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MORENO E IL TEATRO SPONTANEITA' E MEDIAZIONE SIMBOLICA di Adriano Magli

Mi rifarò soprattutto a un interrogativo: è possibile che il rapporto fra psicodramma e teatro, che di solito viene valutato ponendo in campo quella "spontaneità", quell'"improvvisazione", che può accomunare l'una e l'altra esperienza drammatica, possa presentare anche altri motivi di analogia, di raffronto?

Del resto l’altra sera al Flaiano Zerka Moreno ci ha dato un saggio veramente attraente di come uno psicodramma (anzi per essere più precisi, un "onirodramma", la rievocazione spontanea di un sogno) possa trasformarsi in spettacolo; ma tutto questo non avveniva solo attraverso la libera immedesimazione, la spontaneità, ma attraverso una ricerca di gesti significativi per mezzo dei quali il protagonista cercava di proporre una sua realtà coerente, che tenesse conto del mondo simbolico in cui si trovava immerso.

1.  Moreno e la spontaneità

In realtà è molto difficile dare alla parola spontaneità una vera cittadinanza scientifica; forse occorre analizzare di più, nelle sue componenti, il cosiddetto "atto spontaneo". Anche se è naturale che Moreno, per reazione a Freud, pensasse innanzitutto a un teatro della spontaneità.
Per Freud, era necessario conoscere innanzitutto la natura dei nostri desideri rimossi; per Moreno, la fase cognitiva ha meno importanza, perché è necessario che il soggetto che gli interessa possa veramente arrivare a una integrazione col mondo circostante, attraverso un rapporto sociale che si svolga a un ritmo crescente, trascinante. È quindi naturale che pensasse a una valutazione della spontaneità. Ma come dice giustamente Anzieu in Lo psicodramma analitico (1981, Ubaldini), Moreno cade forse nell'errore da lui tante volte rimproverato a Freud a proposito dell'inconscio: di aver trasformato una qualità dello spirito in una sostanza.
Effettivamente Moreno fa della spontaneità un'entità. Ora questa operazione non ha più molto senso dopo la scoperta dei "ruoli", dovuta in gran parte allo stesso Moreno; perché i ruoli, che l'uomo accetta di incarnare, non sono solo basati sull'improvvisazione; ma anche sulla memoria del passato e sul progetto dell'avvenire. E in realtà almeno in una fase della sua vita (onnipotenza infantile) l'uomo, secondo quello che la psicoanalisi ci ha fatto intendere, vorrebbe esercitare tutti i ruoli possibili.
Ma non si esercita nessun ruolo, anche innovatore, anche proiettato all'esterno, se non partendo da un condizionamento, da una premessa, che non può che essere di natura simbolica, almeno in parte.
A questo punto tuttavia, siccome la parola "simbolo e mediazione simbolica" ricompariranno frequentemente in questo scritto, è probabilmente necessario precisare un poco meglio quale senso noi attribuiamo a simili espressioni. Infatti la parola "simbolo" viene usata, come è noto, dagli studiosi di filosofia e di scienze umane in molte accezioni diverse: per es. può essere intesa, classicamente, come l'immagine, la figura che sta al posto di un'essenza trascendentale, difficilmente descrivibile; può essere intesa, come fa Cassirer, sulla falsariga kantiana, come una mediazione a priori per cui l'uomo non recepisce nessuna conoscenza se non in una forma simbolica; può essere intesa, sul piano semiotico, come un segno che assume una valenza


