PIRANDELLO RIVOLUZIONARIO A MODO SUO di Roberto de Monticelli
La rivoluzione operata da Pirandello sui palcoscenici degli anni Venti non esce dallo specifico teatrale. È questo che bisogna intendere se si vuole correttamente interpretare la cosiddetta trilogia del teatro nel teatro.Pirandello porta alle estreme conseguenze una consapevolezza che già si era andata formando nei secoli prima, al tempo degli elisabettiani, di Corneille e di Moliére, dei comici italiani della Commedia dell'Arte, la consapevolezza cioè che il testo si poteva scomporre nei suoi elementi: il testo, i personaggi, gli attori, il pubblico.
Paradossalmente egli sembra abolire il testo nei Sei personaggi in cerca d'autore nel senso che, in quanto autore, se ne sottrae, rifiutando quei fantasmi della sua immaginazione e mandandoli a cercare la loro sorte poetica sulle tavole di un qualsiasi palcoscenico della routine teatrale di quei suoi anni. All'insaputa dei fantasmi di quelle maschere da quell'incontro con gli attori che è la discussione sul dramma, nasce il dramma, o meglio la sua impossibilità di consistere. La dialettica è dunque tra i personaggi e gli attori. E in questo senso nella sua funzione di guida ragionante della "commedia da fare" il personaggio del Padre trova nel Direttore-Capocomico più un interlocutore o, se si preferisce, un "partner", una sorta di alter ego di segno opposto, concreto e convenzionale quanto lui è fantomatico e fuori dalla norma; effimero quanto lui si dichiara eterno; volgarmente curioso di fatti che sono come sacchi vuoti quanto lui si dice carico di ragioni per riempirli; comicamente assertivo nonostante lui non faccia che prospettargli dubbi, mandargli a gambe all'aria certezze pompose, minargli le garanzie ricevute ciecamente dall'Abitudine e dalla Tradizione. Li unisce il traliccio della dialettica fra il Personaggio e l'Attore, essenziale in questa prima opera della trilogia del teatro nel teatro. Perché, mentre il Padre si pone sul piano del contenuto fantastico (la commedia da fare), il Direttore-Capocomico cerca, nei modi convenzionali a lui familiari, di organizzare il discorso drammaturgico, cioè la sostanza della forma teatrale, che è sostanza, in rapporto alla finzione degli attori e forma rispetto al "vissuto" dei personaggi (che appunto per questo non vi si riconoscono).
"Il teatro - scrive Gerard Genot in un ampio saggio intitolato Théâtre, signification et communication (in Pirandello 1867-1967, Parigi, 1968), saggio dal quale abbiamo ripreso quest'ultimo concetto - non è rappresentazione immediata della realtà, in presa diretta sulla vita.... Il teatro passa per una serie di intermediari, di cui alcuni umani, che sono il regista, l'attore, l'autore."
Nella seconda pièce della trilogia, Ciascuno a suo modo, il rapporto è fra gli attori che interpretano persone reali in una storia accaduta nella città in cui si finge la rappresentazione della commedia e queste stesse persone che assistono, esterrefatte e angosciate, dalla platea, alla parafrasi teatrale delle loro vicende; e non possono esimersi dall'intervenire miniando poi, nella realtà, ciò che l'arte aveva prefigurato.
In Questa sera si recita a soggetto lo scontro è fra il regista e gli attori, con l'eliminazione dell'autore (che aveva fornito solo un canovaccio, una "novelletta"). È il pretesto per la rappresentazione del processo tecnico psicologico attraverso cui l'interprete, improvvisando come accadeva nella Commedia dell'Arte, si immedesima nel proprio personaggio, ciò che da a lampi, a squarci, per intuizioni inconsapevoli e geniali, la possibilità di mostrare anche, come qua e là accadeva in Sei personaggi in cerca d'autore (Peter Szondi nella sua Teoria del dramma moderno vi accenna esplicitamente) accanto all'immedesimazione alla Stanislavski, con la prima attrice che addirittura sviene nell'interpretare la parte di Mommina, tecniche della distanziazione tipiche del teatro epico, assunte magari controvoglia e perché sono mancati, nel caos della commedia improvvisa alcuni effetti previsti (tutte le scene della morte dì Sampognetta per esempio, bellissime proprio per questo emozionante sovrapporsi, involontario di tecniche interpretative).
Ma non basta: potremmo aggiungere, tra i conflitti del teatro nel teatro, quello fra l'uomo che si è creduto Enrico IV e l'attore che egli è poi diventato quando, guarito, simula la follia; l'illudersi esistenziale degli "scalognati" contrapposto all'illusione artistica di Ilse nei Giganti della montagna.
