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DALLO PSICOCINEMA AL TEATRO DEL TEMPO di Fernanda Pivano

Intervento di Fernanda Pivano alla festa di Rai3 al Teatro Carignano
per la presentazione del programma "Da Storia Nasce Storia" di Ottavio Rosati

Questa sera sarà la terza o quarta volta che torno alla mia cara Torino, una città legata al mio maestro Pavese, a Spoon River e alla casa editrice Einaudi, per festeggiare lo psicodramma che ho sempre considerato una forma rivoluzionaria di contro cultura, uno strumento teatrale per la pace e la rivoluzione incruenta. Oggi qui al Carignano non trovo Zerka Moreno che nel 1986, entrò in questa platea con una banda di Pazzarielli, e salì sul palco sottobraccio al nipote di Pirandello. Ma ho trovato Luca Ronconi direttore di questo bellissimo Teatro, Rosalia Maggio che mi ha fatto piangere di commozione con lo spettacolo di canzoni fatto coi suoi fratelli e trovo Aldo Carotenuto lo psicoanalista junghiano più controverso d'Italia. Ma soprattutto la redazione della Rai di Angelo Guglielmi con cui Ottavio Rosati è riuscito a realizzare le puntate del suo "Da Storia nasce Storia" dopo due anni di ricerche eroiche. Perciò stasera vorrei deicare a tutti loro il racconto del mio viaggio nel Teatro della Spontaneità che riguarda pure i miei amici del Living Theatre e il nuovo Teatro d'America. 

Undici anni fa, nel 1980, Ottavio, forse per farsi perdonare di avermi portato a uno psicodramma in Francia dove i coniugi Lemoine, allievi di Lacan, mi avevano fatto sdraiare per terra fare il ruolo di un gatto, mi portò in America al Teatro di Psicodramma di Beacon, vicino a New York e lì ho intervistato Zerka Moreno per il Corriere della Sera (Clicca qui). Moreno era già scomparso nel 1974 ma la sua presenza viveva nella grande casa georgiana bianca in mezzo al bosco, sulla collina di una piccola città come ce ne sono tante in America. Una città dal paesaggio dolce e profumato con gli scoiattoli in mezzo alle strade, con tante case piccole circondate da un giardino e una sola grande strada centrale.A Beacon si arriva in un paio d'ore da New York su un trenino da operetta sbarcando in una stazione sporchissima e deserta col capotreno con tanto di trombetta ricurva e un solo taxi all'uscita, abituato a riconoscere al primo sguardo chi andava all'Istituto di Moreno, l'unico centro di interesse della città che Moreno aveva scelto tanti anni prima per la vicinanza con New York e perché il paesaggio gli ricordava l'Austria col suo lago e le sue colline coperte di pini.
Zerka Moreno mi portò a visitare l'istituto dove Moreno aveva curato molti personaggi influenti dagli Anni Trenta ai Settanta con metodi che avevano scandalizzato l'establishment psichiatrico e neofreudiano. Quello di un'America che aveva appena finito di digerire la psicoanalisi e si era trovata negli anni Trenta di fronte a un sistema ancora più trasgressivo e mercuriale basato sul teatro e sul gioco.
La presenza carismatica del personaggio mi colpì negli spazi di Beacon. Nel teatro tutto di legno a fianco dell'istituto dove centinaia di psicologi e psichiatri avevano trovato una specie di casa internazionale. Nell'arredamento contraddittorio e un po'’ trasandato, prima del restauro degli anni Ottanta che gli impedì di diventare un monumento nazionale. Nella grande biblioteca priva di sussiego con le traduzioni in 35 lingue tra cui il giapponese e il russo, nella tipografia artigianale in cima alla collinetta dove Moreno aveva avuto l'idea di stampare la sua rivista e i libri della Beacon House, mi disse la Moreno per aggirare lo sfruttamento editoriale o forse, pensai, per il suo tipico gusto di giocare un ruolo in più. Un gesto che gli costò assai caro perché portò alla situazione paradossale che le sue opere erano meglio distribuite all'estero che in America. E fu lì che 
Rosati ritrovò come un tesoro in una scatola abbandonata il film di Moreno girato alla Sorbonne per la Televisione Francese, che Ottavio aveva cercato invano a Parigi e che rispedimmo a Zerka dopo averne fatto una copia in Italia. Tutto in quegli spazi confermava il carattere alternativo dello stile di vita di Moreno: geniale, istrionico, antiaccademico nonostante gli esercizi di buona condotta scientifica sfociati nel lavoro sociologico con grafici e tabelle con cui, secondo me, cercava di bilanciare la sua vocazione per una scrittura ispirata e globale, con aperture poetiche, pacifiste, profetiche. 
Era quello dunque il teatro che era stato meta di un pellegrinaggio di molti autori e attori; non solo provenienti dal Living Theatre, ma anche da Hollywood, attori che avevano trovato in Moreno lo psichiatra ideale per la comune vocazione per il palcoscenico. E se ne accorsero anche gli sceneggiatori cinematografici che lo citarono abbondantemente da Spellbound di Hitchcok fino a Tootsie con Dustin Hoffman.
Ricordo quello che mi disse Zerka Moreno nell'intervista per il Corriere. Mi colpì la grinta della Moreno; non si trattava della solita vedova illustre ma di un vero personaggio che con caparbietà professionale, anche dopo la malattia e l'amputazione del suo braccio destro (che Zerka ebbe il coraggio di congedare in un suo psicodramma), aveva lavorato in quel teatro fino a dieci ore al giorno. E mi colpì anche il suo umorismo come quando, su questo stesso palcoscenico, nel finale di "Ciascuno a suo modo", rispose agli applausi del pubblico battendo la sua unica mano su quelle del doppio Pirandello che Rosati aveva messo in scena grazie a due gemelli.
A Beacon venni a sapere di questi giochi di ruolo dove lo psichiatra e i suoi attori ausiliari diventavano i personaggi della famiglia e del romanzo familiare del paziente ma anche degli animali, dei draghi e i diavoli delle fantasie.

