PIRANDELLO E JASPER di Mario Trevi
Le brevi note che seguono nascono dalla meditazione su un evento apparentemente insignificante e invece carico di suggestioni e di coinvolgimenti sia emotivi che riflessivi.
Al termine di una commemorazione di Karl Jaspers, in occasione del centenario della sua nascita, tenutasi presso l'ospitale e liberale cattedra di Psichiatria Clinica della II Università di Roma, mi venne rivolta una domanda inaspettata. Ottavio Rosati, riferendosi a quanto io avevo detto circa la verità secondo Jaspers, che è sempre unica e molteplice, una (e perciò universale) e singola (e perciò radicata nell'inconfrontabilità di ogni esistenza individuale), mi chiese se poteva esistere un qualche nesso tra Jaspers e Pirandello. Io fui al contempo grato e sconvolto dalla domanda. Grato, perché Jaspers, a cui sono debitore di moltissime cose sia nell'ordine del problema pratico che in quello del pensiero, mi aveva guidato alla comprensione del senso del tragico, e perciò alla comprensione di quell'aspetto sublime e perturbante del teatro che è la tragedia. Sconvolto, perché la domanda di Rosati, corretta, e composta in sé, aveva scatenato in me uno straordinario affollamento di pensieri. Tra l'altro mi martellava nella mente l'idea di quanto un eccezionale poeta del nostro secolo, impegnato nel mistero del rapporto tra singolo e verità e indubbiamente tributario di Pirandello, Jorge Luis Borges, sia debitore, forse inconsapevolmente, di Jaspers. (Il suo racconto più universalmente e giustamente famoso, La biblioteca di Babele, è tutto racchiuso e esplicitato nella seconda sezione del secondo paragrafo de] secondo capitolo di Orientazione filosofica nel mondo, primo volume di Filosofia [1932]).
Risposi alla meglio alla domanda denunciando le due vie possibili per una risposta completa e sensata: quella storico-filologica e quella imperniata sulle affinità originarie di due personalità che probabilmente hanno sempre saputo pochissimo l'uno dell'altro.
Dissi che la prima via, quella storico-filosofica, era senz'altro la più corretta. Pirandello, nato sedici anni prima di Jaspers, aveva studiato in Germania, a Bonn, dal 1889 al 1891. Erano gli anni della massima influenza esercitata da Dilthey sulla filosofia germanica, e Dilthey sarebbe stato uno dei grandi maestri di Jaspers. Erano gli anni in cui Nietzsche, la cui mente si spegneva tragicamente a Torino, esercitava tuttavia il più penetrante e sconvolgente influsso sulle giovani generazioni europee. E Nietzsche sarebbe diventato uno dei punti di riferimento più costanti di Jaspers psicologo e filosofo. Erano gli anni in cui l'opera di Kierkegaard cominciava a uscire dal silenzio in cui l'aveva relegata il capriccioso Zeitgeist e dava inizio a una spietata interrogazione rivolta alle menti più aperte e spregiudicate. E Kierkegaard è il secondo punto di riferimento fondamentale del filosofo di Heidelberg.
Era impossibile che il giovane Pirandello, che a Bonn si dedicava a ricerche linguistiche, o per meglio dire, glottologiche, non avesse rivolto la sua straordinaria curiosità a quegli stessi fermenti filosofici che avrebbero nutrito il giovane Jaspers. Ma per seguire questa via - la più sicura e la più scientifica - occorreva essere filologi e filosofi fortunati, cioè capaci di reperire documenti comprovanti una convergenza di interessi che per noi profani poteva rimanere niente più che una gradevole suggestione.
L'altra via - più impervia e del tutto congetturale - era quella delle affinità delle personalità, delle misteriose concomitanze di destino e di pensiero che Jaspers, nella Psicologia delle visioni del mondo, assegna alla categoria esistentiva del "demoniaco" e esemplifica con la vita, l'anima e l'opera di Wolfang Goethe.
Chi scrive crede sinceramente che anche questa via - sebbene più difficile - sia legittima. Ma anche in questo caso occorrerebbe dedizione, impegno e quella misteriosa alchimia del tempo che permette le intuizioni giuste nel momento giusto.
Chi scrive tuttavia non può non dimenticare che, quasi a chiusura della sua grande opera di logica, Della verità (1947), Jaspers apre un capitolo intitolato: Il sapere tragico, come a indicare che solo i maestri della tragedia hanno saputo mostrare che la verità esiste soltanto laddove essa grandeggia incommensurabilmente nella lotta (o nella sconfitta) con la verità che la contraddice. "Tragico è quel conflitto in cui le forze che si combattono hanno tutte ragione, ciascuna dal suo punto di vista. La molteplicità del vero, la sua non unità, è la scoperta fondamentale della coscienza tragica".