semantica estremamente compiuta e orientativa, anche sul piano modellare e speculare; e infine, su di un piano psicoantropologico la parola simbolo può essere intesa come un modello e un valore a cui si fa inevitabile riferimento, sia esso proveniente dalla esperienza interiore del soggetto (soprattutto in rapporto alle esperienze degli anni infantili, e alle istanze della natura), sia esso, in notevole o massima parte, proposto e fornito dalla cultura in cui il soggetto deve operare. È questa l'accezione della parola simbolo che noi facciamo propria in questo saggio; pur rendendoci conto che forse la parola simbolo, deve in questo modo - e ciò comporta inevitabilmente qualche difficoltà e qualche confusione espressiva - esprimere delle "polarità" orientative che prendono solida forma e vengono fortemente individuate nella vita interiore del soggetto; e che sono, in questo senso, assolutamente per lui "reali", anche se sentite in modo approssimativo (da ricordare, a questo proposito, le osservazioni fatte a più riprese da Bachelard). Anzi, aggiungiamo, che sono partecipi di una "realtà" così forte, che il soggetto non può che sentirsi ad esse, anche per il futuro, come virtualmente associato, nell'eventualità di una loro possibile ricomparsa.
È dunque lecito chiamare ancora "simboli" queste "polarità", dal momento che più che raffigurare, o mediare qualcosa d'altro, esse rappresentano spesso in sé delle "realtà potenti", e "fortemente orientative", a cui lo spirito del soggetto, nel suo fondo, si mantiene "riferito"? Probabilmente l'espressione "simbolo" potrà in seguito essere oltrepassata; ma, per il momento, ci sembra che possa essere ancora utilmente adoperata, tenendo presente che ogni "atto di individuazione" di queste "realtà potenti" conferisce ad esse come un "sovrappiù di valore", che spiega, appunto, anche la loro intensità dinamica nella vita dello spirito. Questa intensità promana infatti direttamente da questo sovrappiù, che orienta e converge verso di sé la vita intcriore del soggetto, e che gli fa ricercare, verso le "realtà" così individuate, un duraturo rapporto reciproco; oltre che un rapporto assicurativo e conciliativo fra queste realtà, nella perpetua ricerca di una connessione e di un ordine totale (1).
Per quanto siano potenti le spinte pulsionali che ci fanno agire, esse vanno valutate e ordinate nell'ordine totale che tentiamo di conferire al nostro slancio. Avendo ciò chiaro, è facile intendere che un uomo possa benissimo inglobare implicitamente un simbolo precedente, e oltrepassarlo, anzi addirittura una costellazione di simboli. Il ritrovamento attivo e produttivo di un nuovo simbolo si costituisce allora come una vera mediazione tra simboli passati e futuri. E questa mediazione, promossa dagli incontri e dalle circostanze, può anche essere celerissima, condotta innanzi nel prosieguo del tempo, da suggerimenti assolutamente, ovvii dinanzi a tutto il resto.
Quella che abbiamo chiamato spontaneità, si può ricondurre allora a una serie di atteggiamenti successivi, attraverso cui si cerca da parte del soggetto, di "situarsi" il più naturalmente possibile rispetto ad alcune polarità simboliche, che appaiono di tutta evidenza, perché sono condotte innanzi dal variare di tutto ciò che agisce nel mondo e assume significato.
Questo "situarsi" del soggetto il più possibile, secondo quello che ciascuno può rappresentare in effetti, non significa però che il soggetto debba subire un passivo condizionamento; perché se variano attorno al soggetto i richiami simbolici (come quelli della famiglia, dell'infanzia, della professione, del ruolo desiderato, del sesso) egli è comunque obbligato a crearsi in proprio nuove


forme di risposta. Queste risposte, per il senso simbolico che possono assumere, pur sotto la spinta di nuove situazioni di rapporto, possono essere qualcosa di più di reazioni contingenti e provvisorie; possono anzi costituire delle scelte, dei modi dì "comparsa relazionale" e duratura che avranno ripercussioni su tutto il futuro del soggetto.
Certo queste scelte, queste comparse sono indotte a definirsi nel tempo, da tutto il variare di una situazione dinamica complessiva, entro cui l'individuo, per sue circostanze, si trova immerso; ma non per questo si configurano come necessariamente e rigorosamente determinate dall'evolversi di una situazione. Anzi attraverso di esse, l'individuo, può in qualche modo "riscoprire" creativamente sé stesso.

2.  Psicodramma come terapia relazionale

Nel campo delle scienze umane, la parola "spontaneità" è in effetti, di difficile uso. Malgrado ciò Moreno non ha voluto abbandonarla; ha anzi cercato di darle una maggiore cittadinanza scientifica, in senso sociologico, individuando i fattori tele di spontaneità, e cercando di misurarli.
In realtà Moreno non è mai stato un teorico molto sistematico; aveva delle certezze non del tutto precise e talune parole, forse non sufficentemente vagliate, gli servivano per esprimerle. Una di queste certezze era che la terapia di Freud impedisse la libera ricerca di un ruolo rinnovato. L'analisi della psiche, le libere associazioni, il divano, il rapporto con lo psicanalista, il transfert dimostravano per Moreno una mentalità ancora basata, secondo i canoni della tradizione occidentale, sulle premesse di un razionalismo positivistico.
In effetti Freud si basava sulla necessità di individuare e distinguere prima, anche riduttivamente su un piano razionale, quello che è rimosso, nella psiche; non era di solito molto persuaso di poter procedere a una terapia senza distinguere le cause dei traumi e delle nevrosi; mentre per Moreno l'individuo, realizzando sé stesso come "attore totale", può in certo modo oltrepassare le cause stesse delle nevrosi.
Moreno era convinto - anche se non riuscì mai ad avallare questa sua intuizione in un solido sistema scientifico - che la miglior possibilità terapeutica fosse quella che già si manifesta fortemente in senso relazionale, cioè fondata nei rapporti del soggetto; ossia quella legata ad una immaginaria rappresentazione umana di una situazione possibile, in cui, attraverso procedimenti attinti in genere dal teatro stesso, alcuni atteggiamenti potenziali dell'individuo prendono forma e giungono alla consapevolezza di colui che li vive, e divengono tali da essere percepiti dall'analista.
Dunque una terapia relazionale, basata sulla dinamica reciproca dei ruoli, e sulla possibilità dei ruoli, veri o fittizi, di rivelare verità interiori e possibilità di soluzioni. Probabilmente una migliore spiegazione scientifica degli innegabili esiti raggiunti dallo