"Si parla sempre", scrive Genot, "d'una trilogia del teatro nel teatro... ma è necessario rendersi conto che tutta l'opera di Pirandello, a questo riguardo, è teatro del teatro, cioè che essa presenta un aspetto dell'azione dei personaggi come una finzione teatrale dell'interno dell'esistenza; insomma se si considerano un istante le situazioni pirandelliane come semplici situazioni vissute vi si vede apparire regolarmente un elemento di finzione teatrale, di recita, di rappresentazione di una azione seconda che si sovrappone alla prima, scomponendola e ricomponendone in modo differente gli elementi disgiunti".
Basta pensare, infatti, alla continua assunzione, o al rifiuto, d'una maschera, da parte dei personaggi, a quel senso di commedia nella commedia che si riceve dalla lettura (e più ancora dalla rappresentazione) di testi come Il giuoco delle parti, II piacere dell'onestà, Tutto per bene, Come prima, meglio di prima, Vestire gli ignudi, per non citare che alcuni (e senza rifarsi ad opere dell'ultimo periodo, dove questa sovrapposizione è più artificiosa e programmatica: ad esempio, Come tu mi vuoi, Trovarsi).
Tornando alla trilogia del teatro non si può escludere, certo, specialmente nella sua seconda commedia, Ciascuno a suo modo, un'implicazione dei motivi comuni allo psicodramma di Moreno su cui ha insistito Ottavio Rosati nelle sue ricerche. E certo quel nome di Moreno dato a uno dei personaggi, quella precisazione in didascalia: "La Moreno (che tutti sanno chi è )", precisazione per di più stampata in caratteri diversi, quasi ad estraniarla dal testo, a riconoscere una differenza che, lasciatemelo dire, potrebbe sottintendere anche una certa ironia, oltre che constatare una coincidenza; e soprattutto il gesto che la Moreno compie di salire in palcoscenico per aggredire Delia Morello, incolpevole attrice che non ha fatto altro che interpretare la parte assegnata dall'autore; quella partecipazione del pubblico, nei due intermezzi corali, a dar vita ad una specie di happening per altro rigorosamente guidato: sono tutti elementi che certo contribuiscono a insinuare una serie di allusioni suggestive alle tecniche dello psicodramma.
Il testo che passa dalle scene alla platea e diventa un testo di gruppo. Vi accenna anche Andre Bouissy nella sua particolare "notice" su Ciascuno a suo modo (On ne sait jamais tout) nella recente edizione del "Pirandello" completo nella Plèiade, che parla però di "simulacro di psicodramma" dove la finzione assorbe un primo piano di realtà la cui esistenza è pura ipotesi; ipotesi fantastica, aggiungiamo noi. Pirandello, egli dice, lavora pur sempre con degli attori: egli "recita" e vuole che gli altri "recitino". È per questo che, come ho detto in principio, la rivoluzione operata da Pirandello negli anni venti non esce dallo specifico teatrale. Egli fu il moderno restauratore di un antico sogno del teatro barocco: la scomposizione dei suoi elementi, che equivale a dire: il teatro che riflette su se stesso. Quando il testo riflette su se stesso, quando gli spettatori salgono sul palcoscenico e gli attori scendono in platea, quando i personaggi chiedono non all'autore ma agli interpreti di farli vivere (gli interpreti compreso il regista: sono i temi proposti dalla trilogia), quando si intersecano i vari livelli su cui l'ipotesi teatrale poggia, il livello dell'udienza o della realtà con quello della finzione e il voyer dalla platea diventa protagonista attivo dell'azione, si mette in moto un principio di distruzione, il teatro diventa metateatro.
Ma Pirandello, al di là dei movimenti del subconscio che potessero agire nella sua arte di scrittore medianico e visionario, di questo processo di distinzione fa materia delle sue opere e per questo, nella premessa alla trilogia, egli poteva scrivere, dei tre lavori che la compongono, che se essi, "nei loro pretesti o argomenti restano incompiuti o interrotti, sono poi per se stessi compiutissimi e perfetti". E, nella prefazione a Sei personaggi in cerca d'autore: "Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma e per ciò stesso deve morire: tranne l'opera d'arte, che appunto vive per sempre, in quanto è forma".
Tutto questo, a mio parere, pone un solco invalicabile fra le intuizioni di Moreno e le ipotesi fantastiche, e perciò concluse in se stesse, non suscettibili di mutazioni, di invenzioni di ruoli e di fini, di Pirandello. Così come gli interni processi psicologici dell'attore stanislavskiano si pongono per scopo non un fine terapeutico dell'individuo, ma il raggiungimento di una forma d'espressione (che può cambiare di sera in sera secondo un criterio di perfettibilità che sposta continuamente in avanti i propri obiettivi) così Pirandello, attraverso la scomposizione degli elementi del testo, si pone come fine la costruzione di un testo nuovo. Personalmente io appartengo ad una generazione che ha creduto nella drammaturgia come forma di letteratura. Questa forma di letteratura non può prescindere nel suo specifico. E solo il raggiungimento di questo specifico, nelle sue linee perfette e immutabili, può servire da terapia all'artista. Agli spettatori resta la partecipazione dell'intelligenza e del cuore che può anche, in rari casi, identificarsi con la mitica catarsi.