Venni a sapere di un episodio straordinario. Una paziente schizofrenica, che in seguito alla morte per incidente del suo bambino era convinta di vivere all'inferno e non parlava più, non comunicava più, venne portata al Teatro del dottor Moreno quando sembrò irrecuperabile. Moreno glielo mise in scena nel suo teatrino di Beacon, l'inferno del delirio, e chiese a un attore di gettare tra le luci rosse del palcoscenico un cuscino, parlandogli come fosse il bambino della paziente condannato alle fiamme per l'eternità. Così la donna urlò e si alzò in piedi per interrompere il gioco e pianse e lottò e lentamente ritrovò prima la parola poi la ragione.
Di questo episodio straordinario con diavoli psicodrammatici e angeli psichiatrici mi sono ricordata qualche settimana fa leggendo del crescente successo di quel gioco di ruolo letterario nato in America e arrivato in Europa, Dungeous and Dragons anche detto D & D.
Si tratta di libri di avventure fantastiche con personaggi schierati dalla parte del bene e del male di cui l'editore francese Gallimard ha già venduto tre milioni e mezzo di copie nel giro di un anno.
In D & D il lettore è invitato a scegliere un suo personaggio e ad identificarvisi giocando, inventando mosse e azioni sempre però coerentemente alla strategia della favola scelta e stabilita all'inizio e scritta da qualcun altro. I giochi di ruolo di questo genere sono destinati a bambini dai sette ai settant'anni di età e sono ispirati al Signore degli Anelli di Tolkien o alle storie dell'orrore di Lovecraft. Una specie di regista letterario stabilisce all'inizio per tutti le regole del gioco, gli assortimenti di giochi e le possibilità fisiche e psichiche del personaggio da scegliere: quelle e non altre.
Ma come valutare il successo di D & D? Cosa rispondere a chi pretende che abbia un aspetto pedagogico ed educativo imparentato al gioco di ruolo della pedagogia e della psichiatria? Non sono una pedagogista ma a me sembra che un abisso separa questo genere consumistico di giochi di ruolo dalla concezione del gioco e del ruolo esposta da Moreno nella sua opera dove parla di libertà dell'immaginazione e critica le "conserve culturali" dell'industria culturale.
Nei campus universitari i ragazzi si sono spesso appassionati a D & D fino a battersi davvero in duelli a colpi di spada. Un ragazzo si è suicidato dopo avervi giocato senza sosta per sei mesi. Ed è sorta anche una Associazione contro i libri ed i giochi di Dungeons and Dragons, che naturalmente in America sono distribuiti alla perfezione, a differenza dei libri di Moreno.

