QUELLA SERA AL CARIGNANO di Zerka Moreno
In settembre Torino non è la stessa città che in maggio. Me ne accorsi chiaramente quando nell'autunno del 1986 arrivammo per la seconda volta in quella città. La prima volta era stato durante la primavera del 1954. Naturalmente a quel tempo avevo la metà dell'età che ho oggi e il simbolismo primavera-autunno è più che pertinente.La prima volta che venni a Torino accompagnavo mio marito J.L. Moreno che era stato invitato dalla professoressa Angela Masucco Costa dell'Università e da Adriano Olivetti, il leader dell'impero Olivetti. Durante le sue presentazioni, Moreno diede molta importanza alle dinamiche di gruppo, alla sociometria, specialmente a quella dei gruppi piccoli. La sua proposta era di utilizzarle per umanizzare la struttura di gruppo in un contesto manageriale ed industriale. Moreno tenne alcune lezioni all'Università e allo stabilimento di Ivrea.
In quella occasione mi venne fatto dono di una "Lettera 22", che stava a pennello nella mia borsa e che per parecchi anni mi fu molto utile soprattutto durante i numerosi viaggi in treno, in aereo, in albergo quando Moreno, preso dall'ispirazione, iniziava a dettarmi i suoi pensieri. Spesso non avevo un tavolo sul quale poggiare la macchina, ma una "Lettera 22" si poteva facilmente tenerla sulle ginocchia per trascrivere i discorsi di Geièl (era questo il soprannome di Moreno).
Ricordo ancora che quella primavera a Torino cenammo in un ristorantino. Attorno c'era un bosco e faceva fresco. Si udivano i borbottii di un ruscello che scorreva vicino, e la primavera traspirava dappertutto, invitando a viverla pienamente. Il bosco era impregnato da una miriade di profumi misteriosi che fuoriuscivano dalla terra e dai fiori, profumi impossibili da identificare ma buonissimi da godere.
La seconda volta venni con il mio attuale compagno, Merlyn Pitzele, su invito del Teatro Stabile di Torino. L'ARPA di Roma e le tre associazioni piemontesi di psicodramma, dirette da Santuzza Papa, Donata Miglietta e Giulio Casca, avevano organizzato una rassegna di psicodramma e teatro per festeggiare il cinquantesimo anniversario della morte di Luigi Pirandello. Lo scopo della rassegna era di mostrare le analogie tra la concezione del teatro di Moreno e quella di Pirandello. Anche il Ceis di Roma, diretto da Mario Picchi e Juan Gorelli, collaborò all'organizzazione dell'avvenimento in occasione di uno dei miei seminari di formazione alla Scuola del Sole di Castel Gandolfo.
In America avevo saputo solo questo: si sarebbe trattato di un esperimento sul genere di quello che Ottavio Rosati e io avevamo improvvisato tre anni prima al teatrino Flaiano su Questa sera si recita a soggetto quando il Teatro di Roma era diretto da Luigi Squarzina. Ricordavo che a Roma tutto era stato organizzato in poche ore spontaneamente ma funzionò benissimo: alla fine il vice sindaco, mr. Nicolini mi regalò una targa a nome della città e mi sono sempre chiesta come avessero fatto in tempo a prepararla in poche ore.
Invece nel caso di Torino, man mano che ci si avvicinava alla data, l'organizzazione sembrava farsi sempre più complicata. Non mi stupii troppo perché, stando a quello che avevo capito, si doveva trattare di una messa in scena di Ciascuno a suo modo di Pirandello affidata agli attori del Carignano e agli psicodrammatisti di Torino. Lo spettacolo teatrale sarebbe culminato in uno psicodramma da me diretto sul palcoscenico in onore di Pirandello.
Io sarei entrata in teatro nel ruolo de "La Moreno (che tutti sanno chi è)", il personaggio che nella commedia fuori della commedia reagisce alla falsità del suo doppio, la "Morello", protagonista della commedia dentro la commedia. Poiché "la Moreno" di Pirandello è un riferimento segreto al lavoro di Jacob Levi Moreno a Vienna, per la prima volta nella rappresentazione di Ciascuno a suo modo realtà e finzione si sarebbero congiunte davvero.
