ESSERE PARLANTE O ESSERE PARLATO di Donata Miglietta
II concetto di coazione a ripetere compare per la prima volta in Ricordare, ripetere, rielaborare (1914) dove Freud si interessa al rapporto tra la coazione, la traslazione e la resistenza.
In questo articolo l'acting out è definito in contrapposizione a ricordare, come la spinta a ripetere il passato dimenticato e a fare questo all'interno del setting analitico rivivendo affettivamente esperienze emozionali rimosse trasferite sull'analista ed anche "su ogni aspetto della situazione attuale". Comunque, ci dice Freud, che "quanto maggiore è la resistenza, tanto maggiore è la misura in cui il ricordare viene sostituito dal mettere in atto". Pochi capoversi più avanti viene ad accennare a qualche cosa che riveste un interesse ancora maggiore e cioè a un gruppo di processi psichici che vanno al di là della semplice rimozione o sbarramento. Si tratta della possibilità di far rivivere qualcosa senza che sia stato mai né ricordato né dimenticato, qualcosa che è stato visto o vissuto senza la possibilità di capirlo, qualcosa dunque di cui non è possibile suscitare il ricordo, ma di cui si può tuttavia fare conoscenza; qualcosa che ha a che fare con scene che si riferiscono a un'epoca così remota e che rivestono in seguito un'importanza cruciale per la storia di un caso, ma non vengono di norma riprodotte sotto forma di ricordi e devono quindi essere... "desunte faticosamente... da un insieme di indizi". Questo concetto verrà in seguito sviluppato nell'Uomo dei Lupi e in Introduzione alla Psicoanalisi.
L'analizzato non ricorda, ma mette in atto, riproduce qualcosa sotto forma di azione. Sappiamo dunque che l'analizzato ripete, ripete e mette in atto un pezzo di vita vissuta. Il fatto è che, qualunque sia la forma della messa in scena di cui l'analizzato è regista, non sapremo in quale dei personaggi del dramma o della commedia egli si nasconde.
In psicodramma come in analisi la scena della conoscenza si regge su uno scenario fantasmatico il cui accesso si fonda sul presupposto di non credere alla realtà di quel che avviene, sapendo che la scena che si manifesterà è questione di una ripetizione che occlude ciò che al soggetto manca.
Ogni scena psicodrammatica ha dunque in sé la possibilità di una "mise en scène" della conoscenza a patto che la si tratti sempre come un sogno e quindi a patto di sospendere il sapere sull'identità reale dei personaggi che vi si fanno recitare.
Cominciamo dunque col dire che mentre il gruppo appare come un insieme di parti che possono in ogni momento separarsi e recuperare la loro completa autonomia, l'individuo non sembra essere divisibile a prima vista.
Ma la soggettività è immersa fin dall'inizio in un tessuto emozionale con il quale essa è quasi completamente confusa. Per Bion la mente umana è prima di tutto parte di una struttura relazionale collettiva - il sistema protomentale -. Questa qualità della mente si costituisce quando il bambino non è ancora capace di distinguere il sé dal non sé e rimane come struttura permanente che può venire ristabilita anche in età adulta o in particolari condizioni: una di queste è il gruppo.
Si può dunque dire che mentre l'individualità biologica coincide con il concetto di identità, come costanza del patrimonio genetico e rigorosa unicità dell'individuo, l'individualità psichica risulta sia da componenti della soggettività propria sia dalla continuità della presenza di altri dentro ciò che il soggetto appare o pensa d'essere.
Può così avvenire in analisi che si comincia a parlare per scoprire poi che quanto credevamo la nostra parola o la nostra voce era invece l'essere parlato da qualcun altro la cui voce era dentro. Il soggetto può distinguersi dalla confusione per mezzo della sua capacità riflessiva e della sua creatività simbolica, ma la soggettività non è mai all'origine, essa nasce come separazione da un Ego eteronomo attraverso una spaltung che fa comprendere di colpo la differenza di posto rispetto a un altro col quale pensavamo di formare un tutt'uno. Il soggetto quindi si divide mentre l'individuo non è diviso da altri che sono dentro il suo campo esperenziale, e il passaggio dall'individuo al soggetto può avvenire attraverso un conoscere che non è tanto il prendere dentro qualcosa di nuovo quanto piuttosto lo scoprire che ci sono dentro cose che c'erano già prima senza che lo sapessimo.