psicodramma moreniano e dalle molte differentissime forme di psicodramma che da Moreno hanno preso inizio, si avrà soltanto quando sarà maggiormente studiato il rapporto che si forma, fin dall'inizio, fra un soggetto e i simboli che egli riesce ad individuare. Rapporti che hanno sempre, probabilmente, qualcosa di relazionale, di fluido e polivalente.
Forse lo psicodramma consente all'uomo di dar corso, nell'urgenza di nuovi confronti, a orientamenti e esigenze di vita che è utile raggiungano una loro maturazione.

3. - I vari modi della spontaneità

Comunque la spontaneità è solo un aspetto modale e non sostanziale di questi procedimenti. Del resto, lo stesso Moreno sembra più volte rendersene conto. Per esempio quando dice: "la spontaneità è una risposta la cui adeguatezza è di grado variabile a una situazione la cui grandezza è di grado variabile" egli chiama in causa, forse senza avvedersene, le polarità simboliche dello spirito.
Perché in realtà una situazione intersoggettiva - come quella che può formarsi nello psicodramma, fra il paziente, il terapeuta e gli ego ausiliari (cioè gli interpreti del dramma) - può apparire, secondo i momenti, di grado variabile, soprattutto per una ragione: perché attraverso di essa entrano in gioco, in rapporto al soggetto, molte e diverse e mutevoli polarità simboliche, che gli rappresentano la realtà della sua vita e dei suoi problemi.
Ma al mutarsi delle polarità simboliche che entrano in gioco, sarà opportuno rispondere con nuove, pronte, rinnovate forme di mediazione, con adeguate trasformazioni di ruolo, in cui le nuove polarità simboliche siano implicitamente comprese. Certo, queste forme di mediazione non possono essere ritrovate subito, ma attraverso confronti e tentativi, in cui il soggetto deve sentirsi libero e a suo agio, e naturalmente, spontaneo: afferma infatti Moreno: ogni assunzione di ruolo deve essere stata allo stadio nascente una forma di gioco di ruolo.
Un gioco del genere, certo, deve essere molto spontaneo; ma non vi è nessuna forma di gioco senza l'idea, anche embrionale, di una reciprocità possibile, nel rapporto che può formarsi fra noi e gli altri; e senza la speranza di una rispondenza, in qualche modo, rispetto a quello che può aspettarci dagli altri, dopo gli atti con cui "apriamo il gioco".
Dunque, oltre la spontaneità, conta lo slancio, anche improvvisato o incerto, verso l'acquisto di una misura umana, che sia in certo senso, veramente nostra, ma nello stesso tempo aspiri anche a una rispondenza in qualche modo controllata; e ci permetta meglio di associarci in un insieme, secondo il ruolo simbolico che possiamo giocare fra gli altri.
Anche a teatro, la parola spontaneità è di per sé insufficiente a conferire un'identità precisa, a operazioni sceniche che possono essere diverse, e di vari scopi.
Ci può essere la spontaneità che serve alla variazione contingente di un tema e di un canovaccio già prefissato, come avveniva