Fa quasi tenerezza confrontare questo tipo di gioco di ruolo di massa con quello artigianale di Moreno che non usciva dal suo Piccolo Teatro di Beacon e seguiva ogni singolo paziente fino a tre, cinque giorni consecutivi, lo seguiva cioè nei ruoli reali e fantastici espressi dal paziente.
Così, vedendo che il magico gioco dei ruoli dello psicodramma poteva trasformarsi in avventure in scatola come quelle di Spielberg, ho pensato all'ultimo mito incompiuto delle Maschere Nude di Pirandello: I Giganti della Montagna. E ho rivisto l'immagine finale della messa in scena di Strehler quando il sipario di ferro del Piccolo Teatro cadeva sulla carretta dei comici e la schiantava.
Come i Giganti di Pirandello, immersi nel loro grande banchetto, i giganti americani del gioco di ruolo di massa restano indifferenti alla proposta esistenziale del Living e del teatro di Moreno: se l'accettano è solo per distruggerla, dando l'illusione di essere attivo a un pubblico che non inscena la sua vita ma i simulacri, le trappole, le invenzioni di fantasie industriali sotto copyright. Col successo di un gioco come D & D, i suoi serial televisivi, i video games, le collane di libri, le cassette, i gadgets, le magliette, lo spirito del roleplaying di Moreno viene tradito. Come nel mito di Pirandello dove la recita di Ilse e Cotrone diventa un divertimento elargito dai Giganti al loro popolo che per teatro si aspetta "le legnate in testa e le buffonerie dei pagliacci".
Però, ripensando al finale dei Giganti, col fallimento della recita di Ilse, schiantata in due sulla scena come un fantoccio per non aver saputo parlare anche il linguaggio del suo pubblico, una differenza tra il destino degli attori di Pirandello e quello dello psicodramma mi è parso evidente e va  sottolineata per evitare che muoia anche lei "con l'anima sulle labbra".
La forza del teatrino di Moreno, l'agilità della sua carretta che nessun sipario di ferro schianterà mai, stanno proprio nella sua capacità di parlare ogni linguaggio e di inscenare ogni sogno, individuale o di massa, senza perdere la propria integrità, grazie al gioco, all'azione, alla spontaneità. Anche per questo il teatro di Beacon, costretto a lasciare la collina boscosa dove l'avevo visto, non è morto ma si è spostato e, due anni fa, è rinato a Boughton Place, Higland (N.Y.) dove è stato rimontato pezzo per pezzo, come accade spesso in America.
Del resto, come a Ilse e Crotone basta tendere un telone su un vecchio olivo saraceno per rappresentare la loro favola davanti al popolo dei Giganti, basta anche meno allo psicodrammatista per montare il suo palcoscenico. In ogni situazione e per ogni pubblico, anche davanti ai giocatori di Dungeons & Dragons cresciuti all'ombra dei Giganti e ignari di poter essere autori e attori della propria storia.
Ed è per questo sogno di pace, una pace mentale e anche politica, che oggi festeggiamo qui al Carignano l'avventura profetizzata da Moreno col nome di "psicocinema" e realizzata per la prima volta in Italia dalla Rai mettendo insieme un intellettuale come Guglielmi, un maestro come Ronconi, un analista come Carotenuto e un animale del palcoscenico come Rosalia Maggio: il passaggio dai piccoli gruppi del teatro a quelli sempre più ampi resi possibili della televisione. Con un augurio al quale mi impegno a dare personalmente un mio contributo: la costruzione in Italia di un Teatro di Psicodramma, che Ottavio Rosati e i suoi amici vogliono chiamare, forse pensando al Prospero di Shakespeare oltre che a Pirandello, "Il Teatro del Tempo", un teatro che, come quello di Beacon dia finalmente una casa alla carretta degli attori minacciati dai Giganti della Montagna e salvati dal sogno ispirato del dr. Moreno.

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