. Guardai con commozione tutta la diretta su Internet, i volti scolpiti dei rabbini e dei religiosi islamici che si abbracciavano, le preghiere miste ebraiche e islamiche, le musiche intrecciate. Ma, proprio per questo, dentro di me c'era paura. Sapevo che il Male stava ridendo e preparando la rivincita. Poco tempo dopo, l'omicidio dei due ragazzi, la rappresaglia israeliana secondo il criterio "un morto nostro = 100 morti palestinesi", Gaza distrutta, centinaia di bimbi massacrati dalle bombe, il mondo impotente e indifferente o complice, il fratello di mia moglie - 5 figli, vive nel campo a Betlemme - che mi dice al telefono: "Sì, mille o duemila morti, ma così paghiamo il nostro diritto di essere ascoltati". Mi è tornato in mente Cavour che mandava pochi soldati a morire in Crimea per ottenere diritti al tavolo della pace. Ma i morti palestinesi non bastano mai. E non c'è Cavour.
I bambini fatti a pezzi nei video su Gaza, guardati da poche decine di persone, mentre la giovane deputata israeliana, di cui ho visto la foto, bella come un'attrice e ingegnere informatico, dice in pubblico: "Bisogna che i nostri soldati uccidano le madri palestinesi, perché così non nascono i piccoli serpenti dei loro bambini". E, con queste parole, ottiene ancora più voti. Perché stiamo parlando di un paese democratico. Ed è questo che fa più paura, ben al di là di Israele. La democrazia genera mostri come la dittatura. La differenza è che i mostri delle dittature alla fine vengono uccisi da qualcuno, invece i mostri delle democrazie scrivono libri sulle loro memorie e li vendono con successo.
Tuttavia, bisogna andare al di là dell'odio e della vendetta. Bisogna andare persino al di là della Giustizia, perché se si vuole Giustizia il genere umano finisce subito.
Questa necessità di "andare al di là", l'abbiamo capita in tanti - o forse in pochi, non so. Per esempio io, così coinvolto negli affetti, tu, che ti sei commosso realizzando quei cinque minuti così significativi del Piombo e l'Oro del Perdono, molti ebrei dentro e fuori Israele, molte persone "comuni" in tutti i Paesi, e persino le vittime dirette.
Per esempio, l'ha capita un altro fratello di mia moglie. Tanti anni fa tirava le pietre, e i soldati israeliani giurarono che lo avrebbero fatto secco. Infatti il cecchino sparò, ma anziché lui uccise per sbaglio un amico che gli stava accanto. Di questo amico il fratello di mia moglie ha preso il nome, cambiando il proprio, e venendo in Italia da noi tanti anni fa risparmiò la sua vita. Qui ha studiato biologia, ed essendo molto dotato è diventato ricercatore all'Università di Siena. Ebbene, in quell'accogliente città di Siena - a Padova, che oggi ha un sindaco leghista, non avrebbe potuto farlo - per molti anni ha organizzato gruppi d'incontro internazionali fra ebrei e palestinesi, facendo venire anche famosi intellettuali e scrittori ebrei dagli USA e da Israele. Oggi vive da alcuni anni a Houston, nel Texas, dove ha fatto carriera, ma sogna di tornare in Palestina. O almeno in Italia. Perché il Texas è troppo diverso... Ha da un anno una giovane moglie palestinese.
Tanti anni fa, oltre venti, scrissi molte osservazioni sulla condizione palestinese, paragonandola a quella ebraica. Erano gli anni in cui Golda Meir diceva: "I palestinesi? Non esistono". Ciò che vedevo mi feriva e reagivo da intellettuale, con analisi storiche e soprattutto psicologiche e antropologiche. Diedi un pezzetto del "libro-shock" che avevo scritto a un tizio, che lo diede a Inge Feltrinelli, che voleva incontrarmi e pubblicare il libro. Ma io non lo feci, perché avevo paura di rappresaglie sulla famiglia di mia moglie. Proprio in quel periodo, per esempio, un giovane studente palestinese di Padova era tornato a casa per vedere la famiglia dopo anni, e non si era più saputo nulla di lui. Aveva fatto qualche attività politica a Padova. Poi parlai del mio libro per una notte con un famoso storico accademico inglese, Crombie, che voleva pubblicarlo anche lui con la Oxford Press, e non ne feci niente per gli stessi timori. Parecchio tempo dopo lo proposi a un giovane collega di psicologia che lavorava in Germania, ma mi disse che quel testo era "pericoloso" per lui e che sperava che il suo rifiuto di aiutarmi non avrebbe suscitato una mia ritorsione accademica nei suoi riguardi...
Tutto rimase nel cassetto. E io fui preso da altre cose (la mia vita è stata ed è...complessa). Negli anni, ho visto che molte di quelle mie idee e intuizioni e analisi sul rapporto ebrei - palestinesi erano state capite da molti altri autori, soprattutto ebrei - che in quanto tali potevano dirle liberamente! - ed erano usciti libri d'impatto che dicevano le stesse cose che io, forse, avevo anticipato. Ma questo non ha alcuna importanza, le mie "molle" non sono mai state narcisistiche, e semmai sono stato contento che qualcuno dicesse queste cose. Tuttavia, altre cose che ho capito forse non sono ancora state dette, forse perché è difficile dirle. Forse, con te e con i tuoi strumenti si può tentare di dirle...
