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Sociodramma de "La maleducazione mafiosa" a cura di Ezio Donato (Piazza Armerina) - 1994

un sociodramma con la regia di Ottavio Rosati

per MICHELA BUSCEMI pentita di mafia

 


Pinella Leocata, LA MALEDUCAZIONE MAFIOSA DIVENTA UN SOCIODRAMMA

LA SICILIA, 23 Maggio 1994 Clicca qui per il ritaglio stampa

L’antilope è riversa sul dorso, le zampe in alto in un disperato tentativo di sottrarsi alle zanne di una tigre che infierisce nel suo addome. Il sangue scola e si allarga a invadere di rosso il cartoncino che annuncia il tema dell’incontro: "La maleducazione mafiosa". La scena è il teatro comunale di Piazza Armerina dove, martedì 24 maggio, s’intitola il II circolo didattico a Giovanni Falcone. "Per non dimenticare".
E, per non dimenticare, la scuola ha scelto di portare in scena il vissuto di persone che, in differenti modi e ruoli, hanno dovuto incontrarsi e confrontarsi con la mafia e con la cultura mafiosa. Una scelta insolita, questa di non percorrere le usate strade del convegno e dell’informazione razionale e di tentare piuttosto di parlare alle emozioni, ai sentimenti profondi.
Non saranno attori quelli che calcheranno il palcoscenico. Tra le quinte si muoveranno persone/personaggi conosciuti alla vita pubblica: Nello Bongiovanni, magistrato di Caltanissetta al processo contro Riina, oggi deputato al parlamento; Giorgio Chinnici, presidente del consiglio comunale di Palermo e parente di Rocco; Emanuele Giuliano, docente delle scuole superiori e cugino di Boris; Enzo Russo, autore di "Un uomo di rispetto"; il regista Aurelio Grimaldi; Michela Buscemi, collaboratrice della giustizia; la sociologa Renate Sibert, autrice del saggio "Le donne, la mafia"; Rosalia Labruzzo, assessora alla Cultura di Corleone, Salvatore Castorina, psicanalista; il pedagogista Ezio Donato, il sociologo Salvatore Costantino.

Tutti insieme hanno accettato di essere protagonisti, sotto la regia dello psicanalista jungiano Ottavio Rosati, di un sociodramma. Saranno insieme con il pubblico di insegnanti e di cittadini attori, autori, critici e allo stesso tempo pubblico di un ‹‹pezzo›› improvvisato dove rappresenteranno personaggi e dinamiche relative a esperienze di mafia, subite o perpretate.

Scopo dell’iniziativa quello di aiutare gli insegnanti a maturare metodi didattici diversi da quelli legati esclusivamente all’informazione verbale e ad acquisire consapevolezza  che l’aggressività è un tratto costitutivo della natura umana. Educare, dunque, significa anche aiutare i giovani a sublimare questa pulsione di morte trasformandola in forza costruttiva e socialmente condivisa. Un modo per contrastare le forme esasperate di assertività del sé o di accettazione supina della violenza: le due facce della cultura mafiosa espressa anche nell’immagine della Sicilia come terra di immobilità e di morte.
"Ribellarsi è possibile". Questa l’idea di fondo che ha spinto il curatore dell’iniziativa, Ezio Donato, a sperimentare sotto l’occhio di RaiDue, questa forma di comunicazione. Una scelta che nasce dal convincimento che la sola informazione è insufficiente a modificare i processi del profondo e i comportamenti.
"Altro è raccontare, altro rappresentare – spiega – perché nella rappresentazione i fatti si materializzano e, attraverso la suggestione emozionale collettiva, scattano forti dinamiche di identificazione e di catarsi. Un processo antico quanto la tragedia greca quando dal racconto dei poemi epici si è passati alla rappresentazione dei drammi". 

Pinella Leocata, MAMMA LA MAFIA
LA SICILIA, 27 Maggio 1994   Clicca qui per il ritaglio stampa

Le due voci di Michela, recita di un duello interiore:
"Sono Michela, mi hanno ucciso due fratelli, per questo ho deciso di denunciare la mafia".
"Voglio bene a mia figlia Michela, ma è pazza. Si è messa contro la mafia, ci ha fatto mettere sui giornali, e così ho dovuto smentirla. Ci pensi lei ora a cavarsela."

