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SOGNI DI TRASFORMAZIONE E PSICODRAMMI DEL SOGNO di Santuzza Papa

Chi ha vissuto dall'interno l'avventura torinese dell'incontro tra Moreno e Pirandello, non ha potuto sottrarsi alla meraviglia, se non addirittura alla costernazione, di un'esperienza singolare: il testo pirandelliano da occasione e strumento si trasformava ben presto in soggetto semovente.

E,quel che è peggio, capace di smuovere persone e cose al di là dei volonterosi quanto fallimentari tentativi di mantenere la situazione sotto controllo. Ciascuno a suo modo: titolo di 'opera' pirandelliana, titolo operante, quindi; motto inciso su di un campanile a segnare lo scandaloso quanto raro superamento di lotte di religione; ma anche, in qualche modo, formula alchemica capace di promuovere l'opera trasformativa nella fucina misteriosa dell'inconscio individuale e collettivo.
La formula è incisa non soltanto sul campanile di Coazze: ce la portiamo dentro, spesso senza che la sappiamo leggere o reggere, ed è la spinta all’individuazione che agisce scandalosamente dentro di noi e nostro malgrado.
Così, chi ha vissuto dall'interno l'avventura dello psicodramma in Italia (specie se non rinuncia allo sguardo storico che impone di superare i provincialismi e di risalire a chi lo psicodramma lo ha inventato) non può sottrarsi alla meraviglia, se non addirittura alla costernazione, constatando che lo psicodramma è uno strumento di trasformazione e quindi uno strumento in trasformazione.
Poiché lo psicodramma costringe a parlare in prima persona, a farsi soggetto-attore del proprio discorso, sarebbe interessante considerare la storia dello psicodramma come la storia di chi gli ha dato dignità storica portando avanti una ricerca soggettuale e non ecolalica.
A ben guardare, è lo psicodramma che costringe gli psicodrammatisti ad esser tanto diversi fra di loro: il gruppo, se non diventa il luogo dell'identificazione isterica, è il luogo in cui il soggetto ricostituisce la propria interezza superando la frantumazione dell'immagine per trovare il luogo ideale per la propria individuazione.
Essendo poi lo psicodramma l'unica formula auspicabile per la formazione degli psicodrammatisti, ne consegue:
a)   che gli psicodrammatisti non possono, nemmeno se lo vogliono, essere identici fra di loro,
b)   che gli psicodrammatisti possono, se il setting e il processo è stato analitico, riconoscere ed accettare di essere diversi fra di loro.
La ricchezza e la poliedrica creatività dell'inconscio non sono riconducibili a rigide formule interpretative. Tant'è che la stessa psicoanalisi, avviandosi a conquistare il suo secolo di vita, si avvia alla conquista della saggezza, ovvero della capacità di riconoscere, di comprendere le diverse visioni che costituiscono la complessità del poter vedere. L'illusione paranoica dell'univocità della verità non è concessa a chi si legittima nella ricerca della verità. I vari punti di vista, le molteplici visioni del mondo sono coessenziali e non possono eliminarsi a vicenda proprio perché sono manifestazioni dell'essere stesso.
Il processo è osservabile nel microcosmo del gruppo di psicodramma analitico in cui ogni soggetto sperimenta la propria diversità ed individualità proprio mentre si apre all'esperienza dell'universale. Così insegna il momento 'magico' dell'osservazione, quello in cui al centro del circolo del gruppo si condensa il discorso del Sé, il discorso transpersonale nato dall'annodarsi dei vari discorsi personali. I diversi punti di vista, parziali ed inconciliabili proprio perché legati all'unilateralità dell'individuale, convergono, come altrettanti raggi, al centro: 1''altra' ottica, il terzo occhio del gruppo, quello che un sogno descrive come l'occhio poliedrico della mosca, capace di accogliere in sé la molteplicità delle diverse visuali.


