UN ERRORE TECNICO IN PSICODRAMMA di Anne Cain
E' ormai banale dire che il primo grido, quello della nascita, è un grido d'angoscia. Questo grido, secondo Paul e Gennie Lemoine, diviene presto un grido che domanda, ma che significa il bisogno del corpo, la fame. La fame però sarà veramente soddisfatta solo quando la soddisfazione sarà accompagnata dall'amore.
Mi sembra importante ricordarlo prima di raccontare un caso con cui vorrei mostrare quanto il colloquio preliminare con l'analista e la prima seduta di psicodramma siano costituiti da una trama di relazioni privilegiate che è molto pericoloso per il successo della terapia non comprendere in pieno.
Si tratta di un caso conclusosi con un fallimento, uno di quei casi non facili da raccontare né da sopportare perché mettono a dura prova il nostro narcisismo terapeutico. Tuttavia con la dovuta distanza fallimenti di questo genere si chiariscono, finché il disappunto si trasforma e la situazione diviene in qualche modo produttiva. Ecco perciò la storia di Henriette.
Henriette, una quarantenne sposata e madre di famiglia, mi venne a trovare un giorno improvvisamente. In realtà aveva preso degli appuntamenti per poi disdirli tre volte di seguito poiché ogni volta un incidente all'ultimo momento le aveva impedito di venire alla seduta. Questo gioco a nascondino era durato per un mese, poi Henriette finì per venire e dire:
«La ragione che mi ha portata qui è la mia angoscia. Dormo male, sono irritabile in famiglia, ma non durante il lavoro; non capisco che cosa succede».
Henriette dice di lavorare in un centro di ritardati gravi dove si trova bene: «Ho bisogno di occuparmi dei bambini abbandonati, che non hanno mezzi per comunicare. Questi bambini non hanno altro che la loro infermità per esprimersi ed è per questo che noi ce ne occupiamo e li amiamo».
Durante questo colloquio, preliminare all'ingresso in un gruppo di psicodramma, Henriette parla particolarmente del suo lavoro e dei bambini di cui ha cura, pochissimo invece dei suoi figli. Racconta pure che da piccola era stata amata e quello che sembra costituire l'essenziale del suo dramma, la ragione dei suoi turbamenti attuali e passati: «Quando avevo otto anni mia madre era malata di mente e un giorno mio padre decise di farla curare contro la sua volontà».
II solo ricordo che Henriette ha di questo periodo è la frase pronunciata dalla madre uscendo da casa, una frase che, più che un arrivederci, sembra un addio: «Se vado a farmi curare, morirò». La nostra paziente non avrebbe rivisto mai più sua madre, che due giorni dopo infatti si suicidò. Henriette concluse: «Hanno ucciso mia madre volendo guarirla».
Nel corso del colloquio Henriette mi dice pure che ha un passato terapeutico poiché prima di venirmi a parlare ha già fatto il giro di un certo numero di terapeuti sperimentando altrettante terapie: Psicoanalisi, Psicoterapia, Dinamica di gruppo. Nessuna esperienza è durata più di due mesi. Così, dopo tutti questi tentativi, Henriette pensa che lo psicodramma possa darle sollievo; siamo entrambe d'accordo sul suo ingresso nel gruppo.
L'impressione che ebbi da questo colloquio era che la ragione essenziale dei disturbi di Henriette risalisse evidentemente al suicidio di sua madre, alla morte brutale di questa donna uscita di casa semplicemente per essere curata. Così presi alla lettera il discorso della paziente e questo, come vedremo, fu l'errore fondamentale.
Arrivammo alla prima seduta di psicodramma. Durante il suo svolgimento, su invito dell'animatore, Henriette, sorpresa, svela il
suo dramma e gioca la scena in cui sua madre, quando lei ha otto anni, la lascia per entrare in clinica.
Prima del gioco Henriette insiste sull'amore che la madre provava per lei: «Mia madre mi amava molto e mi è sempre stata vicina fino al giorno in cui è partita». Nella scena dell'arrivederci ripete la stessa frase e le stesse parole della madre raccontate nel colloquio preliminare: «Se vado a farmi curare morirò». A questo punto Henriette crolla con grande impressione del gruppo, poi si riprende e alla fine della scena torna ad occupare il suo posto nel gruppo.
Quello che il gioco rivela ad Henriette è completamente diverso da quello che lei ha detto all'inizio: invece dell'amore che le voleva sua madre, il gruppo rimanda ad Henriette quanti pochi fossero gli abbracci di sua madre e quanto poco calore avesse ricevuto questa figlia sul punto di diventare orfana. Il gruppo insomma ha vissuto questo arrivederci come un tradimento da parte della madre. Marie, che nel gruppo è stata scelta per interpretare il ruolo della madre, dice di aver provato un'enorme aggressività verso chi l'obbligava a farsi curare: «Non pensavo ad altro che alla casa che stavo per abbandonare, a mio marito, scordandomi della presenza di mia figlia». Il resto del gruppo da parte sua ha vissuto il rapporto tra la madre e la figlia, inscenato da Henriette, in questo modo: «Tutti stavano intorno alla madre, Henriette ne sembrava molto delusa».