Il quesito che ci si può ora porre è quanto di tutto ciò sia possibile in gruppo quando si ha a che fare con psicotici e in particolare con paranoici. Infatti la tracotanza conoscitiva del paranoico si iscrive anche in una potente idealizzazione che questi si porta sulle spalle come un monumento spietato e pesante che è costretto a non deporre mai per non morire frantumandolo ed esserne annichilito. Perciò egli cercherà piuttosto di annullare l'altro, di accecarlo e di ottunderlo, manipolandone la mente perché non abbia a scoprire mai ciò che il monumento nasconde e cioè la fragilità estrema di colui che lo porta.
Per meglio farmi capire parlerò di una messa in scena che mi è accaduto di osservare e di interpretare io stessa, mio malgrado, in un gruppo di psicodramma. Il paziente che ne condusse la regia per un buon numero di sedute era un paranoico, il quale venne al gruppo a rappresentare il suo dramma di uomo folle e violento così atterrito dalle sue stesse passioni che credette di trovar scampo ad esse impersonando una figura inquietante e tenebrosa: divenne infatti Torquemada il Grande Inquisitore. Il dramma aveva in sé un personaggio nascosto che non compariva mai in scena pur essendo soggetto di tutta la storia, poiché veniva lasciato, per così dire, tra il pubblico: si trattava evidentemente di un bambino che aveva assistito, spettatore impotente, allo svolgersi di tutto il dramma in un'epoca della sua vita troppo remota perché ne conservasse un ricordo e perché potesse padroneggiarne gli effetti.
Racconterò anzitutto un sogno portato poco tempo dopo l'ingresso in gruppo del paziente. Descriverò quindi brevemente la sua storia e le emozioni che mi ha provocato. Desidero mostrare, attraverso questo materiale, qualcosa sull'uso che i pazienti psicotici gravi o borderline possono fare del gruppo e dei terapeuti. La mia tesi è che l'acting è il linguaggio proprio alla psicosi e attraverso di esso ciò che il soggetto non può dire - perché non ne ha il significante -viene ritrovato facendolo provare ad altri, suscitando nel pubblico sentimenti i quali in origine sono stati vissuti in modo confusivo ed angosciante dal soggetto stesso. Intendo che quel che viene fatto succedere e passa nel gruppo è un dire: "prova tu se vuoi capire quello che è successo dentro di me, prova tu tutto quel che io ho sentito... io non posso parlarne... posso però fartelo provare in tutta la sua terrificità". Il lavoro con uno psicotico è possibile solo se il terapeuta non si sottrae a questa prova, se non si ostina a restare in posizione parentale, ma accetta di transitare anche nel luogo d'essere dell'impotenza preverbale. La comprensione dell'universo psicotico è possibile poi se, dopo esservi entrato, l'analista ne può uscire e dire quello che gli è accaduto di sentire in modo da offrirne al paziente il significante. Può dire cioè "tu hai provocato qualcosa perché volevi che un altro sentisse quel che tu hai provato e che non potevi dire altrimenti che facendoci rivivere la scena".
Incominciamo dal sogno. Cesare si trovava nel cortile di una casa che gli sembrava essere la sua casa di campagna. Un gruppo di persone cercava di penetrare in essa. Cesare voleva opporsi ma non riusciva a fermarli. Allora correva a prendere nel cortile un bastone appuntito e attraverso le finestre cominciava ad accecare ad uno ad uno tutti gli occupanti, quindi, entrando dalla porta si trovava di fronte, oltre agli accecati, anche una piccola coppia delle dimensioni degli gnomi, vestita in abiti regali, con in testa la corona, che atterrita si inginocchiava ai suoi piedi chiedendo pietà.
Il nostro paziente, nello spazio di poche sedute, tentò effettivamente di fare quello che nel sogno si era annunciato.
La sua presenza era tesa ad instaurare nel gruppo e nei terapeuti una sorta di regime del terrore attraverso reiterati tentativi di sopraffazione e di annichilimento provocati con l'uso di una parola dirompente che più che un linguaggio era un acting continuo, o attraverso l'abile mimica del volto e degli occhi che faceva comparire e scomparire ad arte alla vista del gruppo, la minaccia di una follia incontenibile, o col tono possente della sua voce che copriva il parlare degli altri e lo scoppio improvviso di una risata che evocava immagini acustiche terrifiche coi suoi toni profondi e rauchi, degni di un film del terrore. Riusciva puntualmente con questi sistemi a sovrastare e coprire il discorso del gruppo.