In questa prospettiva sarebbe interessante vedere come verrebbero trasformate le problematiche societarie ed istituzionali degli psicodrammatisti qualora fossero affrontate non nell'ambito assembleare che le snatura ed oggettivizza, ma all'interno di una situazione psicodrammatica. Dello psicodramma, infatti, si parla facendo lo psicodramma, così come ci insegna l'esperienza della supervisione.
La mia nascita è avvenuta nel pieno di una guerra combattuta sotto l'ombra del nazismo. Questo non deprivò tuttavia la mia infanzia dell'accesso al gioco. Di tanti giochi ricordo lo slancio vitale. Di due ricordo la tensione ripetitiva, quasi coatta, certamente tesa a rompere una gabbia il cui non senso mi si ritorceva contro:
1)   le piccole casette di legno a cui con un chiodo ed un martello riproducevo le ferite che i proiettili concreti aprivano nelle case concrete;
2)   gli occhi meravigliati ed intelligenti di un amatissimo bambolotto di celluloide, occhi che per una tentazione tragica quanto incoercibile io ricacciavo con le dita all'interno della testa. L'angoscia perdurava oleosa e sottile fino a quando, nelle sporadiche e salvifiche comparse, il grande Papa li riapriva sul mondo, con un'operazione misteriosa non scevra di un altrettanto salutare rimprovero a me.
Beato Moreno che si è rotto una gamba giocando il ruolo di Dio. A me, il fatto di giocare dava la falsa consolazione del ruolo attivo e l'amara quanto oscura coscienza di coincidere effettivamente col ruolo di chi è colpito da una guerra altrui e accecato perché non veda.
Quello che non sapevo fare, da piccola, era cambiare il senso del discorso, anziché scambiare semplicemente le parti.
Il gioco psicodrammatico potrebbe comportare un rischio analogo. Esistono giochi di ripetizione (inutili), giochi di comprensione e prese di coscienza della ripetizione (necessari), e giochi di trasformazione. Più rari, questi, più misteriosi e non sempre prevedibili e orchestrabili; gli unici, però, che avrebbero diritto di cittadinanza in un ordinamento analitico che miri non alla conservazione ma alla presa in carico del processo di evoluzione dell'Essere tutto, attraverso l'evoluzione del singolo.
Se la nevrosi ha a che fare con la ripetizione, il processo analitico è anzitutto capovolgimento del senso del discorso, salto dalla ripetizione alla trasformazione. Uscire dalla nevrosi è vedere la ripetizione e progettarsi. Già questo è accesso al simbolico: reggere il giano bifronte dello sguardo volto all’indietro e dello sguardo volto in avanti. Ciò vale per la lettura dei sogni, ma ancor più per il gioco del sogno in psicodramma: qui occorre non perdere mai la tensione dialettica degli opposti, perché dove c'è un messaggio di denuncia di un conflitto c'è anche e sempre l'altra faccia, la finestra aperta sul futuro, la freccia di indicazione per il cambiamento.

 


Trasformazioni

Privilegio dello psicodramma è mettere in gioco il corpo: la parola, unico veicolo di comunicazione nell'analisi verbale, diventa qui uno dei veicoli, e neppure quello privilegiato. Infatti il senso profondo, nel gioco psicodrammatico, è svelato dalla comunicazione metaverbale. Sappiamo bene quanto la postura, l'atteggiamento del corpo, l'espressione del viso, il tono della voce esprimano tutto ciò che le parole spesso tendono a velare.
Così, spesso, il capovolgimento del senso avviene nel rendersi conto che è cambiato il tono di voce nel corso del gioco.
Tutto ciò diventa particolarmente interessante quando si tratta di lavorare sui sogni. Esistono infatti sogni di trasformazione che segnano un passaggio già avvenuto o che indicano il passaggio che sta per avvenire: e qui il gioco si fa strumento di comprensione, di lettura e traduzione del messaggio dell'inconscio e, soprattutto, porge l'occasione di riassumere a sé le parti misconosciute e affidate ai personaggi del sogno.
Ma quel che meriterebbe un ampio sforzo di ricerca e di riflessione è la trasformazione del sogno: trasformazione che si infiltra, si insinua e sboccia nello snodarsi del gioco, fino ad imporsi all'attenzione cosciente sia del sognatore che del gruppo. Per chi conduce il gruppo è in questione, ancora una volta, soltanto l'ascolto analitico e la funzione maieutica. Si tratta semplicemente di permettere che ciò che sta accadendo possa accadere e avere accesso alla coscienza.
Ripercorriamo insieme qualcuna di queste avventure di trasformazione.
G. ha poco più di trent'anni, è madre di due bambini piccoli, non si sposa per scelta. Con il gruppo ha una grossa difficoltà che ora si è tutta concentrata nel rapporto con me, l'analista-donna di potere. Racconta un sogno:
Nella prima parte, alcune vicende la portano in possesso di documenti per un matrimonio. Esce poi in strada e, incontrando me e il coterapeuta del gruppo, comincia a raccontarci con entusiasmo il sogno stesso. Ma, prima della fine del racconto, io, l'analista, giro le spalle e prendo la strada di una vetrina. La sognatrice rimane delusa, amareggiata, ferita dal mio disinteresse per lei. Dice: "Ma guarda cosa mi fa di nuovo!".
E di nuovo, commentando il sogno, lamenta il suo problema con la donna potente portatrice di un presunto sapere inaccessibile. Di nuovo si rivolge al gruppo come se esso fosse un'entità indifferenziata, un tutt'uno-orecchio-alleato e contemporaneamente un concorrente pericoloso, sempre vincente nella spartizione della mia attenzione e del mio affetto.
Mettiamo in gioco il sogno. A giocare la mia parte viene scelta una donna che sta finendo l'analisi e sta elaborando nel gruppo e col gruppo la separazione dal gruppo: è una donna che ora sa di sé.
Lo scambio dei ruoli segna un momento necessario ma non risolutivo: G. si rende conto della sua capacità di separarsi e di voltar le spalle a quelli che la abbandonano. Ma nasce un germe di curiosità: perché la vetrina? Essere in mostra? Essere ben visibile?