Dopo la seduta non rivedemmo mai più Henriette; ci chiedemmo perché.
Soltanto alcuni mesi dopo, allorché si ripresentò una storia abbastanza simile a quella di Henriette, fu possibile cercare di capire, per analogia, quello che era accaduto.
Questa seconda storia è quella di Julia, una suora carmelitana che mi fu mandata da un chirurgo perplesso di fronte alla quantità di richieste di Julia di farsi operare. La paziente aveva già subito una dozzina di interventi, tutti senza alcun successo.
Julia aveva quarantotto anni ed era entrata in convento all'età di diciotto, dopo una rottura sentimentale "non formulata" con un ragazzo della sua età. Julia sosteneva che prima di entrare in convento era sempre stata felice con tutti e soprattutto molto dinamica. Chiesi a Julia cosa allora l'avesse spinta a scegliere la vita religiosa e in particolare la clausura. Lei sorrideva sempre con un piccolo sorriso che in questa sede si potrebbe definire di circostanza.
Il gruppo ed io stessa ci rendevamo conto che questo sorriso stava al posto di qualcosa che non poteva essere detto né domandato; non gli si poteva rispondere che con un altro sorriso, almeno all'inizio, per mimetismo...
Comunque il gruppo era sensibile alla storia di Julia che partecipava alle sedute in abito da suora dal momento che per venire alle sedute doveva mentire alla sua superiora dicendo che andava a farsi visitare dal chirurgo.
Julia partecipava così ad un certo numero di sedute di psicodramma nascondendo la verità: infatti per le sue superiori si trattava sempre di chirurgia e allo psicodramma Julia chiedeva "un miracolo".
Questo aspetto fin dal colloquio preliminare appariva lo schermo principale della sua storia.
Forti dell'esperienza del nostro fallimento precedente evitavamo di far giocare Julia fin dall'inizio e aspettavamo il momento buono
cercando soprattutto di evitare ogni trauma. L'abbiamo fatto dopo un certo numero di sedute, quando abbiamo avuto l'impressione che lei fosse sufficientemente rassicurata e si sentisse amata sia dal gruppo sia dagli animatori, cosa per lei essenziale.
La prima scena rappresentata fu quella in cui Julia, all'età di diciotto anni, sulla soglia di casa lascia la madre per recarsi in convento.
Nel caso di Julia, come con Henriette, la scena è dunque quella dell'addio alla madre e in entrambi i casi la scena ha luogo nello stesso ambiente anonimo, quello della strada.
Si organizza il gioco e Sophie, un'altra partecipante, viene scelta per interpretare il ruolo della madre di Julia. Quando, al momento di dirle addio, Sophie fa il gesto di baciarla, Julia la respinge interrompendo il gioco per dire: «No. Non andò così, mi ricordo che mia madre non mi abbracciò affatto prima di salutarmi. D'altra parte mia madre non mi baciava mai e quasi non mi rivolgeva la parola. Per comunicare con me mi lasciava in camera dei bigliettini. Mia madre non mi ha mai toccata. Non riesco a ricordare una sola parola pronunciata da lei».
Il gioco terminò appunto nel momento in cui Julia notò che sua madre non l'aveva mai toccata e non le aveva mai realmente parlato.
C'era allora da chiedersi cosa significasse per Julia il bisogno di farsi operare se non quello di farsi toccare ed amare almeno dai chirurghi che eseguono l'intervento. Con i chirurghi non sono necessarie le parole, ma questo non ha importanza. Le parole non possono aver senso per Julia che non ha mai inteso sua madre pronunciare parole d'amore.
Entrando in clausura Julia ripete la stessa situazione, infatti tra le carmelitane non sono permesse relazioni: queste suore non possono né parlarsi né toccarsi. Non sorprende che l'unica relazione possibile per Julia allo psicodramma sia quel sorriso "falso" di cui abbiamo parlato.
Il rapporto tra le due storie è chiaro ma cosa ha fatto in modo che per la seconda paziente le cose siano andate diversamente e che l'esperienza dello psicodramma sia continuata? Senza dubbio il fatto che i terapeuti non avessero preso alla lettera il discorso di Julia, dando più importanza alla richiesta terapeutica di psicodramma che il colloquio preliminare ha appunto lo scopo di far esplicitare al paziente.