nella Commedia dell'Arte; ci può essere la spontaneità predisposta prevista dall'autore come possibile effetto scenico, che gli spettatori sanno già come non autentica, come è nei drammi menzionati di Pirandello; ci può essere la spontaneità che sembra nascere dall'acquisto, talvolta, in laboratorio, di un atto e di un gesto, che sembra disciogliere l'attore dalle false abitudini espressive, dalle contraffazioni non necessarie (una spontaneità, dunque, che poi dovrebbe rimanere in gran parte fissata per lo spettacolo, come avviene in Barba e Grotowski); e una spontaneità, infine, che sembra imprescindibile in quelle esperienze di teatro e di mass-media, le quali presuppongono un coinvolgimento immediato e sempre diverso del pubblico (soprattutto negli Stati Uniti).
In ogni caso, anche a teatro, ogni forma di spontaneità si sviluppa come ricerca simbolica rispetto a un tema e a un contenuto precedente; o per realizzare questo contenuto, con verità rispettosa; o per trame pretesto per una variazione che lo purifichi, lo demistifichi; o per tramandarlo in alcuni aspetti essenziali.
Il fatto che questi processi si verifichino talora con una progressione logica intensissima, in cui ogni situazione si riconnette naturalmente con le altre, non significa che i processi in sé stessi siano meno importanti di quella che in fondo è solo una modalità (la spontaneità) del loro verificarsi.

4. - Riduzione e relazione nel teatro di Pirandello

A questo proposito fermiamoci un momento su Pirandello. Ogni personaggio nel suo teatro ha il problema fondamentale della sua finitudine, ossia di quello che dovrebbe essere il suo contenuto, il suo tema, che egli sarebbe obbligato indefinitamente a proporre agli altri. Questo contenuto, questo tema, talvolta non è completo e riconosciuto come potrebbe; il personaggio tenta allora di svilupparlo, di articolarlo, di renderlo pieno, coerente, talvolta con estrose invenzioni (pagate spesso in modo amarissimo), che instaurano nuovi giochi reciproci. Ma questo ha poco a che vedere con la spontaneità proposta da Moreno.
Forse una analogia più spiccata con la situazione psicodrammatica si può meglio rinvenire pensando che la vicenda pirandelliana oscilla sempre, secondo noi, fra una istanza che induce i personaggi a una loro riduzione nell'ambito di alcuni tratti essenziali, e una istanza che li spinge invece a una relazione con gli altri.
Spesso quest'ultima appare connessa con la forma della riduzione stessa; un po' come i protagonisti dello psicodramma sono messi in grado di scoprire come sono riducibili a pochi schemi evidenti, per esplorare poi con più libertà la propria verità, e le forme di rapporto possibile.
Però in Pirandello questo rapporto riduzione-relazione assume aspetti diversi. Il personaggio che è portato a ridursi entro un ruolo preminente, rispetto al mondo, lo fa o per necessità, o per vocazione, e per l'impossibilità di superare un'alternativa che sembra


irremissibile. Per esempio la donna sconosciuta di Così è se vi pare lo fa per un senso di pietà, che sente come un obbligo; e la relazione con gli altri che nasce da questa riduzione alla fissità, è nella maggior parte dei casi straziante, angosciosa. Ma non sempre lo è fino in fondo.
Talvolta questa logica autoriduttiva viene in certo senso premiata, per esempio nel Piacere dell'onestà. Talvolta, serbando le stesse premesse riduttive, l'attività di relazione consente un variare quasi fantastico di stimoli. È quello che propone il mago Crotone agli abitatori della Scalogna nei Giganti della Montagna. Altre volte questa riduttività si conferma all'improvviso come uno stimolo necessario di comportamento, come la constatazione di non poter essere altro che, per l'irrompere di una situazione. Allora dando rilievo alla propria identità di rapporto, l'individuo tenta di realizzarla, stabilendo una relazione adeguata con gli altri che può incontrare. Così avviene negli stessi Giganti della Montagna, per la tragica decisione di Use di recitare La favola del figlio cambiato davanti ai Giganti.
Quando la riduttività agisce in forma tale da esporre l'individuo in un'azione difficile, in cui deve adeguarsi agli altri, è il momento in cui, secondo noi, le tecniche di Pirandello si avvicinano di più a quelle dello psicodramma. Quando, cioè, il personaggio si trova sollecitato da una situazione dinamica, attraverso la quale deve tentare comunque di proporre una sua identità di relazione, connessa al modo in cui gli altri gli corrispondono.
È questo senza dubbio anche il caso dei Sei Personaggi in cerca d'Autore e di altre commedie del cosiddetto "Teatro nel Teatro". In questi e altri drammi l'assillo di sentir riconosciuta la propria identità, ancora incompiuta, ma ormai irriducibile e incalzante, porta il personaggio a cercare un riscontro nel tempo e nello spazio, là dove altri uomini possono corrispondere a questo tentativo. Egli cerca così una progressione nell'azione e nel discorso, in cui l'immaginario sia come vero, e in cui la sua identità possa rivelarsi attraverso le fasi inevitabili che la determinano.
A questo punto direi che più di una analoga tendenza alla spontaneità, che accomuna la prima esperienza di Moreno al Pirandello dei Sei Personaggi in cerca d'Autore e delle 'altre commedie cosiddette del "Teatro nel Teatro", si dovrebbe parlare di una analoga situazione dinamica di base. Questa propone dei personaggi in sé incompiuti ma che devono fare i conti con una loro incalzante realtà, per tentare di esprimersi compiutamente in rapporto con gli altri.
Questa situazione dinamica di partenza è data in Pirandello dal teatro, e dalle possibilità che esso consente; in Moreno da qualcosa che è come il teatro: da un mondo che stimola nei personaggi la propria ricerca rappresentativa.