In vitro, viene detto da qualcuno. Ciò che è messo in vetrina può essere osservato, tanto più quando entra in gioco anche la propria immagine riflessa dal vetro della vetrina. C'è dunque anche un problema di immagine, di 'Persona' in senso junghiano, di ruolo. G. ancora non capisce, ma ora non ha l'angoscia di non capire.
Quello che è chiaro è che il vetro di questa vetrina è altro dal vetro che anticamente G. descriveva come barriera tra lei e gli altri. Tant'è che anche il 'non capisco' si svela come chiusura alla comprensione.
Tornata nella sua parte, G. ora dice: "Guarda che cosa mi fa, di nuovo!", e ripete "di nuovo", e ancora "di nuovo". Però lo fa con un progressivo cambiamento di tono di voce che segna il progressivo cambiamento del tono emotivo.
Dalla lamentosità del 'di nuovo' della ripetizione si passa alla giocosità e alla meraviglia del 'di nuovo' della novità, del cambiamento, della trasformazione, quindi.
Sappiamo che la rottura del ruolo è la rottura dell'adesione univoca ad una sola parte di sé. Questo gioco ha segnato uno snodo fondamentale nel cammino di G.: superato il bisogno di essere capita, riconosciuta la possibilità di ascoltarsi e di capirsi, messo in vetrina il ruolo che le impediva l'uscita dell'interdipendenza, G. si è ora affacciata alla soglia della relazione intersoggettiva.
Questo sia con gli analisti sia con il gruppo, il cui discorso inconscio le risulta adesso leggibile in tutta la sua portata simbolica.

Ed ecco un altro esempio di trasformazione di un sogno attraverso la trasformazione del tono nel corso di un gioco psicodrammatico.
A., il sognatore, è un medico di trentacinque anni che ha dovuto molto lavorare, nel corso della sua analisi, sul complesso materno. La fine dell'analisi personale e l'ingresso in un gruppo di base di psicodramma analitico erano stati sottolineati da un incidente che, junghianamente parlando, è tipico del 'Puer': la rottura di un ginocchio durante un'escursione sciistica. Naturalmente il cammino aveva subito un rallentamento.
Dopo due anni di gruppo di base arriva questo sogno:

Il sognatore si trova in America (il Nuovo Mondo). Deve recarsi ad un incontro amoroso con una 'ragazza' di quarant'anni (e nel gioco sceglierà me, aprendosi, seppure ancora con difficoltà, alla possibilità della relazione paritaria). Per arrivare all'appuntamento deve però superare due difficoltà, quasi due prove. Prima la nonna (grand-mère, si dice in francese) si taglia (incidentalmente) il dito medio; occorre dunque portarla al Pronto Soccorso cercando di non perdere l'incontro con la ragazza. La madre, poi, si taglia (volutamente) il dito medio e dice al sognatore: "Così impari ad uscir di casa!".

L'ambiguità semantica del 'si taglia' preannuncia in qualche modo la possibile ambiguità del 'così impari'. Ciò che la Grande Madre deve subire inconsciamente come imposto dalla casualità o dalla fatalità, la madre lo opera coscientemente e volutamente: ma è un ricatto per trattenere il figlio o un taglio per insegnargli ad andarsene?