Un altro errore che provocò la reazione di Henriette fu la nostra fretta di farla giocare. Il suo gioco riguardava qualcosa di estremamente importante per lei, che avrebbe dovuto essere trattato come un ricordo di copertura, anche se reale. Si trattava di un ricordo che condensava tutte le difese e i ricordi delle relazioni anteriori all'abbandono da parte di sua madre.
Il fatto che Henriette avesse detto che la sua era stata una buona madre richiedeva maggiore attenzione. Sembrava infatti che non fosse così, ma cosa significava allora questa menzogna se non un desiderio di riparazione, desiderio di ricevere amore da ogni nuovo terapeuta? La rivelazione brutale formulata nel corso della prima seduta aveva privato Henriette di questa soddisfazione
e la fece fuggire.
E non significava forse ripetere la storia di sua madre il fatto che l'amore di quanti circondavano Henriette restasse intatto finché essi accettavano l'idea che lei fosse malata?
Allo stesso modo questa paziente non può chiedere a un terapeuta che di prendere il posto di quelli che la circondano e amano.
Per questo Henriette fugge al primo errore del terapeuta, errore dovuto alla difficoltà di maneggiare un transfert inaspettato, un transfert globale, di natura probabilmente psicotica. Lo psicotico infatti esige innanzitutto che lo si ami e solo dopo accetta la parola del terapeuta.
A che serve dunque il colloquio preliminare all'ingresso nel gruppo? Soprattutto al soggetto, per formulare la propria domanda terapeutica di psicodramma. Nel caso di Henriette invece venne inteso solo il discorso della paziente, non la sua domanda di amore perché Henriette metteva in primo piano il trauma che l'aveva colpita all'età di otto anni quando la madre le disse addio prima di suicidarsi in una scena banale che avrebbe avuto un finale tragico.
La seconda storia ha potuto avere un'evoluzione migliore perché si riuscì a utilizzare il transfert sul terapeuta e sul gruppo. Questa attenzione permise a sua volta alla paziente di svelare al momento opportuno la sua storia in modo tale che il suo parto psicodrammatico si svolgesse naturalmente e progressivamente, senza cioè l'intervento del forcipe.
(trad. di Stefano Del Re)
SUMMARY / RESUMÉ / ZUSAMMENFASSUNG / RESUMEN
A technical error in psychodrama.
The Author describes a clinical case resolved by the patient abandoning the psycho-dramatic group, following a mistake by the therapist who had hastened the play. A second case, somewhat similar but approached in a different way, seems to suggest that the preliminary discussion on entering the group should not provide the analyst with indications as to the first psychodramatic scene to play, but to the question of what is hidden behind the memory screen. The patient will ask to play when his transfert is stabilized.
Une erreur technique dans le psychodrame.
L'A. décrit un cas clinique qui s'est termine par l'abandon, de la part du patient, du groupe de psychodrame, a la suite d'une erreur du thérapeute qui avait precipite le moment du jeu. Un second cas, en partie semblable, mais affronté différemment, semble suggérer que le colloque préliminaire, a l'entrée dans le groupe, ne doive pas fournir, a l'analyste, des indications sur la première scène a jouer du psychodrame mais sur la demande qui se cache derrière le souvenir-écran. Le patient demanderà a jouer au moment où son transfert se sera stabilisé.
Ein technischer Fehler ini Psychodrama
Der Autor beschreibt einen klinischen Fall, der damit endete, dass ein Patient die Gruppe verliess, nachdem der Therapeut den Fehler gemacht hatte, das Spiel zu beschleu-nigen. Ein zweiter Fall, der dem ersten àhnlich ist, der aber verschieden angegangen wurde, scheint folgendes klarzumachen. Das einfuhrende Gespràch vor dem Eintritt in die Gruppe solite dem Analytiker keinen Aufschluss daruber geben, was als erstes in einer psichoanalytischen Szene gespielt werden soli. Vielmehr miisste es zu Fragen fùhren nach dem, was sich hinter der oberflàchlicher Erinnerung verbergen kònnte. Der Patient wird in dem Moment seinen Wunsch anmelden zu spielen, in dem sich scine Uebertragung gefestigt hat.
Un error tècnico en el psicodrama.
El A. describe un caso clìnico que acabó con el abandono del grupo por parte de un paciente como consecuencia de un error del terapeuta que se apresuró en pasar al juego. Un segundo caso semejante al primero pero afrontado diversamente, parece sugerir que el coloquio previo a la entrada en el grupo no debe ser utilizado por el analista como una indicación sobre la primera escena que hay que jugar en el psicodrama, sino como indicación de la demanda que se esconde en el recuerdo encubridor. Pues el mismo paciente pedirà jugar, cuando su transfert se haya estabilizado.