Prima di proseguire devo ancora precisare qualcosa che è di cruciale importanza in quanto permette di capire di dove l'acting origina, ed è il fatto che Cesare non giocava. Egli opponeva un brusco rifiuto all'invito del gruppo è dei terapeuti. Non volle mai rappresentare nessuna scena.
Mi capitava così di vivere sensazioni diverse durante la conduzione e durante l'osservazione. Se si trattava di condurre mi sentivo spesso preoccupata e mi trovavo ad assumere verso di lui degli atteggiamenti di contenimento rispetto alla continua invasione dello spazio e della parola. Io stessa ero a volte invasa da un senso di inquietudine e mi pareva che da un momento all'altro Cesare potesse passare all'atto in modo violento e aggredire o aggredirmi. Spesso infatti mi apostrofava affrontandomi direttamente ed era come se mi provocasse attirandomi in un gioco controtransferale per difendere il mio posto di terapeuta di fronte al gruppo, posto che voleva continuamente contendere per farne un uso repressivo ed inquisitorio. Vietava infatti violentemente che in gruppo si parlasse di argomenti sessuali. Era lì per vietare il discorso, si riteneva mandato al gruppo col compito di garantire che l'ordine regnasse sul caos e sullo sconcio.
Che cosa poi riguardasse questo caos che doveva essere represso Cesare lo fece intuire tra l'altro con un piccolo delirio di cui ebbe a parlare. Disse infatti in una seduta che si era molto inquietato coi "dottori" perché all'uscita del precedente gruppo aveva trovato l'auto "sfregata sul di dietro" e che poiché questo era chiaramente un segno che si riferiva alla sua malattia pregava "i dottori" di fare in modo che certi riferimenti allusivi non si ripetessero più.
Un giorno Cesare iniziò la seduta raccontando un altro sogno. Si trovava sul palcoscenico di un teatro sul quale c'era un presentatore famoso che lo apostrofava affettuosamente chiamandolo "caro il mio Torquemada!". Disse che al risveglio non
riusciva a ricordare di che personaggio si trattava e che aveva dovuto consultare un'enciclopedia. Qualche minuto dopo si scagliò verbalmente e all'improvviso contro una compagna di gruppo che stava dondolando una gamba mentre parlava, urlò che bisognava fermarla immediatamente, che la cosa era un intollerabile segno del suo disordine mentale e chiese ai terapeuti di contenerla farmacologicamente. Non ottenendo risposta si alterò in viso e minacciò di chiamare d'urgenza il servizio psichiatrico per farla ricoverare.
Cesare non aveva quasi mai parlato in gruppo della sua storia. Tuttavia, proprio alla prima seduta aveva evocato il ricordo di un breve episodio al quale aveva assistito all'età di otto anni. Si era trattato di un dialogo tra la madre e lo zio; parlavano di una giovane donna - disse - che si era innamorata di un uomo al punto che non riusciva più a fare niente. Il suo fu un proposito immediato "diventerò da grande così 'fusto' da rendere anch'io una donna in questo stato" e ci tenne a precisare che ciò che gli interessava non era l'innamoramento, ma il fatto che lei non poteva fare più niente.
Era anche con questo che mi pareva di avere a che fare controtransferalmente.
A questo punto avvennero due cose. Una fu che feci un sogno e l'altra una mossa del paziente concomitante ad esso.
Nell'ultima seduta del gruppo una partecipante aveva parlato di un corteggiatore ubriaco che aveva tentato di entrare con la forza nella sua casa spaventandola.
La notte io sognai che mi trovavo nella stanza dei gruppi con alcuni pazienti tra i quali questa ragazza. Sotto il mio sguardo Cesare le si avvicinava, la gettava violentemente a terra nonostante i miei tentativi di fermarlo e urlando e minacciando tutti i presenti cominciava a batterla. A questo punto io uscivo dalla stanza precipitandomi alla ricerca del mio coterapeuta perché facesse lui qualcosa dato che io non riuscivo più a governare la situazione.