Il simbolismo della mano-madre con le sue dita-figli si annoda con le associazioni libere sulla mediocritas del dito medio e sul fatto che, unico senza nome, proprio questo dito è quello essenziale a reggere il bisturi, strumento del taglio.
Proprio nello scambio di ruolo con la madre, A. cambia il tono della voce. Rimane perplesso poiché se ne accorge, e non può non rendersi conto che ormai non può più tornare indietro a correggere ciò che si è manifestato: il 'così impari!' minaccioso e ricattatorio si è trasformato nel 'così, impari', ammaestramento e viatico, impartito proprio da quella funzione materna che prima tratteneva e legava e che ora si trasforma in una figura archetipica di 'Sophia'.
L'ambiguità semantica ha fatto esperire al protagonista, e con lui, data l'intensità del momento, a tutto il gruppo, l'ambivalenza del simbolo, entrato in gioco con entrambe le sue facce.
Non c'è da meravigliarsi se la trasformazione passa attraverso il capovolgimento del senso: ciò è pertinente al registro simbolico.
Dopo questo gioco il paziente potrà legittimarsi nel desiderio di entrare nel gruppo di formazione professionale allo psicodramma da lui prima fantasticato come inaccessibile e comunque troppo impegnativo.
Qualche tempo dopo, A. definirà in un altro sogno il gruppo di formazione come 'gruppo di ricreazione, nel senso di ri-creazione.
Come spesso mi è capitato di osservare, con un gioco di parole l'inconscio ha comunicato all'io conscio la possibilità dell'ironia e della presa di distanza da una problematica che prima lo irretiva.
Lo stesso gruppo di formazione accoglie il messaggio del sogno inserendolo nel proprio linguaggio simbolico e facendone un parametro di ricerca: un gioco uscito in una seduta è gioco di ripetizione o di ricreazione? L'interrogativo riguarda da vicino chi dirige lo psicodramma.
Vediamo infine, con una maggior ricchezza di particolari, l'intenso momento della dialettica dell'inconscio, che il gioco psicodrammatico rende operante.
Tralascio le notizie sulla sognatrice per sottolineare che la sua è una vicenda paradigmatica. Chiamerò la protagonista Alfa.
Ecco il sogno:

Dopo una serie di avventure che hanno a che fare col viaggio analitico, entro in una casa che riconosco come reggia per certe insegne regali. Due persone, il re e la regina, sono sedute al tavolo del pasto regale. Per avvicinarmi devo superare l'imbarazzo di una cacca del mio cane che vedo sul pavimento, ma sento che posso non preoccuparmene più. Quando mi siedo al tavolo mi viene dato dal re un biglietto da visita per ritrovare la via, caso mai perdessi la strada. Si tratta di qualcosa di solido, come di ceramica, verde mare-azzurro cielo; vi sono incisi simboli che riconosco come tali ma che temo di non saper decifrare esattamente, come se ne dovessi sbagliare la traduzione. Quando sto per mangiare, la regina mi chiede di leggere che cosa c'è scritto. Io provo, leggo ma forse sbaglio. Provo imbarazzo.