Faceva parte del gioco che non fossi informata di altri particolari. Aggiunsero che al Carignano avrei incontrato l'avvocato Pier Luigi Pirandello nipote dello scrittore e figlio del pittore Fausto Pirandello. Dissero che era l'unico discendente per cui lo scrittore avesse tollerato l'uso del suo nome di battesimo. Perciò nello spettacolo egli sarebbe stato il doppio di Luigi Pirandello che in Ciascuno a suo modo figura nel ruolo dell'autore della commedia, presente dietro le quinte del teatro.
II progetto di Torino era partito a gennaio ed era fissato per metà settembre. Improvvisamente tra luglio e agosto arrivò a Beacon una serie di telefonate concitate dall'Italia per sondare la mia eventuale disponibilità a spostare la data a Dicembre ma non oltre, per rispettare l'anniversario. Per me era impossibile perché tutto il mio tour europeo ormai era organizzato. Chiesi che problemi ci fossero. Mi dissero che era una cosa troppo italiana perché potessi capirla da New York e di stare tranquilla.
Al Congresso Internazionale di Psicodramma e Psicoterapia di Gruppo che si svolse a metà agosto a Zagabria non vidi Ottavio Rosati che avrebbe dovuto esserci. Qualcuno venne a dirmi che la rassegna torinese su Pirandello era stata cancellata, qualcun altro invece mi disse che tutto procedeva. Poi arrivò a Zagabria Anna Frank, una mia allieva psicodrammatista argentina, portando con sé da Roma una strana locandina nera e gialla del Teatro di Torino col mio nome al centro.
La locandina annunciava la messa in scena psicodrammatica di Ciascuno a suo modo al Teatro Carignano di Torino. Anna Frank la sistemò nella hall del convegno di Zagabria: notai una signora che ogni tanto tornava a fissarla a lungo, con l'espressione meravigliata. Eppure non c'era molto da guardare. Solo una foto di persone in abito da sera che sembrava uscita da un giallo di Agata Christie (in effetti era l'allestimento di Ciascuno a suo modo diretto da Luigi Squarzina nel 1961).
Lo strano era che nella locandina, accanto alle sigle del Teatro Stabile di Torino e dell'ARPA c'erano quattro riquadri bianchi e vuoti, come da riempire. Una nota sul fondo parlava di "probabili incidenti che potevano interrompere la rappresentazione o impedirla del tutto". Poiché la nota era una citazione della commedia non capii se si riferiva al nostro spettacolo o no.
Comunque il primo probabile incidente lo notai subito: il giorno dello spettacolo era stato anticipato, senza dirmelo, a una data in cui sarei stata in Svizzera. Tutto rischiava di saltare. Raggiunsi per telefono gli amici italiani che, con voce stressata, promisero di tornare alla vecchia data. Mi chiesero se la locandina era sempre al suo posto.
Tutto questo mi sembrò più che italiano molto pirandelliano. Rinunciai a capire.
Un mese dopo, come ho detto, eravamo a Torino. I primi due giorni della rassegna tutto fu tranquillo. Ci furono incontri, conferenze e gruppi di lavoro.
La sera dello spettacolo, arrivando in anticipo a piazza Carignano, vidi una grande folla che aspettava di entrare nel teatro che era ancora chiuso. Dopo un po da un vecchio palazzo alle nostre spalle (il museo della guerra per l'unità d'Italia) di fronte al teatro, si udirono dei richiami con rullo di tamburi. Sul balcone monumentale illuminato da grandi riflettori, vedemmo un gruppo di uomini con piatti e tamburo, e un banditore alla loro testa. Erano vestiti con costumi bianchi e rossi che sembravano del diciottesimo secolo. Il banditore iniziò un lungo annuncio, mi spiegarono, in dialetto napoletano. Mi dispiace molto di non aver capito cosa stesse dicendo; la folla sembrava divertirsi molto. Ci furono altri rulli di grancassa e scoppi e risate che accompagnarono la fine del discorso. Poi il banditore, volteggiando una specie di bastone infiocchettato scese in piazza, fece una specie di discorso cantato, ballò con qualche spettatore e partì all'assalto del teatro trascinandosi dietro il pubblico. Intanto i vigili avevano fermato il traffico e agli altri rumori si unirono i clacson degli automobilisti esasperati.
