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ESPERIENZA DEL BUIO di Piero Ferrero

II buio è la condizione necessaria alla confessione. Il buio fisico, intorno a chi parlerà e intorno a chi ascolterà. Così si fa buio in sala, a poco a poco, mentre fuori si è aspettato che facesse notte.

La notte è stata attraversata da rumori, luci (finte, false), confusione. Una notte artificiale inserita nel corpo di quella vera. Anche questo perché fosse possibile una qualche confessione. Di chi?
Di ognuno di quelli che gridano, si agitano, fingono. E di ognuno di quelli che guardano, non capiscono, sbalordiscono. Oppure che guardano e, per aver capito, ridono. Quelli che non capiscono sono fuori dal gioco?
Lo spettatore (spectator) che capisce, oltre che vedere, chi è?
Chi è per se stesso e chi (o che cosa) per chi vuole trascinarlo nel suo gioco?
E quello che non capisce (che non ha ancora capito, che non capirà) che cosa potrà essere (diventare) per chi intende comunque renderlo partecipe del suo gioco?
E quello che giocherà con se stesso e con gli altri, chi vuole essere o che cosa accetterà di diventare?
Per se stesso. E per gli altri.
Sono gli altri che renderanno possibile il gioco.
Senza quella massa indistinta, tra la quale ci sono spettatori inerti e spettatori capaci di agire come tali, tutto quello che lui si appresta a fare non può avere alcun senso.
E sarà solamente dal suo rapporto con quel pubblico (la parola è questa, non un'altra) che scaturirà il suo spettacolo, quell'azione che sarà ad un tempo manifestazione di lui e rivelazione dell'acro, il pubblico, appunto. Perché il gioco non avrà alcun senso se non avrà portato gli altri, quelli che lo guardano, a non guardarlo soltanto, ma ad entrarci per diventare in parte come lui che ve li ha trascinati. Bisogna arrivare a questo, naturalmente. Bisogna che lo spettatore seduto in sala, affacciato ai palchi, fisso alla scena moltiplicata per tante volte quanti sono gli altri settori, come lui (come me) diventi il suo nemico. Che, in qualche modo, lo aggredisca. Che lo costringa alla difesa, alla reazione. Che nasca un conflitto: perché questo è, certamente, il senso del gioco. Bisogna che arrivi il momento in cui sia il pubblico a far giocare l'attore. Seduto nel palchetto, aspetto il mio turno.
La sala è buia. Me ne rallegro. Non mi andrebbe di vedere troppe facce oltre a quella di chi siede accanto a me. Conosciuta, per fortuna. Il volto anonimo del pubblico mi è indispensabile  spero di riuscire a poco a poco a dire perché.
In realtà, voglio capire una cosa di me. Non mi importa nemmeno tanto di quello che ci può essere nelle teste della gente, di che cosa può sentire in quel momento una massa di persone tutte in attesa di una qualche divertita (e divertente) epifania. Di chi?
Eppure, in quel buio, io sento questa attesa di rivelazione. Credo di riderne, in cuor mio: ma non me lo confesso. Nemmeno a me stesso. Non ci sarà mica molto da rivelare, brava gente. E se sapeste che sono qui per capire, non mi guardereste in questo modo, immagino, e non guardereste in questo modo gli altri che stanno conducendo il gioco.
Il gioco inizia con la regolarità tranquilla, suadente, di ogni bel gioco rispettabile che ha regole chiare.