Esattamente il giorno dopo Cesare chiese con urgenza un colloquio e fu ricevuto dal mio coterapeuta. Il paziente era agitato e inquieto e dichiarò la sua intensa preoccupazione per la ragazza che aveva avuto a che fare con l'ubriaco. Veniva dunque ad informarsi se noi ci sentivamo in grado di proteggerla da questo brutale aggressore poiché si trattava di una situazione troppo pericolosa e Cesare voleva essere sicuro che noi fossimo in grado di fare qualcosa.
Prima di proseguire occorre ancora richiamare l'attenzione su quell'aspetto specifico del controtransfert al quale si è dato il nome di controidentificazione proiettiva. Con questo termine, introdotto da Grinberg, si vogliono indicare quelle situazioni nelle quali il paziente riesce a indurre l'analista a fare passivamente esperienza di ruoli, affetti o fantasie o a giocare egli stesso un ruolo.
Quando si parla di identificazione proiettiva si intende riferirsi a un processo attraverso il quale parti non volute del sé possono essere scisse e proiettate in un oggetto esterno e di conseguenza si avrà la perdita di queste parti nel soggetto stesso e una percezione alterata dell'oggetto. Quando la proiezione è particolarmente violenta o quando l'analista non è in grado di tollerarla e trasformare ciò che sente in pensiero attraverso l'interpretazione, gli effetti lo portano a controidentificarsi a sua volta.
Naturalmente per controtransfert intendiamo la situazione in cui l'analista si identifica con gli oggetti interni del paziente e li vive come se fossero suoi propri. Va poi detto che l'origine della controidentificazione proiettiva è nel paziente e non nell'analista; è il paziente che provoca attivamente una risposta emotiva nell'analista, che l'analista riceve in maniera passiva.
Questo fenomeno nel quale l'analista può restare intrappolato per un certo tempo è dunque simile a un gioco delle parti nel quale si cade senza poterne al momento uscire: il paziente funge da ipnotizzatore.
La controidentificazione proiettiva compare frequentemente nell'analisi di personalità narcisiste o borderline e quando l'analista può rendersene conto può avvantaggiarsi di questo fenomeno potendo dare una interpretazione adeguata.
Molti pazienti psicotici usano processi proiettivi per comunicare con altre persone. Quando questi pazienti vengono in analisi, essi proiettano impulsi o parti del sé nell'analista per consentirgli di sentire, di capire, quale è stata la loro esperienza e di contenerla in modo che perda la sua qualità terrorizzante e intollerabile attraverso la funzione dell'analista che può verbalizzarla e rendere così accessibili le reazioni e i sentimenti infantili paurosi.
In effetti, dopo aver fatto il sogno di cui ho detto sopra cominciai a stupirmi di come questo paziente mi entrasse dentro. Cominciai anche a interrogarmi sul mio eccesso di reazioni sfociato finalmente con l'attivarsi nel sogno di una mia posizione infantile. Mi trovavo infatti nella scena del sogno come un bambino confuso e incapace di fare qualcosa, schiacciato dall'impotenza di fronte a una violenza che non ero in grado di contenere al punto che io stessa, cercando affannosamente il coterapeuta andavo a cercare in lui l'analista che mi aiutasse.
Tutto questo contemporaneamente a Cesare che aveva fatto la stessa cosa formulando infine una domanda d'analisi che di qui avrebbe potuto cominciare: veniva a domandare a qualcuno se fosse in grado di contenere la violenza di un uomo nei confronti di una donna.
Alla posizione infantile che avevo vissuto nel sogno mi fu allora possibile accostarne un'altra che vivevo invece durante l'animazione: qui l'esperienza di avvicinamento al paziente era spesso un'esperienza di disagio, egli evocava in me ansietà, irritazione, timore, rabbia. Non riuscivo a entrare in contatto con lui perché mi sentivo all'improvviso allagata da un fiume quasi incessante di accuse di cui spesso non capivo la ragione e la provenienza. Avevo cominciato a pensare che quel che sembrava manifestarsi sulla scena gruppo-analitica era una sorta di litigio continuo incombente tra un padre e una madre che si affrontavano continuamente. Quel che invece avevo vissuto nel sogno era più simile a ciò che mi capitava a volte di vivere durante l'osservazione, quando seguivo dalla mia poltrona l'interazione tra Cesare, l'animatore e il gruppo, e mi sentivo assistere al ripetersi di scene violente dove qualcuno era continuamente ricoperto di accuse aggressive: l'esperienza mi pareva quella di un bambino bombardato da pesanti litigi tra genitori. , '
A partire da questi accadimenti fu dunque possibile ricostruire un pezzo della storia remota di Cesare. Ciò che lo aveva
circondato nel primo anno di vita era stato infatti un susseguirsi di litigi violenti tra il padre e la madre, terminati solo con la separazione tra i due.