Per rivivere il sogno e farne conoscenza attraverso la messa in gioco psicodrammatica, Alfa fa queste scelte:
—   il re è Beta, la cui storia personale e il cui travaglio analitico portano nel gruppo la simbolica del fanciullo divino che, amato per la sua bellezza, corre perennemente il rischio dell'annegamento nella grande Madre seducente.
—   la regina è Gamma: che nel gruppo, con la sua storia personale e la sua problematica, porta solo una metà dell'archetipo della Madre. Dolorante esempio di inflazione del versante negativo della Grande Madre, svaluta perennemente se stessa e i propri sogni, sempre preda dei propri attacchi di invidia.
—   il biglietto da visita apparentemente indecifrabile (ma evidentemente allusivo al tema dell'identità intesa come individuazione) sarà Delta, che nel gruppo vive la drammatica conflittualità di chi non riesce a definirsi se non in base all'altrui definizione rinunciando così alla propria individuazione. Un “maschile indecifrabile”, lo definisce Alfa, scegliendolo per la ricchezza interiore che in Delta si intuisce sotto la maschera, anche qui, dell'autosvalutazione.
La scelta è, come si vede, operata sul versante negativo. Ma la ormai acquisita capacità di analizzare anche le scelte degli ego ausiliari impone ad Alfa, (in piedi al centro della scena psicodrammatica e quindi in posizione attiva al centro della propria scena interiore), la presa di coscienza della antica tendenza a svalutare i contenuti dei propri sogni, a privilegiare la faccia negativa dei simboli.
Così, ancor prima che l'azione psicodrammatica inizi, Alfa si rende conto del suo conflitto e sa di essere di fronte al solito bivio. O rinunciare alla comprensione attiva adagiandosi nell'attesa che l'altro traduca per lei ciò che essa stessa si dice, per poi non riconoscerne la portata e il senso profondo. Oppure assumersi la responsabilità della ricerca, al di là del dubbio e del fraintendimento che lei stessa frappone come resistenza al cambiamento di un passato, di dipendenza e di incapacità a parlare in prima persona.
Che ci si trovi di fronte ad un salto, al salto, è confermato da un crescendo di emozione e da un silenzio denso di concentrazione che pervade il gruppo. Io stessa, come psicodrammatista, provo quel sentimento intenso che ho imparato a riconoscere come segno che qualche cosa di importante, di fondamentale sta accadendo.
La prima parte del gioco si snoda così all'insegna del Domine non sum dignus. Alfa si muove, nella reggia che non riconosce propria, come l'ospite in soggezione che sente ma non comprende, ascolta ma non capisce, legge ma non può tradurre.
Ma è proprio qui, che con il solo aiuto di una mia frase ("ma il sogno è tuo"), Alfa trova la forza di trasformare la paralisi del dubbio nella tensione del punto interrogativo. Inizia un vero e proprio viaggio, l'avventura del recuperare, attraverso i singoli scambi di ruolo, i significati, i simboli e le funzioni che prima aveva delegato ai personaggi del suo sogno non riconoscendoli come parti proprie.


Ed è un viaggio nel viaggio, perché è come se, nelle concise coordinate spazio-temporali di un gioco psicodrammatico, venissero ripercorse, ritrovandone il senso e quindi modificandole ancora, le tappe del lungo cammino analitico.
Ecco l'itinerario:
Nella parte del re si sente tranquilla, a suo agio, come chi può dare il biglietto da visita dell'autodefinizione ma, ancor più, come chi sa di poter sapere e grazie a questo salto (dal sapere concreto e delimitato e quindi già dato, al sapere di poter sapere, cioè al poter produrre conoscenza grazie al metodo acquisito) Alfa-Re può disinteressarsi del fatto che Alfa-Alfa (nella sua funzione egoica, cioè) stia o no decifrando esattamente i simboli.
Quello che conta è poter offrire il viatico tangibile che, già portatore di una prima coniunctio dei due opposti prima inconciliabili e separati (cielo e mare, pensiero e inconscio, volo dello spirito e abisso del materno), non può che aprire la strada del mai finito incontro con i simboli, con la loro duplice faccia, con la dialettica di un inconscio che mai finisce di creare.
Nella parte del biglietto — pezzo di ceramica portatore dei simboli (che prima sentiva ingombrante) — Alfa si sente 'solida', carica di significati, ma soprattutto investita di un 'compito' che non può certo esaurirsi nella mera traduzione immediata ma che si configura come impegno di traduzione continua.
Per ultimo tiene, come se fosse meno importante, per poi scoprire invece che è il più pericoloso, lo scambio di ruoli con la Regina.
Compaiono l'esitazione, la sospensione del senso, la tentazione di non capire che funzione la Regina rappresentasse nel sogno. Per un attimo riaffiora il fantasma dell'immobilismo, del silenzio vuoto di discorso e colmo di domande e di attese.
Io, da parte mia, sento che posso, che devo esclusivamente porre un interrogativo che lasci ad Alfa la libertà e la responsabilità di sapere. La vedo infatti in bilico sul sottile diaframma che separa la dimensione materna, confusiva e paralizzante, dall'eros che vivifica il logos e si fa spinta al sapere.
È così che alle sue spalle, mentre Alfa è abbandonata, lasciata andare sulla sedia, chiedo semplicemente: "Si tratta della regina madre?".
La parola magica legata alla regressione si fa chiave di comprensione e di trasformazione. Alfa si raddrizza, la sedia-letto diventa trono, il ricordo raccoglie l'indicazione portata dal sogno: "Quando sto per mangiare, la regina mi chiede di leggere che cosa ci sia scritto".
Il salto è fatto. Ora anche la coscienza ha recuperato ciò che l'inconscio già aveva maturato. Staccandosi dal materno nutritivo e addormentante, rinunciando al soddisfacimento del bisogno che lega nella dipendenza del non sapere e del non potersi nutrire di sé, la Madre Regina di cui si è sudditi si trasforma in Sophia, in spinta al sapere, in amore del sapere.