Tra la folla che spingeva per entrare nel teatro, incontrai Fernanda Pivano accanto a un signore alto ed elegante. "Ecco la Moreno" gli urlò la Pivano per farsi sentire sopra i rulli dei tamburi. "Pier Luigi Pirandello, onoratissimo!" rispose il signore con un inchino, proprio mentre un ragazzo della banda, passando di corsa, fece esplodere un colpo di piatti che ci assordò tutti quanti.
L'avvocato Pier Luigi Pirandello fu davvero gentile, come un gentiluomo di Boston. Cercò di proteggermi dalla folla. Tra una spinta e l'altra lentamente ci avvicinammo al teatro.
Mentre finalmente passavamo per la porta si sentirono delle voci agitate e poi delle urla. Vidi una signora ben vestita che aggrediva a colpi di borsetta Ottavio Rosati. Lui perse il suo berretto da portiere e per difendersi agitò un piumino per la polvere. Poi la signora, strillando, lo prese a schiaffi e lui cadde per terra. Qualcuno si spaventò.
Il banditore napoletano in segno di solidarietà, corse indietro a dare il suo bastone in testa alla signora ma lo fermarono. Un custode grasso gridò di chiamare la polizia ma fermarono anche lui. Dopo un po' lo vidi calmo e in ogni caso c'era troppa confusione per fermarsi. Fotografi e cameramen riprendevano un po' tutto. La gente un po sembrava sconcertata, un po' rideva. Poi arrivò mr. Gregoretti, il direttore del teatro, circondato da amici e giornalisti. Ci invitarono a salire con lui nel palco reale ma la signora elegante che aveva schiaffeggiato Rosati si intromise. Disse a bassa voce in inglese che, per ragioni di regia, Merlyn e io dovevamo sederci nella prima fila di poltrone in platea. Così capii che era solo un'attrice e che la scena sulla porta del teatro in cui una donna aveva aggredito Ottavio Rosati era stata tutta una finzione. L'attrice faceva parte della compagnia.
Nella bellissima sala del Carignano, di colore rosso e oro, l'atmosfera era del tutto diversa. Improvvisamente si passava dai rumori a una musica vellutata. Era una canzone chiamata Vipera, la storia di una donna crudele e pericolosa.
Fummo accolti da numerose ragazze in abiti da sera dell'età del jazz, che offrivano fiori rosa e li lanciavano anche dentro i palchi. Sul palcoscenico dei ballerini vestiti come ai tempi di Fitzgerald, cioè di Pirandello, ballavano dei tanghi intorno a un gigantesco cane bianco che poi sbadigliò e uscì tranquillamente di scena. Una dama girava distribuendo carte da gioco agli spettatori. In sala c'era molta animazione.
L'azione cominciò dai palchi e dalla platea; intanto la telecamera proiettava ingigantite sul palcoscenico le immagini degli spettatori che i giovani operatori riprendevano avidamente, soprattutto in platea. Mi dissero che i cameramen e il regista facevano parte del programma sperimentale di un istituto correzionale. Pensai ai primi progetti sociometrici fatti da Moreno negli anni Trenta per le carceri di Sing-Sing e la comunità di ragazze criminali di Hudson. Lì in teatro era evidente che essere dentro o fuori di una prigione era tutto un problema di giochi e ruoli.
Spente le luci, accadde un certo numero di fatti per me incomprensibili. Un personaggio girava la manovella di una vecchia macchina da presa cinematografica davanti a una tigre sul palcoscenico. Arrivò un violinista dalla platea. Domò i ruggiti della tigre con una suonata dolcissima e uscì. La tigre riprese a ruggire e si gettò su una bella donna seminuda, che stava indossando un costume da principessa indiana. Il signore seduto al mio fianco mi spiegò sottovoce: "Quella è Vera Strogonoff!" o qualcosa del genere. Il violinista tornò in sala di corsa e uccise la tigre a colpi di fucile tirandolo fuori a sorpresa dalla custodia del violino. Poiché ero in prima fila, stavolta riuscirono ad assordarmi l'altro orecchio. Merlyn per prudenza si tolse l'apparecchio auricolare.