Quale dunque era la messa in scena che Cesare era venuto a fare nel gruppo? Quali i personaggi che vi erano fatti parlare? Chi era il narratore? Chi il soggetto del racconto?
Quando un paziente si comporta in modo insolente di fronte al medico - dice Freud - non c'è dubbio che è così che si è comportato con le figure parentali... Ripete nel transfert anziché ricordare. Ma in questo caso è fuori dubbio che una tale interpretazione dei fatti sarebbe stata oltremodo errata.
Cesare crede di parlare a nome suo e a nome dei suoi princìpi morali, e li difenderebbe certo a costo di torturare e imprigionare chi ad essi si oppone, invece non fa che raccontare, essendo parlato, la storia di un padre brutale, probabilmente alcolizzato, malato di nervi perché tormentato dai suoi impulsi omosessuali.
Ma perché Cesare ha scelto di interpretare l'altro e non se stesso? Perché non parla ed è invece parlato?
Perché il soggetto è un personaggio rifiutato in quanto scomodo da sostenere: la sua parte è infatti una parte di impotenza e di paura, non fa bella figura sulla scena...
Questo personaggio può essere ricusato allo stesso modo dall'analista quando questi non sopporta nel transfert quello che il paziente cerca di mettergli dentro e lotta per dimostrare di essere altro da quello che lui gli vuole attribuire.
Con questi pazienti la conoscenza è ricusata perché si tratta di una messa in crisi troppo dolorosa da sopportare, in quanto, come dicevo all'inizio, conoscere significherebbe accettare che tutto quello che fino a quel momento si è creduto di essere o di sapere era falso.
Lo scopo del paziente in analisi diventa allora quello di distruggere e rifiutare ogni intervento che possa dinamizzare il suo mondo ulteriore, tentando di deviare l'attenzione dell'analista da quel suo mondo profondo nel quale egli tenta di dominare un oggetto dal quale, senza saperlo, è dominato a sua volta in modo onnipotente. Perciò dicevo di come il paranoico porta sulla sua testa questo pesante idolo, questa divinità ora possente ora terribile e crudele che lo schiaccia perennemente.
Come in Schreber in cui all'inizio egli riceve ordini da Dio ma a poco a poco diventa Dio stesso e così Dio è parte integrante di lui. Nella dialettica di Schreber la relazione paziente-Dio è vissuta come un "Io sono il sostegno di Dio". E se la sorveglianza operata dal paziente su questo mondo interiore dovesse cedere si avrebbe come conseguenza il frazionamento del Moi.
Cesare non può comprendere perché non può rischiare di scoprire di aver conosciuto il falso e perché troverebbe, conoscendo, quel che gli manca: si troverebbe soggetto, cioè "subjectum" a qualcun altro che lo governa.
Resta incatenato al suo monumento e non gli è possibile sostituirlo col ricordo perché per fare questo dovrebbe affrontare il dolore di scoprire e vivere la pena per la propria mancanza, la solitudine dell'essere bombardato da tracce molteplici di dispiacere e paure. Perciò egli è disposto ad accecare ed accecarsi, perché non gioca, proprio perché giocare - e ora possiamo anche vederlo - significa scoprire, nel cambio dei ruoli, quale è stato il posto del soggetto nella storia e come questo posto sia il posto dell'impotenza.
Quando non è Torquemada, Cesare, ce lo presenta tutt'al più dal palcoscenico. Ma non può fare nulla oltre a questo, non può pagare il prezzo che gli gioverebbe la conoscenza, se questo prezzo comporta un cadere nel posto dello spettatore del dramma.
SUMMARY
Acting Out and Acting Through in Psychodrama
Following Melanie Klein's theories, the Author describes the special difficulties faced by a psychodrama group with a paranoic patient. The concepts of "projective identification" and "projective counteridentification" are used in order to explain the fact that, in front of the patient's impossibility of enacting his drama, the group and the analysts tend to enact their own. A method is suggested to the therapist to enable him to emerge from his projective counteridentification in order to enable the patient to simbolize his conflicts.