In anni più recenti due amici ebrei di Roma, Lia Levi e Luciano Tas, mi fecero fimare un contratto con Mondadori, che voleva un libro di "pace" fra ebrei e palestinesi. Io scrissi un pezzo, ne furono tutti entusiasti, volevano portarlo alla mostra di Berlino o non so cosa, poi ci fu l'11 settembre 2001... e la direttrice della collana voleva che io scrivessi contro il fanatismo islamico, sebbene non c'entrasse niente con la "questione palestinese"... Al mio rifiuto, ruppe il contratto...
Allora usai un po' del materiale che avevo e scrissi con mia moglie il libro "L'anti-islamismo spiegato agli italiani", pubblicato con un piccolo editore non specializzato, Erickson.
Ma ormai la mia testa era su altre cose. Negli anni, senza alcuna auto-promozione - oltre che molto poco narcisista sono anche pigro, e ultimamente non sto neppure bene - mi hanno chiamato a dei convegni, tre o quattro in tutto, e alla radio un paio di volte. In agosto mi hanno chiamato da Radio 1, in una trasmissione di mattina, in cui ho parlato per pochi minuti, con molti altri italiani e stranieri, sul perché ci sono europei e italiani che si convertono all'Islàm e che si arruolano nel cosiddetto esercito islamico, IS, fenomeno complesso di cui so molto poco.
Infine, ho un rapporto di amicizia con un giovane italiano valente, Lorenzo Trombetta, corrispondente da anni per l'Associated Press dal Libano, dove vive con la moglie libanese. Tra parentesi, mio padre era libanese, mia madre era italiana e io da ragazzo ho vissuto otto anni nel Libano, dove già allora c'erano campi profughi di palestinesi, di cui ignoravo l'esistenza.
Perché ti ho detto queste cose? Perché con te, e con il PIOMBO E L'ORO DEL PERDONO, una fiamma si è riaccesa in me. Era sotto la cenere da tanti anni, e forse ci sarebbe rimasta per sempre ormai, ma tu l'hai risvegliata.
Con te, potrei imbarcarmi in qualcosa di nuovo. Ti do un abbozzo, che si pone in continuità con le cose che hai già fatto e che mi hai detto: realizzare una rappresentazione, psicodramma, socioplay o teatro o spettacolo - o non so, perché di queste cose non so niente, ma ci sei tu che le sai e le fai - sull'incredibile conflittualità fra ebrei e palestinesi, come metafora concreta di tutto il possibile odio inter-umano e delle possibilità di superarlo, legando Wisenthal e il nazismo e la Shoah a tutto ciò, e rappresentando la diabolica connessione "Olocausto degli ebrei - olocausto dei palestinesi".
Oggi, forse, questo è possibile. Sarebbe qualcosa di completamente diverso dal revisionismo anti-ebraico e da molte altre cose simili, e potrebbe servire come chiave per capire e far capire anche l'ipocrisia occidentale, l'islamismo estremo, le tante manipolazioni... Attraverso personaggi forti che esprimono ciascuno una posizione, moderata o estrema, di odio o di perdono, attraverso lo scambio dei ruoli...
Mi piacerebbe vedere una palestinese che interpreta il ruolo della deputata israeliana che vuole uccidere tutte le mamme dei piccoli serpenti palestinesi... O un israeliano che interpreta il ruolo di un palestinese che non vede differenze fra la Shoah e il lento genocidio del suo popolo...
Mi piacerebbe vedere un personaggio che grida che bisogna smetterla di associare ai palestinesi il passato degli ebrei...
E tante altre cose, che potrebbero venir fuori combinando la mia lunga conoscenza diretta di queste "dinamiche" e, soprattutto, la tua creatività, sensibilità ed esperienza nel mondo della rappresentazione e della regia. Senza di te, è un progetto cui neppure posso pensare.
Potremmo trovare validi aiuti. In particolare, il fratello di mia moglie che ora sta a Houston sarebbe una miniera di esperienze, persone e situazioni, sia da parte palestinese sia da parte ebraica.
I tempi forse sono maturi per un'opera così, che andrebbe al di là delle attività già esistenti di cooperazione fra le famiglie dei caduti dei due popoli, come il Parents Circle di Tel Aviv, e al di là di film pur meritori degli ultimi anni, da parte israeliana o palestinese o mista fra i due. E anche al di là di manifesti intellettuali, che poco scuotono le coscienze.
Noi dovremmo, attraverso i personaggi, andare molto più in profondità. Attraverso l'uso del paradosso, del surreale, che spesso è così poco distante dal reale... Dovremmo rivolgerci al mondo non al mondo dell'università. Parlare a tutti.
Le culture più antiche hanno compreso il paradosso, che è l'essenza della condizione umana, e la "questione israelo-palestinese" è anche figlia degli antichi paradossi semitici, in un mondo attuale dominato - nei migliori dei casi - da una falsa linearità e da un falso pragmatismo che disconoscono il paradosso.
Tu, uomo e intellettuale che sente il paradosso in se stesso e regista dello psicodramma come espressione figurativa del paradosso, daresti da Roma, la città dei paradossi, una chiave di lettura a questo tragico e metaforico paradosso palestinese-ebraico.
Con te, sento che tutto questo sarebbe possibile, anche se so che non sarebbe facile.
Ma, per esempio, so anche che noi due sapremmo essere "puri come colombe e astuti come serpenti", per sfuggire alle forme di potere e di manipolazione che sarebbero esercitate sulla nostra impresa. Come e oltre quella "gastronomica" che mi hai raccontato.
Che ne dici, amico mio?
Un abbraccio,
Sadi