Diventa così chiaro anche un altro particolare del sogno: entrare nella reggia vuoi dire non preoccuparsi della cacca del cane, non identificarsi più con la pulsionalità priva di mediazione e incapace di sostenere la tensione del bisogno. E soprattutto, entrare nella reggia del Sé significa, come questo sogno archetipico ci riconferma, interiorizzare la triangolazione edipica, spogliarla dei fantasmi genitoriali per rivestirla delle insegne regali della dialettica interna: le nozze alchemiche del Re e della Regina si compiono laddove ci si può porre come terzo, come presenza alla coniunctio interna.
L'intensa, evidente e dichiarata commozione di Alfa alla fine del gioco non ha nulla a che fare con l'antico stordimento emozionale; tant'è che il conciso commento: "Adesso ho capito", segna il passaggio (come i fatti confermeranno) dalla fase della sudditanza (in cui ci si 'sottopone' all'analisi con una domanda di cura e di passività) alla fase di autogoverno in cui ci si pone come soggetti attivi della propria ricerca all'interno del rapporto analitico.
Vorrei qui sottolineare come, ancora una volta, lo psicodramma abbia rivelato la sua marcia in più rispetto all'analisi individuale perché sotto l'apparente magia del gioco, grazie alla messa in gioco del corpo e soprattutto allo scambio dei ruoli, si è compiuto il reale rito della trasformazione.
Ed è proprio qui, nello scambio dei ruoli, che si annodano e si snodano in tutta la loro complessità i fili e i discorsi del conscio e dell'incoscio individuale e collettivo: si annodano nel trovare una comunicabilità e una possibilità di traduzione, si snodano nel permettere di trovare una propria lettura individuale all'interno di una differenziazione che è poi il principio di individuazione. Qui sta il salto tra l'identificazione confusiva e l'identità del soggetto, il passo tra dire “sono come te” e dire “io sono”.
Non a caso infatti Alfa aveva scelto Gamma, la cui sorte (fino a quando lei stessa non si trasformerà) è quella di essere quasi sempre scelta per ruoli che hanno a che fare con il materno terrifico e castrante: immagine collettiva, quindi, ma più precisamente segno concreto e supporto di un simbolo che trascende la persona, tale che Alfa di fronte a Gamma è Alfa di fronte ad una proiezione sua e collettiva con cui deve fare i conti (e con cui li ha fatti, in perdita, per tanta parte della sua vita).
Ma nello scambio dei ruoli Alfa si trova nella possibilità di recuperare una parte propria (tanto più che si trattava di un sogno), di assumersene la responsabilità e quindi di trasformarla grazie alla comprensione. Abbiamo così assistito anche alla trasformazione di un simbolo, alla dialettica tra inconscio collettivo e inconscio personale all'interno di un processo di individuazione.
La chiave di comprensione ("Invece di mangiare, traduci") ha sciolto il legame con l'archetipo della Madre nutriente e soffocante per introdurre il simbolo della Regina interiore e della autonomia.
Che qualche cosa di veramente importante sia accaduto, lo confermano gli sviluppi successivi.
Per la prima volta, dopo due anni, Alfa può chiedermi una seduta individuale, "per festeggiare le insegne regali", mi dice al telefono.