Accaddero anche cose impreviste. Improvvisamente Ottavio Rosati, che fungeva da Maestro delle Cerimonie ed era vestito come un maggiordomo smise di parlare al pubblico e si gettò ai miei piedi cominciando a frugare sotto le mie scarpe e la mia poltrona. Pensai che si trattasse di un riscaldamento o di una metafora del travaglio psicoanalitico nell'inconscio o magari di un ritorno all'utero materno. In realtà Ottavio stava cercando una lente a contatto che gli si era staccata dall'occhio. Questa parte dell'intrattenimento mi riguardò da vicino. Le telecamere cominciarono a riprendere la scena illuminata a giorno da tutti i riflettori mobili. Merlyn e io sulle poltrone facemmo finta di niente ma non era facile con quell'uomo seriamente nei guai che imprecava e sudava sotto di noi mentre ci osservavano un migliaio di persone. Intanto ci vedevamo ingigantiti sullo schermo man mano che la voce di Dario Fò dagli altoparlanti raccontava le prime esperienze di Moreno e la nascita dello psicodramma a Vienna. Era uno strano "specchio" e non potendo fare altro, decisi di annusare i miei garofani sperando che il lavavetri ritrovasse al più presto la sua lente. Subito dopo il regista si perse anche un attore che per una crisi di stage fright, più che giustificata in un giovane, fuggì dal teatro senza avvertire nessuno. Così Rosati si trovò costretto a fare una regia a vista con uno scambio di ruoli improvvisato che naturalmente il pubblico prese come una pagina del copione provata chissà quante volte. Gli altri attori gli andarono dietro all'impronta. Avrebbe potuto leggere dal copione ma senza lenti non poteva. Così Ottavio andò a soggetto mescolando le carte tra improvvisazione vera e falsa. Credo che gli venne in soccorso la sua esperienza di psicodrammatista. Più tardi seppi che il direttore di scena ne fu sconvolto e quella sera uscì dal Carignano senza salutare nessuno.
Alcuni attori nel ruolo di personaggi pirandelliani nei palchi sopra di noi e sui lati del teatro recitarono il testo facendo interventi personali sul loro ruolo e sull'interazione con altri personaggi. Non essendo un teatro a pianta centrale, noi che eravamo seduti in prima fila, dovevamo contorcerci per vedere quello che accadeva dietro. Lo stesso accadeva agli altri spettatori che un po' guardavano noi e un po' lo spettacolo nei palchi diventati altrettanti teatrini.
Riconobbi le camicie nere e Pirandello che entrò in scena con un suo doppio identico. Erano due attori gemelli mono-ovulari. Alcune scene furono rappresentate tra il palcoscenico, i palchi, la platea. La platea a sua volta era collegata col ridotto da dove entrarono una dozzina di giovanotti che, passando, per la platea salirono sul palcoscenico tirando di scherma al suono di un valzer: immagino che senza prove si sarebbero cavati un occhio.
Questo duello-balletto si concluse con una grande pioggia di piume che cadde in palcoscenico e dal ciclo della platea. Quando si riaccesero le luci sembravamo tanti uccelli in un nido.
Arrivò così il momento della Moreno nel ruolo della Moreno. Salii sul palcoscenico ed iniziai a lavorare con il pubblico per favorirne la spontaneità. Sentivo che era giusto approfittare dell'occasione per onorare Pier Luigi Pirandello, il discendente del festeggiato. Perciò gli chiesi di raggiungermi sul palcoscenico. Accettò con spontaneità raccogliendo l'applauso del pubblico. Mi venne in mente che nel 1983 Merlyn ed io in Sicilia avevamo visitato la casa e la tomba di Pirandello. Chiesi dunque a Pier Luigi se voleva venire con me ad Agrigento; mano nella mano attraversammo il palcoscenico e arrivammo nei posti dove lo scrittore era nato e dove era sepolto, sulla cima di una collina, sotto un pino davanti al mare aperto, in una località detta Caos.
Pier Luigi Pirandello sembrava emozionato da questi ricordi. Gli suggerii di rivolgersi alla sua immagine mentale del nonno per dirgli, adesso, con l'esperienza acquisita nel tempo, ciò che non aveva mai potuto dirgli quando era in vita. Aggiunsi che non doveva necessariamente fare riferimento a dettagli di vita quotidiana.