Ognuno fa la sua parte proprio come deve farla. E come, è chiaro, il pubblico si aspetta che la faccia. È perfino bello riconoscere gli amici e anche i conoscenti che si sono truccati o impiumati e travestiti — che sia uno spettacolo come tutti gli altri? Il pubblico non sembra troppo sconcertato. Prima, nel foyer, qualcosa, veramente, è successo: una maschera ha creduto che il litigio fosse vero, è diventata pallida: perché, se avesse dovuto intervenire, non avrebbe saputo che cosa fare... Non le era mai capitato, mai, di vedere due spettatori in un teatro come il Carignano alzare la voce e le mani. Poi, qualcuno gli ha spiegato. E lui è tornato ad essere la maschera di sempre... Adesso, in sala, quell'esordio tumultuoso agisce nella memoria dello spettatore? (degli spettatori?) perché nel buio del palchetto me lo chiedo con una certa curiosità (di ansia, o peggio di angoscia, non è proprio il caso di parlare...): quello che sto per fare e per dire lo rivolgerò ad una massa indistinta o a tante persone quante sono quelle presenti?
Quello che ho davanti è quel pubblico che credo indispensabile al mio gioco (voglio dirlo mio) oppure è un pubblico moltiplicabile per tanti individui? Ho un pubblico o settecento pubblici?
Non è la stessa cosa.
Non posso parlare, gridare, fingere per tanti o per uno nello stesso modo. La realtà corporea della folla, l'oggetto oscuro dalle molte teste, mi costringe a una fulminea discussione con me stesso: che cosa significa rappresentare? Si rappresenta per tanti o per ciascuno? E allora come rappresentare me stesso, visto che è di questo che si tratta?
Per un momento mi inceppo. Sono bloccato e mi ripasso mentalmente, velocissimamente le battute che devo dire.
Il soccorso mi viene da loro. Mi arriva, rapido com'era arrivato il dubbio, da quelle frasi che non mi appartengono. Rappresentarmi significherà, semplicemente, camuffarmi. Dietro quelle parole — che non sono mie — e nelle quali, peraltro, credo profondamente.
Profondamente: perché sono parole immaginarie se così si possono indicare. Perché sono strumenti di finzione. Non mi azzardo a dire che ci credo perché sono parole della poesia: la parola esula, in questo momento, dalla situazione. Però, non posso escluderlo del tutto.
Mi nasconderò dunque dietro di esse. In qualche modo, del resto, mi appartengono.
Mentre le mandavo a memoria, nei giorni precedenti, non me ne rendevo conto, per nulla. Le sentivo parti di un'azione concordata precedentemente, e quindi in gran parte estranee: erano le parole di uno scrittore (non voglio dirne il nome) che aveva organizzato un'azione nella quale mi trovavo coinvolto, e nella quale stavo comodissimo. Mi bastava.
In quel buio, si sono trasformate le parole ed è cambiata la mia situazione. L'azione immaginaria è diventata reale.
In forza di quelle parole.
Non sono nemmeno molte. Ma sono quelle che, in quel momento, ho una voglia sfrenata di pronunciare. Sono le parole di un Critico. E sono dirette contro un Poeta.

Non mi sono mai sentito Critico. Non è la mia parte, questa. Critico tutto e tutti, certo. E con questo? Ma un Critico critica solamente qualcosa, io critico tutto.
Nel buio del palchetto, davanti al pubblico sono finalmente un Critico. Vero. Vero?
È esattamente in questo che consisterà il senso di quello che sto per fare. Assumerò una funzione che non mi compete. Non mi compete per natura, non mi spetta per formazione.
E ci metterò tutto quello che, naturalmente, natura e formazione (cultura) mi impediscono di manifestare.
La mia liberazione incomincia. Per questo, nei panni del Critico, io so che sarò più vero del vero.
O vero, semplicemente. Chi avrò con me? Chi contro di me?
Quanti, fra tutti quelli che mi ascolteranno, capiranno quello che sto facendo? Che senso avrà la mia confessione?
E, soprattutto, che cosa ne trarrò io, da un camuffamento attraverso il quale intendo far passare qualcosa che, in altre forme, attraverso altre fenomenologie, mi peserebbe far capire?
E qual è il mio problema vero?
Perché questo lampo mi folgora: dove tende questa mia assunta volontà di confessione?
Voglio sapere una cosa, lo capisco in un lampo. Voglio sapere perché amo il teatro.
Meglio: in che cosa consiste il mio amore per il teatro. La natura di questo amore mi è stata sempre oscura; non ho mai saputo con chiarezza che cosa mi spingeva verso l'antro da cui nascevano i fantasmi magici del mio incanto — perché, attraverso quali vie, sono nato Cotrone? Lo chiederò al pubblico. Farò questo, stasera, dal fondo ovattato del mio palchetto, affacciato sul buio della sala che straripa di testimoni: chiederò ad alta voce perché amo il Teatro e di che cosa è fatto il mio amore per lui.
Mi piace, ad un certo momento, sentire che ridono. Ridono davvero, convinti. Forse perché sono comico. Del resto, intendevo esserlo, e se ridono, ho raggiunto lo scopo. Ridano pure. Non stanno ridendo di me. Non lo sanno, ma ridono di se stessi. In cuor mio li sto aggredendo.

Perché è accaduto questo. Che ho capito. Ho capito quello che cercavo di capire da tempo.
Non si rappresenta nulla, senza un Pubblico. Non si rappresenta nulla senza un Nemico davanti.
Il più fondo dei tuoi fantasmi dipana la sua lunga coda fluttuante solamente se qualcuno lo provoca.
Il mio amore per il Teatro, è chiaro, è il mio bisogno di rappresentarmi: non mi importa quasi nulla di essere vero. Vero, lo sono. Mi importa di essere finto, probabilmente.

La Finzione mi realizza. Solamente lei mi consente il vero impatto col mondo.
Da questo consegue qualcosa di molto semplice che però mi tocca in profondità. Mi provo a dirlo con tutta la calma possibile. Il mio amore per il Teatro è l'Odio per il Pubblico.

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