 


5. - Linguaggio inconscio

Anche questo esempio ci conferma forse che il concetto di spontaneità andrebbe maggiormente approfondito e analizzato. Anche il raffronto con i testi teatrali, che è quasi inevitabile chiamare in causa, come quelli di Pirandello che abbiamo menzionato, ci conferma nell'idea che forse, più che di spontaneità, sarebbe il caso di parlare di una forma di mediazione simbolica, accelerata e situazionale, basata sul necessario svolgimento di un ruolo.
Questo è probabilmente vero per tutti gli atteggiamenti rappresentativi dell'uomo come attore, o per l'uso che egli fa del suo corpo. Ed è probabilmente vero per tutte quelle scuole di psicodramma, che prendono le mosse da Moreno, ma che soprattutto in Europa, se ne differenziano notevolmente; soprattutto perché cercano di fornire allo psicodramma una maggiore giustificazione e un maggiore significato in base a una teoria psicologica più elaborata.
Le critiche vanno alla cosidetta spontaneità moreniana. O meglio essa non è discussa in sé stessa, solo non le viene attribuito un valore di abreazione, di liberazione degli impulsi rimossi, di autorivelazione che renda il soggetto stesso più consapevole.
Alcune scuole, e mi riferisco soprattutto allo psicodramma analitico (v. G. e P. Lemoine, Lo Psicodramma, 1972 Feltrinelli), ritengono che il comportamento esteriore e corporeo dell'individuo, spontaneamente aiuti l'analista a comprendere meglio le motivazioni che inducono il soggetto, anche nella fase di massima concitazione, a dare di sé una immagine mistificata, in rapporto all'autentica espressione del suo inconscio, che dovrebbe essere già strutturato come un linguaggio. Attraverso il riesame dell'espressione spontanea può agire allora la critica terapeutica, quando il terapeuta ritiene giunto il momento di intervenire (spesso anche dopo la seduta).
Certo l'idea che il comportamento psicodrammatico, soprattutto visto attraverso l'atteggiamento di tutto l'attore, compreso il suo corpo, possa aiutarci a intendere le caratteristiche e le anomalie di un inconscio strutturato come linguaggio, può essere stimolante per un analista. Può essere infatti stimolante, attraverso un immaginario così ricco, come quello che il corpo consente di esprimere, cercare di comprendere là dove il soggetto, secondo gli schemi propri della psicoanalisi di Lacan, non può sviluppare a sufficienza il giusto passaggio dall'immaginario al simbolico.
Dato che per gli psicoanalisti lacaniani l'inconscio è già strutturato come un linguaggio, ma non un linguaggio di cui si possa avere coscienza (essendo "l'Altro" che parla attraverso di esso), esiste però la possibilità (e lo psicoanalista deve curare il più possibile che questo avvenga) che il soggetto tragga da questo primo linguaggio non suo, un linguaggio cosciente.
Questo linguaggio dovrà poi essere formato, in rapporto al modello proposto da Saussure, da opposizioni differenziali. Non solo, ma è possibile che questo nuovo linguaggio, appartenente alla sfera del simbolico, possa poi dar luogo a una Legge, attraverso cui il vuoto, l'assenza, la castrazione, la morte siano in qualche modo accolte in una nuova struttura.


Ma allora qual è l'utilità terapeutica dello psicodramma analitico? Rispondiamo che quel primo linguaggio non consapevole di cui parlavamo, quello in cui parla l'inconscio può presentare anomalie e sbandamenti non più riducibili, a un certo momento, a un linguaggio strutturato. Lo psicodramma, nella sua spontaneità, pare dunque un ottimo mezzo perché l'analista possa studiare l'inconscio sovraindividuale, quello che parla, e in cui e nei cui eccessi o lacune spesso si annidano le radici delle nevrosi.
Senza discutere qui il problema dal punto di vista psicoanalitico, perché non è nostro compito, ci limitiamo ad osservare, ancora una volta, che la spontaneità degli atteggiamenti psicodrammatici assunti dal paziente, è ancora in buona parte riconducibile, in molti casi, a una qualche forma già maturata di mediazione simbolica.
Cioè il corpo non è un libero strumento dell'inconscio, ma risente delle memorie espressive che è abituato a darsi. Non è possibile secondo noi analizzare veramente l'inconscio che parla attraverso il corpo e gli atteggiamenti esteriori del paziente, perché, anche ammettendo per ipotesi che l'inconscio sia strutturato come un linguaggio, non è affatto detto che abbia la possibilità di strutturare a sua guisa, spontaneamente, ogni possibile linguaggio, come quello del corpo.