Dopo qualche esitazione gli parlò. Era emozionato. Disse che da bambino lo ammirava ma che non aveva potuto veramente apprezzarlo né dirgli quanto lo amava. Quando però lo invitai a invertire i ruoli, Pier Luigi aprì le braccia e disse di no (un anno dopo mi scrisse una lettera dove spiegava questo suo rifiuto). Aggiunse che voleva ringraziare nonno Luigi anche per il contributo che aveva dato a chi, come gli psicoanalisti, cerca di conoscere l'uomo per aiutarlo a vivere meglio.
Ringraziammo Pier Luigi Pirandello che tornò a sedersi tra il pubblico. In circostanze normali avrei invitato alcuni spettatori a entrare in scena e condividere col protagonista esperienze simili alle sue, ma l'architettura del teatro non si prestava a questo tipo di coro e volevo dirigere uno psicodramma con uno spettatore.
Spiegai al pubblico che, per la loro similitudine con la scena, i sogni si prestavano ottimamente ad essere rappresentati in uno psicodramma. Fu Lewis Mumford che nel suo libro The Conduci of Life definì lo psicodramma come "l'essenza del sogno".
Una giovane spagnola si alzò, attraversò la sala, e si offrì come protagonista. Rappresentò due scene di un suo sogno ricorrente. Erano scene di irritazione e frustrazione collegate all'impossibilità di raggiungere la sua meta restando paralizzata davanti a un abisso che le si apriva sotto i piedi. Quando ebbe terminato di esprimere l'angoscia del sogno, la invitai a sognare ancora il sogno ristrutturandone la trama a suo piacimento. Questa volta produsse una versione delle immagini che le piaceva. Del resto il primo abisso l'aveva già superato passando dalla platea al palcoscenico ed esponendosi al gioco e al pubblico.
Per inscenare lo psicodramma venivano chiamati come ausiliari i protagonisti dello spettacolo appena concluso che, in costume, seguivano lo psicodramma dalle quinte. Lo psicodramma ridefiniva le forme e i ruoli del teatro secondo le esigenze del momento.
La giovane donna si era lanciata nel gioco con molta energia e finalmente la incanalò in un risultato soddisfacente per lei. Sotto le luci dei riflettori trovò finalmente il coraggio per ristrutturare la scena. Quando, nonostante il suo tremito, saltò attraverso il baratro, naturalmente scoppiò l'applauso del pubblico. Invitai gli spettatori in platea a intervenire a loro volta nel gioco. Più d'uno lo fece. L'atmosfera si era veramente riscaldata e credo che saremmo andati avanti per ore.
Uno dei ballerini entrò, fece un inchino e porse un biglietto: eravamo costretti a fermarci per rispettare gli or ari sindacali del teatro. Il personale di sala oltretutto doveva liberare il teatro da qualche migliaia di piume di uccello.
Fu questo aspetto imprevisto della realtà economica e sociale del teatro a concludere la serata. Anche la commedia di Pirandello, quando il pubblico finalmente sale sul palcoscenico, resta sospesa e senza un finale chiaro.
Durante i ringraziamenti e gli applausi, attori, ballerini, cani, tigri, musicisti, fioraie, principesse, schermitori, psicodrammatisti, pirandelli veri e falsi vennero tutti trascinati per mano sul palcoscenico dal banditore e dalla sua banda di tamburi. Mancava solo la lente a contatto di Ottavio Rosati che, prima che partissi, mi chiese a che scopo l'inconscio l'avesse fatta cadere dall'occhio costringendolo a improvvisare ancora di più di quanto volesse.
Due giorni dopo, prima di partire dall'Italia, ci riferirono che macchinisti e guardarobiere, pur essendo stati sottoposti a dura prova, avevano amato uno spettacolo come questo, dove finalmente a teatro avevano respirato un'aria fuori dal comune.
Mi invitarono a considerare questo giudizio altrettanto lusinghiero delle recensioni favorevoli uscite sulla Stampa e sul Corriere della Sera che parlavano di una grande serata futurista e di un evento unico che sarebbe certo piaciuto a Pirandello.
Che i critici teatrali parlassero in modo positivo di una serata psicodrammatica a teatro è un evento che non capitò mai a Moreno quando negli anni Venti fece i suoi primi esperimenti di teatro improvvisato a Vienna. E' passato molto tempo. Pirandello ha il merito di aver collegato il teatro di improvvisazione di Moreno a una forma d'arte vera e propria. In modo che a teatro possa succedere, ogni tanto, qualcosa di imprevisto.