PIAZZA ARMERINA – Il silenzio è la parola. Il sottrarsi al rischio del comunicare e la scelta di farlo. La commemorazione e l’azione. È il pomeriggio del 24 maggio. Al teatro Garibaldi si rappresenta <<La maleducazione mafiosa>>, sociodramma volto a far emergere i meccanismi profondi della cultura di mafia. Protagonisti e interpreti alcuni specialisti e i docenti del Il Circolo didattico che, a due anni dalla strage di Capaci, viene intitolato a Giovanni Falcone. Un minuto di silenzio alla memoria. Non può porgere alcun saluto alle autorità, come si era preparato a fare, il direttore didattico. Nessuno ha raccolto l’invito. "Sventurato quel popolo che ha bisogno d’eroi", recita Brecht. E che dire di quello che li immola e dimentica? "Tanto più grande è la sventura, quanto più grande deve essere la capacità di reagire". Non dispera il direttore Giuseppe Cascino. In giro c’è una gran voglia di normalizzazione, si esauriscono i bagliori di speranza. "E’ in periodi come questi che la scuola –con e più della magistratura- diventa l’ultimo baluardo contro la “maleducazione” mafiosa. È adesso che gli insegnanti devono poter disporre di metodi educativi capaci d’incidere sulle azioni e sui sentimenti". Per gli insegnanti la resistenza parte dal teatro, o meglio, da un agire comunicativo basato sul gioco di ruolo, su una "spiegazione iconica" anziché accademica delle dinamiche proprie del vivere in terra di mafia. Una spiegazione rapida e il regista e psicoanalista Ottavio Rosati passa a sperimentare con il pubblico la tecnica del sociodramma. Gli insegnanti, a turno, sono chiamati a esprimersi, ad assumere il proprio ruolo e quello dell’ipotetico interlocutore/antagonista e, tutti insieme, a reagire e a interagire con i protagonisti del gioco. In pochi minuti, nel rappresentarsi e nel rappresentare, il tema si delinea: la paura d’esprimersi come estrema paradossale, manifestazione del ruolo materno e delle sue funzioni altrici e protettive. La bocca, dunque, come strumento dell’ingoiare e del nutrirsi e, allo stesso tempo, della parola e dell’espressione. La bocca come madre: luogo di contraddizione. Una contraddizione interpretata da Michela Buscemi, una delle specialiste invitate a partecipare al sociodramma, donna di famiglia mafiosa e collaboratrice della giustizia. A Michela, la prima di dieci figli, hanno ucciso due fratelli in una strage di mafia. Rosetta, la cognata vedova, si è lasciata morire d’inedia. Michela, prima tra le donne palermitane, sceglie di spezzare l’omertà mafiosa e di denunciare gli esecutori e i mandanti della strage. A ostacolare il suo cammino la madre Francesca che, pubblicamente, la definisce pazza e ne prende le distanze, la isola e, nel far questo, la consegna alla mafia. "Sono la più grande di dieci figli –racconta Michela- . Una famiglia numerosa, la nostra, ma da quando hanno ammazzato i miei due fratelli, fratelli che avevo cresciuto come una madre e al posto di mia madre, mi sembra che me li abbiano uccisi tutti. Per questo ho scelto di costituirmi parte civile al processo e di denunciare la mafia". Ora Michela è invitata ad assumere il ruolo della madre e a difendersi dalla veemenza. "Mi chiamo Francesca –attacca-. Mio padre è morto quando avevo dodici anni, mia madre non si curava di me e così, a 14 anni, ho sposato un uomo che non amavo e ho cominciato a fare figli che non ero capace di crescere. Li affidavo a mia figlia Michela. Le voglio bene, ma è pazza. Si è messa contro la mafia, ci ha fatto mettere sui giornali e così ho dovuto smentirla. Ci pensi lei a cavarsela, lei ha fatto questa scelta".
"E chi difenderà i miei fratelli-figli? – implora Michela| Michela a proprio agio nel suo ruolo naturale-. Chi renderà loro giustizia?" "Li volevo bene assai –piange Michela-Francesca-. Ma ormai sono morti e non possono resuscitare. Avevo un debole per loro, l’avevo. Ma ho altri figli e devo proteggerli. Non voglio che ammazzino anche loro>>. "Che madre sei, madre? –grida Michela| Michela-. Non hai sangue nelle vene? Non pensi a Rosetta morta di dolore, non pensi ai lorofigli?! Vieni con me, madre, stai dalla mia parte". "Pazza sei, pazza –urla Michela| Francesca nel lanciare la sua maledizione, la sua spiegazione-. Che tu possa provare il mio stesso dolore, figlia, che ti ammazzino i figli!". "Io vado avanti", la sfida Michela| Michela. Una sfida che Michela Buscemi, nella vita, non riuscirà a portare avanti. Un anno dopo la scena che ha rivissuto in teatro si ritirerà dal processo proprio a causa di gravi minacce contro i due figli. Non lo farà con scuse tortuose, né affidandosi al silenzio. Lo farà ad alta voce, pubblicamente, gridando in un’aula giudiziaria il motivo della propria scelta. Gli insegnanti e gli invitati si rispecchiano e reagiscono disegnando una figura di madre che, priva di altri sazi di espressione, s’identifica esclusivamente nel suo essere tale e, dunque, nei figli. Una madre protettiva al punto da trasformarsi nel suo opposto, negatrice del dialogo e della vita, quella degli altri. La madre come materializzazione dello spirito di conservazione, della paura. La madre come simbolo della possibilità dell’esistere, dell’esprimersi. La madre, dunque, come madrelingua. Un’associazione, questa, proposta dal regista| analista di fronte al rifiuto degli insegnanti a permettere, a vantaggio di un ipotetico pubblico non siciliano, la traduzione in italiano della poesia che Michela Buscemi ha dedicato, in dialetto, al giudice Livatino. Il sogno di un assassinio dove a morire è la mafia. Un sogno interrotto da un brusco risveglio, dall’incubo di un nuovo, reale, assassinio. "Traduttore come traditore", interpreta Ottavio Rosati tra le proteste dei partecipanti che rivendicano, a difesa della versione originale, la forza delle emozioni, la capacità di parlare ai sentimenti, uno sprone per quella parte dei siciliani che sta in trincea. "Per parlare alla conoscenza sono più adatti i sogni e i libri", sostiene lo scrittore Enzo Russo, in una singolare inversione di ruoli che rimanda al registaa-analista proprio l’ipotesi di partenza che dà senso alla tecnica del sociodramma.
Il gioco continua, e con esso, gli spunti di riflessione, di analisi d’impegno.

 

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