6. - Linguaggio del corpo

Conviene qui esaminare la cosa anche da un punto di vista teatrale. Certo il corpo umano, nella sua complessità e nel suo ordine fisico e verbale, può costituire un linguaggio; ma un linguaggio tutto da ritrovare e da comporre. Le concezioni dei teatranti divergono anche riguardo ai modi naturali di autorappresentazione che vengono ad essere impliciti nel corpo stesso dell'attore. Il mimo Decroux dice addirittura che nel corpo occorre instaurare una comunicazione nuova la dove una comunicazione già esiste. E se una comunicazione già esiste, la nuova comunicazione non potrà essere che relativa ad essa, non potrà essere del tutto spontanea.
C'è poi da considerare che due scienze influenzate dalla antropologia, la cinesica e la prossemica, cercano di studiare come attraverso il corpo dell'uomo, si formino dei linguaggi gestuali, osservabili sul piano antropologico, che tengono conto del variare delle posizioni e dei momenti del corpo umano nello spazio e nel tempo, e vi attribuiscono particolari significati (v. Sebeok, Hayes e Bateson - a cura di -Par alinguistica e cinesica, 1970 Milano e E. T, Hall Il linguaggio silenzioso, 1969, Milano).
Questi linguaggi tipicamente simbolici sono certamente precedenti a ogni psicodramma, e ne regolano forse l'andamento spontaneo. Non parliamo poi ovviamente di quelle culture, dove, sia pure soprattutto in particolari circostanze festive (come in Oriente), coloro che si esibiscono in pubblico si esprimono secondo codici gestuali fortemente ritualizzati e tramandati.
Ma rimaniamo in Occidente e trattiamo solo delle abitudini naturalmente rappresentative che sono proprie dell'uomo moderno. Anche in rapporto al fatto che viviamo in una civiltà che consente a ogni soggetto di esprimere più o meno consapevolmente,


attraverso il corpo, la sua personalità in rapporto agli altri, pare difficile che qualsiasi soggetto che deve diventare paziente, cioè essere sottoposto a una terapia psicodrammatica, non abbia già delle tendenze ad assumere, sia pure in modo maldestro, degli atteggiamenti rappresentativi. Ciascuno di noi matura, sia pure in modo goffo e inefficiente, un proprio atteggiamento rispetto agli altri, che vorrebbe essere rappresentativo, e costituire già, in certo modo, una propria espressione simbolica.

7. - Questioni aperte

In rapporto al problema se l'esperienza teatrale e quella psicodrammatica possano avere in comune qualcosa di più profondo della spontaneità, cioè qualcosa che si potrebbe chiamare una forma di mediazione simbolica, ci soffermiamo ora, anche in base ai discorsi precedenti, a sottolineare alcuni punti che meriterebbero una ulteriore trattazione.
a) Per alcuni aspetti, l'esperienza dello psicodramma classico, quello di Moreno, pur sembrando a molti non sufficientemente fondata sul piano teorico, mette in rilievo più chiaramente l'inevitabile ricerca di una intenzione e di una mediazione simbolica, nello spontaneo atteggiamento del soggetto analizzato.
Forse perché Moreno, per la sua esperienza teatrale, aveva capito che ogni elemento immaginario che entra in gioco, viene sentito dal paziente e dagli astanti, in rapporto a un insieme totale possibile di reciproci rapporti umani. Gli stessi procedimenti teatrali da lui proposti (lo specchio, il doppio, l'inversione dei ruoli, l'immedesimazione del personaggio in un passato o in un futuro possibile, la drammatizzazione di un sogno) hanno valore in una ricerca nella quale ogni protagonista tende a prender senso e misura in un fascio di rapporti umani che comprende ogni possibilità a lui collegata.
Da notare, a questo proposito, che le tecniche teatrali proposte da Moreno sono soprattutto desunte dal teatro rinascimentale e postrinascimentale; a partire cioè da quella epoca teatrale in cui il personaggio comincia a confrontarsi con la totalità di un ordine possibile, umano e divino, e crede che questo ordine possa esistere, e che il suo gesto possa in qualche modo svolgersi in rispondenza ad esso.
b) Una fedeltà troppo assoluta (che d'altra parte, in pratica è piuttosto rara) dello psicodramma analitico (non moreniano) alle concezioni psicoanalitiche di Lacan, può suscitare qualche dubbio. Poiché infatti sembra evidente che il corpo, l'atteggiamento intero di un soggetto non può essere del tutto l'espressione significante di un inconscio-altro, superindividuale (che non ha in sé un vero valore simbolico, che sia tutto riferibile al soggetto). Questo corpo, questo atteggiamento appaiono già, in misura maggiore o minore, influenzati da una precedente inevitabile acquisizione di atteggiamenti simbolici e rappresentativi, per influsso della cultura in cui i soggetti hanno vissuto, e per la loro storia personale.
Occorrerebbe pertanto all'analista, distinguere almeno questo residuo difficilmente eliminabile negli atteggiamenti tradizionali del singolo. Occorrerebbe sviluppare nei suoi confronti una analisi che tenesse conto della esistenza di questi quasi inconsapevoli ricorsi dì reazioni simboliche già assimilate.