"Nella tragedia vive la domanda: che cosa è vero?". Aggiungeremo che questa domanda, essendo una domanda autentica, mantiene aperta a sé stessa indefinitamente, e ogni presunta risposta è limitata o falsa di fronte alla radicalità di quella stessa domanda.
Certo, per Jaspers, gli ultimi veri rappresentanti della tragedia sono i romantici. Anzi, l'ultimo tragico nominato nel testo, degno di stare accanto ai greci e a Shakespeare (che Jaspers predilige sopra tutti) è Schiller. Hebbel e Grillparzer sono aspramente criticati.
Per chi scrive invece Pirandello (che Jaspers non nomina mai) è il più grande tragico del nostro secolo e apre una nuova era del tragico, l'era in cui la domanda: "che cosa è vero?" si rende così estesa e radicale da coinvolgere ogni vivente che abbia dignità di pensiero. Per di più Pirandello è un autore tragico nel senso più specifico indicato da Jaspers: "esistono poi alcune tragedie in cui è lo stesso eroe ad andare in cerca della verità. La possibilità che una cosa sia vera diventa il tema della tragedia, e ne deriva il problema stesso della possibilità, del significato e delle conseguenze del sapere" (Jaspers, Von der Warheit, pag. 934). Da questo punto di vista tutto il teatro di Pirandello è tragico, tutto il teatro di Pirandello conduce l'uomo su quel sentiero in cui, per rimanere uomo, deve porsi radicalmente in questione.
Il "teatro del teatro" è l'ultima conseguenza di questa modalità d'interpretare l'uomo. Sulle orme di quello Shakespeare che Jaspers considera l'apice del senso tragico del mondo moderno, l'autore del testo teatrale (sarebbe meglio dire, il suo cosmo interiore) diventa attore tra gli attori: dramatis persona interrogante e interrogata, personaggio (e perciò maschera e verità insieme) tra i personaggi. E non solo l'autore diviene attore, ponendosi radicalmente in questione, ma lo stesso spazio teatrale lo diventa, quello spazio sacrale - giocoso e terrificante insieme - in cui da antichissimi tempi l'uomo si rappresenta per interrogarsi e ascoltare la risposta nascere - per allusioni e rinvii - dal conflitto e dalla comunicazione, dall'odio e dall'amore, dalla disperazione e dalla speranza.
Tommaseo distingue sottilmente tra sospetto e diffidenza. Esemplificando con la popolare saggezza del veneto, dice che noi sospettiamo di una donna che ci tradisce ma diffidiamo di una donna il cui comportamento potrebbe comprendere anche il
tradimento ma non lo implica necessariamente. Chi sospetta sa già di che cosa sospettare, chi diffida non lo sa: sa che la verità va cercata e, in questa consapevolezza, mette in questione se stesso.
Noi stiamo uscendo dall'età del sospetto perché, umilmente, non crediamo più di "sapere" ciò che l'altro e noi stessi nascondiamo. Il sospetto chiude per sempre l'interrogazione con una presunta verità. I maestri del sospetto - Marx, Nietzsche, Freud - hanno creduto troppo fermamente (forse troppo ingenuamente) nell'oggetto del sospetto. Ma quando tale oggetto è chiarito e disoccultato anche la domanda si spegne. Al posto di una verità che si cerca, si pone una verità trovata: per solito una parte di verità che arbitrariamente si accampa come il tutto e, nel far questo, fallisce come verità.
Usciti dall'età del sospetto, entriamo nell'età della diffidenza. La diffidenza non sa nulla circa ciò di cui si deve sospettare. La diffidenza ha perso ogni arroganza di sapere: sa solo che il volto dell'altro non la persuade, e, in questo sapere di non sapere, rimanda continuamente ad altre possibili verità. Se il sospetto è un movimento che si ferma di fronte al nascosto quando questo viene messo in luce, la diffidenza è un movimento senza fine, è una domanda che rimane infinitamente aperta.
Pirandello è il primo maestro della diffidenza, di questa più umile attitudine umana: la diffidenza non si arresta neppure davanti a colui che diffida. E, diffidando di me che diffido, apro la via a una verità difficile, forse irraggiungibile, ma che ha il vantaggio di non potersi mai tramutare in menzogna.
SUMMARY
Pirandello and Jaspers
The Author, an analytical psychologist and phenomenologist, is con-sidered one of the leading Italian scholars on C. G. Jung's thought. In his article he compares the philosophy of Pirandello's theatre with the conception of tragedy as multiplicity of truths expressed by Cari Jaspers in the essay Von der Wahrheit (1947).