Quando ci incontriamo, si dissolve l'ombra del silenzio e del non poter dire ed esce invece il discorso. C'è un problema, sul come “investire tutta questa energia” (laddove anticamente c'era il buco e la depressione, il non poter fare e addirittura il non poter uscire). Un sogno, non raccontato in gruppo, ci indica una strada e un rischio. Vale la pena di riportarlo, notando che era immediatamente precedente a quello della reggia:
"In mezzo ad una fiumana di gente, sto percorrendo una lunga strada. Siamo in pellegrinaggio. La caratteristica di questa miriade di persone è l'individualità: ognuno di noi è lì per un compito particolare. Tu, l'analista, unica che riconosco, sei più avanti di me sulla strada, ma non conduci il pellegrinaggio; persone e persone ti precedono, altre si frappongono tra te e me, altre ancora ci seguono. La profonda religiosità avvertita mi da forza e mi rasserena. Ma improvvisamente esclamo: 'Non proseguo più, questa è una Via Crucis".
Non è difficile mettere il “non proseguo più” dalla stessa parte delle difficoltà di percezione, dalla parte cioè della tentazione alla rinuncia di assumersi la responsabilità. Ma lo psicodramma ha dato i suoi frutti ed ora Alfa sa leggere nel suo sogno la spinta a proseguire e supera il rischio di arresto. Mi dichiara anzi con chiarezza il suo desiderio di entrare in un gruppo di formazione, affidando al tempo ed al lavoro di analisi il chiarimento sul suo desiderio di occuparsi di psicoanalisi (ciò che è appunto il compito dei gruppi di formazione).
Si chiede anche perché ha interrotto gli studi di psicologia alla Facoltà di Padova a cui si era iscritta anni addietro: non stava anche questa interruzione dalla parte del “non proseguo più”?

Conclusione

Avevo enunciato i punti fondamentali della mia riflessione sulla teoria dello Psicodramma Analitico in un articolo comparso su Atti dello psicodramma (anno VIII-1983), "Questa sera parla il soggetto" articolo a cui rimando come presupposto essenziale per la comprensione di queste nuove pagine.
Non è casuale il fatto che questa volta io abbia parlato non del gruppo ma del singolo nel gruppo: spesso accade che il salto che avviene nel gruppo divenga un salto del gruppo. Ci sarà occasione per approfondire questo discorso, mi auguro, in un convegno che esiga nei confronti delle varie posizioni teoriche lo stesso rispetto che il gruppo di Psicodramma Analitico esige nei confronti delle singole soggettualità.


Parlare di dissenso, oggi, significa rimanere ingabbiati nella logica precedente: il dissenso non è che l'altra faccia del consenso.
Il passaggio dal crudo al cotto, dalla natura alla cultura, dalle problematiche pregenitali alla conquista di una totalità interiore che riassuma a sé la diversità proiettata e delegata all'altro, è un passaggio auspicabile per chi sa che in questa seconda metà di secolo potrebbe anche capitargli di esaurire il tempo messogli a disposizione per la crescita.
Ho scelto il linguaggio dei sogni e ho tentato di dare un'idea, per quanto vaga e incompleta, del mio modo di lavorare sul sogno in Psicodramma nella convinzione che l'unica discriminante che rende Analitico lo Psicodramma sia l'attenzione e l'ascolto del discorso dell'inconscio. Indipendentemente dalla scuola o corrente psicoanalitica a cui si fa riferimento, l'ortodossia dello Psicodramma Analitico sta nel garantire una situazione analitica.
Mi è parso sempre più chiaro, in questi dodici anni di lavoro che, se esistono sogni di trasformazione, esiste un fenomeno altrettanto interessante, peculiare dello Psicodramma, che è la trasformazione del sogno.
Dico 'fenomeno' perché ritengo che la trasformazione non possa essere né indotta né coartata: semplicemente è l'epifania di ciò che nel linguaggio del sogno non è immediatamente leggibile.
Credo che la trasformazione sia implicita nel sogno, ne sia parte integrante come, ugualmente, di tanti sogni ritengo esser parte integrante il risveglio che provocano.
Negli esempi presi in considerazione il messaggio manifesto è di carattere regressivo: "Guarda che cosa mi fa di nuovo", "Così impari a uscir di casa" e infine il "Non so leggere i simboli".
Ma l'ambiguità semantica veicola la manifestazione del significato opposto e apre così la via al simbolo: il messaggio regressivo svela la sua faccia progressiva ed è simbolo nel linguaggio.
Si tratta, ogni volta, del rinnovamento della vicenda di Edipo: la Sfinge-inconscio pone l’enigma-sogno. La soluzione permette il superamento della soglia, il passaggio dalla condizione di figlità di fronte all'altro e al proprio stesso inconscio alla posizione adulta del soggetto capace di dialogare con l'altro e con il proprio inconscio.
Forse per questo i sogni che portano con sé la possibilità-necessità della trasformazione sono eventi eccezionali.

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