c) Come già Moreno si giovò molto della esperienza teatrale, così pare opportuno che il terapeuta attuale dello psicodramma sia informato di alcune questioni attuali che riguardano la simbologia del corpo, e che chiamano in causa teorici del teatro e registi teatrali, e anche filosofi e antropologi.
Ammettiamo per esempio che il corpo possa offrire, come credevano, sia pure in modo diverso, Artaud e Nietzsche, una gamma sempre rinnovata di possibilità simboliche, entro cui in qualche misura si possa in effetti iscrivere un linguaggio. Sia Artaud che Nietzsche credono infatti alla possibilità di rifarsi al corpo umano, come all'unica fonte sicura di simboli rinnovati, dopo la negazione di ogni altro valore. Del resto una fase di negazione totale può rendere possibile, come pensava anche Freud, una nuova creazione di simboli.
Dunque Artaud e Nietzsche propongono il pensiero negativo come una dinamica introduttiva. Artaud, che crede, almeno nella sua fase più matura, il corpo umano come inizialmente derubato da Dio, non può essere d'accordo con Freud, quando questi propone l'avvento di simboli promossi, in forma attuale, dalla pulsione di vita o dalla pulsione di morte. Tali simboli per Freud devono comunque essere interpretati nel loro senso odierno secondo le istanze inconsce di ciascun soggetto, spesse volte condivise da moltissimi altri. Artaud invece vuole che ricompaia nell'uomo attore, attraverso un rigore assoluto, una struttura e un linguaggio originario, che è come sacro.
Ma Artaud non può essere d'accordo neppure con Nietzsche, perché dopo la negazione di ogni principio mistificatorio, non può consentire che il corpo abbia la sua rivincita nemmeno in un gioco di maschere, come quello in cui si esplica il riso, alfine liberato, di Zaratustra.
Sono questioni in parziale contrasto, che andrebbero studiate; e andrebbe anche studiato dai cultori dello psicodramma, nello studio della simbologia del corpo, il valore differenziale (Heidegger) che possono assumere alcuni fatti interruttivi, come la morte, o il rovesciamento totale delle tecniche di comunicazione, che possono portare a una totale apparente inversione delle prospettive simboliche. Anche se una nuova regolazione, a livelli più esposti e drammatici, è sempre possibile.
d) La complessa possibile simbologia del corpo umano, la sua disponibilità polisemica (in parte già spesso attivata e avvalorata), la tendenza già diffusa in coloro, che vivono nella civiltà occidentale, a cercare attraverso il gioco, indotto dalla rappresentazione quotidiana, dei modi di comparsa e di pressione, che possano poi tradursi in forme valide e ricorrenti di rapporto col mondo, sono tra i molti aspetti che possono riflettersi sull'attività teatrale, e sulla esperienza dello psicodramma.
Certo, nell'un caso e nell'altro, sia l'improvvisazione, sia la ricerca spontanea, appaiono svolgersi dopo una fase di preparazione, cui concorre tutta la vita del soggetto. Molti fattori, anche di vecchia data, possono confluire in un atto mimetico, comunque orientato. Valutando perciò nello psicodramma un atto qualsiasi, in cui sembra compendiarsi una particolare tendenza interiore del soggetto, o una profonda situazione conflittuale (come quella che è compito dell'analista di interpretare), occorre perciò ricordarsi di queste esperienze precedenti, dell'azione di questi fattori che possono aver influenzato e diversificato l'atto stesso.


L'abitudine a un atto rappresentativo, a un gesto, a un comportamento desunto dalla vita quotidiana e dalla esperienza culturale, può facilmente oggi instaurare una forma propria e particolare di mediazione simbolica, a cui il soggetto può fare naturale ricorso, e che può riflettersi nel corso di tutte le sue manifestazioni. La forza situazionale e sintetica di un atteggiamento fisico e corporeo, di carattere mimetico, comunque assimilato in precedenza, può dunque influenzare l'azione del soggetto durante lo psicodramma, e di questo occorre probabilmente tenere il massimo conto.
e) Indubbiamente, è utile tener presente che lo psicodramma, a differenza del teatro, non è destinato a una rappresentazione, non deve compiacere un pubblico; ma serve ad una miglior consapevolezza delle necessità interiori di un soggetto, in rapporto soprattutto alle sue inibizioni e ai falsi idoli mentali che lo vincolano.
Tuttavia lo studio sempre rinnovato dei procedimenti teatrali può sempre aiutare lo psicodramma; e viceversa.
Per esempio, le soluzioni spontanee fornite dal rapporto psicodrammatico, potranno essere ribadite e chiarite (come lo stesso Moreno aveva predetto), attraverso un allenamento alla spontaneità, che può assomigliarsi a quello praticato oggi da varie scuole di regia. Inoltre queste soluzioni potranno anche essere memorizzate, soprattutto negli atteggiamenti spazio-temporali del corpo, e soprattutto quando esse sembreranno simboleggiare un orientamento più profondo, sintetico e liberatorio (come è nel teatro di Barba e Grotowski).
Viceversa, si potrà pensare sempre meglio all'adozione di mezzi psicodrammatici per la preparazione dell'attore, cosa del resto, già tentata da Mario Prosperi e da altri con uno psicodramma dell'attore. L'idea è che le possibilità comunicative dell'attore stesso dipendono anche dalle possibilità di comprendere le esigenze peculiari della sua personalità così fortemente da poterne fare, senza paura, un uso scambievole e reciproco con altri. Forse l'attore potrà meglio sviluppare momenti di meditazione attiva, attraverso i quali partecipare nello stesso tempo all'esplorazione di nuovi orizzonti, e all'abbandono e alla consumazione di ciò che lo vincola falsamente.
A questo punto si potrebbe forse considerare l'attore come un soggetto, che - sia o no combattuto fortemente da proprie nevrosi - può trovare il modo di scandire e rafforzare con una presenza più rilevata il suo vero apporto mimetico in un insieme come lo spettacolo teatrale, che può sempre essere promosso da una convergenza collettiva di carattere liberatorio. L'incompiutezza naturale dell'attore potrebbe essere allora più facilmente, volta per volta, l'introduzione inquieta a una possibile compiutezza.
Allora una forza di implicazione verso gli altri raggiunta attraverso un atteggiamento più autonomo e sincero nel contesto comune, potrebbe contribuire a quella mediazione simbolica rivolta a creare dimensioni liberatorie (e spontanee), anche in un pubblico. Gli spettatori potrebbero essere stimolati da sollecitazioni idonee a mettersi a confronto con analoghe volontà di critica e superamento. E questo anche attraverso un dosaggio scambievole di energie che dovrebbe essere in primo luogo profondamente valutato.

 


(1) Invece di simbolo si potrebbe, forse con più evidenza, usare la parola "sacro"; «ma allora occorrerebbe un lungo discorso, da non farsi in questa sede, sul "nuovo senso" da dare a questa parola, un senso che si estenderebbe al di là dell'ambito di una fenomenologia religiosa (come il senso proposto da R. Otto) o dall'ambito strettamente "sociologico" (come il senso proposto da Durkheim). In questi ambiti, infatti, e con sensi particolari e molto diversi, questa parola è stata finora soprattutto usata; ma occorrerebbe, anche in questo caso, ricordare altri sensi che ha preso nelle scienze dell'uomo, e spiegare estesamente il senso che si vorrebbe attribuirle.

SUMMARY

Moreno and Theater Spontaneity and Symbolic Mediation
The Author examines the links between Moreno and the theatre and tries to interpret the phenomena and techniques of spontaneity as a sort of "symbolical mediation". He also makes a comparision with Pirandello's dramatie work. Some of his characters work out the contrast between the rigidity of the role and the tendency to interact with other people through the invention of special symbolical solutions. The Author explains how experimental theatre and psychodrama techniques might enrich each other.

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